Perché l’industria degli armamenti non conviene al Paese - Francesco Vignarca
Lo scrivevamo proprio un anno fa dalle pagine de il manifesto: mentre l’Italia chiudeva per il Covid-19 le fabbriche di armamenti potevano decidere autonomamente se rimanere aperte grazie ad una concessione del governo che arrivava a definirle «apicali». Lo confermano gli elementi portati all’attenzione del grande pubblico dalla puntata di Presa Diretta di questo lunedì: la «dittatura delle armi» riesce a proteggere con qualsiasi governo gli affari militari. E sicuramente non è nei programmi dell’esecutivo di Mario Draghi e del confermato Lorenzo Guerini un cambio di rotta.
Il ministro
è stato chiaro nelle sue linee programmatiche presentate al Parlamento: bisogna
agire «valorizzando pienamente l’intero potenziale esprimibile dall’Industria
della Difesa, di cui è essenziale assicurare lo sviluppo ed il posizionamento
sul mercato europeo ed internazionale»,. L’obiettivo sarebbe «impiegare le
risorse della Difesa per sviluppare pienamente l’intero potenziale esprimibile
dall’Industria di settore, attraverso una rinnovata sinergia», anche e
soprattutto in questa fase delicata ritenendo «fondamentale investire nel pieno
rilancio dell’industria della Difesa, non solo quale settore trainante
dell’economia ma (…) in quanto presidio di sovranità, libertà, sicurezza e
prosperità per il futuro del Paese». Tralasciando l’immagine di armi viste come
presidio di «libertà e sicurezza» è importante anche domandarsi se sia così vero
anche il collegamento con la «prosperità» dato sempre troppo facilmente per
scontato. E troppo spesso utilizzato come scusante per giustificare scelte
distruttive.
Partiamo dal
fatturato. Secondo uno studio del 2018 realizzato da Ambrosetti in collaborazione
con Leonardo il comparto italiano di Aerospazio, Difesa e Sicurezza varrebbe
nel complesso 13,5 miliardi di euro all’anno. Secondo Aiad (la Confindustria
«militare»,) il totale delle aziende di questo settore svilupperebbe un
fatturato di 15,5 miliardi. Altre stime arrivano ad una quota di 16,2 miliardi.
Dunque, approssimando per eccesso (e non tutte le aziende del comparto si
possono considerare esclusivamente militari), si può considerare una produzione
totale di 17 miliardi tutta stimata pre-Covid. Se la confrontiamo con il Pil
del 2020 (già fortemente impattato dalla pandemia) si arriva di poco a superare
la misera quota dell’1%, che in realtà è più verosimilmente uno 0,9% in
condizioni normali. Davvero stiamo parlando di un’industria «fondamentale e insostituibile»
su cui puntare con investimenti pubblici robusti e per la quale chiudere un
occhio (o forse due) dal punto di vista etico e delle norme da rispettare? Lo
stesso si può dire per l’export, da sempre magnificato come elemento di valore
da parte dell’industria militare ma che alla prova dei dati non è così
significativo. Infatti non tutto l’export delle aziende con capitale tricolore
è davvero «italiano»: soprattutto le più grandi hanno una parte preponderante
della produzione fuori dai confini nazionali (ad esempio Leonardo dice che solo
il 16% dei propri ricavi è basato in Italia).
Limitandoci
a quello militare abbiamo un dato fissato dai circa 3 miliardi certificati
dalla Relazione al Parlamento della legge 185/90, che possiamo arrotondare a 3,5
valutando che non tutte le vendite di armamenti passano per quella strada (e
possibili slittamenti temporali, tanto è vero che sempre Leonardo ha dichiarato
di aver esportato da sola 2,9 miliardi di prodotti militari nel 2019). Anche in
questo caso stiamo parlando di cifre residuali rispetto al totale di circa 480
miliardi di euro di «made in Italy», uscito dalla Penisola: poco più dello
0,7%. Infine i dati sull’occupazione principale forma di «ricatto», –
soprattutto in alcune aree del Paese – per costringere la politica ad
assecondare l’economia armata. Le varie stime (sempre di fonte industriale)
convergono più o meno su 50.000 occupati diretti e 200-230.000 se consideriamo
un non meglio precisato «indotto» (sicuramente peraltro non solo militare). Stiamo
parlando di «ben» lo 0,21% (o 1% nel caso dell’indotto) di tutta la forza
lavoro italiana a fine 2020. Non certo la parte preponderante degli occupati in
Italia, che ad esempio per la sola piccola e media impresa ammontano a qualche
milione.
E allora perché
continuare ad ostinarsi a trovare una «giustificazione economica» per il
sostegno incondizionato all’industria delle armi, quando risulta evidente che
soprattutto valutando il medio periodo la spesa militare è infruttuosa anche da
quel punto di vista? Lo dimostrano studi condotti negli Usa (dove il
moltiplicatore è vantaggioso per il militare, visti i budget mostruosi del
Pentagono) per cui ogni milione di dollari speso nella difesa porta a meno di 7
occupati, mentre la stessa cifra nell’energia pulita ne produrrebbe poco meno
di 10, nell’educazione di base oltre 19, nell’educazione superiore più di 11 e
nella cura sanitaria oltre 14. Dunque, a chi giovano gli investimenti armati?
Al Paese nel suo complesso sicuramente no.
Armi, i numeri parlano chiaro: non ci convengono – intervista a Francesco
Vignarca
(di Alessandro Canella per
Radio Città Fujiko)
L’industria di armi in Italia non produce particolari vantaggi
dal punto di vista economico o lavorativo, ma al contrario viola costantemente
l’etica e i diritti umani. Eppure nel nostro Paese (e non solo) rimane un
dogma, al punto che i governi forzano, aggirano o trasgrediscono la legge
185 del 1990. A passare dei guai giudiziari, però, non sembrano essere
coloro che esportano verso regimi e scenari di conflitto, ma coloro che cercano
di fermare i traffici di morte, come sta accadendo ai portuali di Genova,
finiti sotto inchiesta addirittura per associazione a delinquere.
A mettere in fila i numeri sull’industria delle armi del nostro Paese, che
anche il ministro della Difesa Lorenzo è tornato a difendere sostenendo la
necessità di valorizzarla, è Francesco Vignarca della Rete
Italiana Pace e Disarmo in un articolo pubblicato oggi sul Manifesto.
I dati citati da Vignarca sono impietosi. Il fatturato dell’industria delle
armi si aggira sui 17 miliardi, meno dell’1% del pil italiano.
Una cifra che cala se si considera l’export, per cui l’Italia è al decimo posto
nella classifica mondiale. I circa 3,5 miliardi di esportazioni belliche del
nostro Paese rappresentano appena lo 0,7% di tutto l’export made
in Italy, che ammonta a 480 miliardi.
Non va meglio sotto il versante occupazione, spesso addotto in modo
apologetico per soprassedere a questioni etiche. I dipendenti diretti dell’industria
di armamenti sono appena 50mila, pari allo 0,21% dell’intera forza
lavoro attiva in Italia. Se si considera anche l’indotto, che comunque
non coinvolge lavoratori e lavoratrici esclusivamente nel settore, ecco che i
200-230mila occupati rappresentano appena l’1%.
Secondo uno studio statunitense, nel Paese a stelle e strisce per ogni milione
di euro investito nell’industria delle armi si creano appena 7 posti di lavoro.
Con la stessa cifra, invece, si creerebbero quasi 10 posti di lavoro nelle energie
rinnovabili, 19 posti di lavoro nell’educazione di base o 14 posti di lavoro
nella cura sanitaria.
E allora perché c’è una difesa così dogmatica di un settore piuttosto
residuale? «È marginale per la collettività, ma è un settore molto
vantaggioso per i pochi che ne detengono le leve – osserva Vignarca ai
nostri microfoni – È vantaggioso dal punto di vista politico perché chi
sostiene o favorisce l’industria degli armamenti fa carriera più facilmente,
mentre chi cerca di controllarla non la fa». Il portavoce della Rete Italiana
Pace e Disarmo sottolinea che quello degli armamenti non è un vero e proprio
mercato, perché la produzione e la vendita spesso sono una scelta politica e
chi è nel settore non deve nemmeno rendersi particolarmente competitivo a
livello industriale.
Sul fronte normativo, invece, le istituzioni stesse o le fabbriche d’armi
che aggirano la legge 185 del 1990, che vieta le esportazioni in zone di guerra
o verso Paesi che non rispettano i diritti umani, non sembrano subire
particolari ripercussioni giudiziarie. Su questo versante è ancora attiva
l’inchiesta circa l’utilizzo da parte dell’Arabia Saudita di bombe prodotte in Italia ed utilizzate nel massacro di
civili in Yemen. Il caso, che risale al 2016, nacque dal
ritrovamento di residui bellici che riconducevano a materiale prodotto nello
stabilimento sardo della Rwm Italia, azienda produttrice di ordigni
collegata alla tedesca Rheinmetall.
Molto più solerte, invece, è l’azione giudiziaria nei confronti di cinque
attivisti del Calp (Collettivo Autonomo Lavoratori Portuali) di
Genova, indagati per associazione a delinquere, resistenza e attentato alla
sicurezza pubblica dei trasporti per aver bloccato, nel maggio 2019, la nave cargo
battente bandiera dell’Arabia Saudita Bahri Yambu, carica di armi, attraccata a
un terminal del porto di Genova. I portuali avevano bloccato l’ingresso degli
ormeggiatori del porto, brandendo uno striscione con scritto: «Stop ai traffici
di armi, guerra alla guerra». L’intento dello sciopero proclamato per quella
giornata era impedire che si caricassero o scaricassero armamenti e
strumentazioni accessorie che sarebbero stati impegnati per la guerra in Yemen.
«Nell’inchiesta sulle armi in Yemen – ricorda Vignarca – dovemmo
opporci in appello alla richiesta di archiviazione del pubblico ministero,
che tra l’altro aveva condotto le indagini in modo farraginoso. Per fortuna la
gip dispose che le indagini andassero avanti. Ma i pochi magistrati che in
passato hanno iniziato ad indagare si sono dovuti fermare perché spesso veniva
messo il segreto di Stato». Un approccio giudiziario molto diverso,
insomma, da quello riservato ai portuali di Genova, per i quali, ironizza
Vignarca, si cerca di capire se un fumogeno costituisca o meno l’associazione a
delinquere.
Vignarca: “La potenza della lobby delle armi, chi si oppone non viene
rieletto”
La “dittatura delle armi” in Italia. Globalist ne parla
con Francesco Vignarca, autore di Mil€x, il primo Osservatorio
sulle spese militari italiane, ed esponente di primo piano della Rete Italiano
Pace e Disarmo.
La “dittatura delle armi”. E’ il titolo della puntata di ieri di Presa
Diretta, la trasmissione d’inchiesta di Riccardo Iacona. Come si
connota questa “dittatura”?
Le decisioni sugli armamenti negli ultimi dieci anni sono state prese in
maniera quasi automatica. Io cito sempre il fatto che alcuni dei sistemi d’arma
più costosi che abbiamo poi acquisito, sono stati decisi e votati dal
parlamento in poche ore, sempre facendo pochissime rimostranze alla proposta
che arrivava dalla Difesa, dagli stati maggiori, ed esercitando raramente un
controllo. Solo in alcuni casi c’è stata la volontà di fare delle indagini
conoscitive, di esercitare controlli, di cambiare un po’ le regole, ma poi da
un lato i parlamentari che si sono spesi per questa cosa sono stati messi
fuorigioco, e dall’altro prevale sempre l’inerzia del fatto che su questi temi
non si può andare contro la Difesa, non si può cercare di avere una trasparenza
e una indipendenza da questo punto di vista, e poi pesa e non poco il fatto che
se ci si mette contro questi interessi e queste decisioni si fa poca carriera.
Cambiando sostantivo, si può parlare di una lobby trasversale delle armi?
C’è un pezzo di quello che Eisenhower chiamava il “complesso militare
industriale” che porta avanti imperterrito il proprio percorso. In alcuni casi
perché ci credono, credono veramente che la capacità dell’Italia di portare
avanti i propri interessi dipenda dal dispiegamento militare o delle spese
militari; in altri casi, perché capiscono che tutto questo favorisce un pezzo
d’industria che lucra su queste cose, non certo a vantaggio del sistema Paese
ma a vantaggio solo dei propri interessi. In questo senso sì, c’è una lobby,
c’è un pezzo di strutture che va in quella direzione. Io, però, sul terreno
parlamentare registro più che altro una mancanza di coraggio. Alla Commissione
Difesa storicamente sono sempre andati coloro che non avevano altro dove andare
e rimanevano con il bastoncino corto in mano, e quindi erano più facilmente
malleabili, non dico manipolabili ma era difficile per loro mettersi contro.
Devo dire che nella scorsa legislatura, soprattutto alla Camera dei deputati,
la Commissione Difesa ha iniziato a lavorare diversamente, a manifestare un
cambio di passo. Ed è una cosa che succede dappertutto. Negli Stati Uniti, il
controllo sulle spese militari è forsennato, e non si tratta certo di un Paese pacifista,
ma perché vogliono sapere cosa succede. Invece da noi sembra quasi che se tu
vuoi andare a controllare, allora sei disfattista, sei contro lo Stato…Invece
no. Purtroppo c’è una mancanza di coraggio, tranne per alcuni esponenti che
alla fine, proprio per il loro impegno, sono stati messi da parte. La
trasmissione di ieri ha fatto vedere il caso di Gian Piero Scanu, ma pensiamo,
per restare alla scorsa legislatura, di Giorgio Zanin, sempre del Pd, o a
Giulio Marcon: tutti quelli che hanno cercato di muoversi in una certa
direzione, chissà come mai non sono più in Parlamento. Perché se hai il
coraggio di esporti, di rivendicare e praticare controlli e trasparenza, rimani
da solo. E’ questo un po’ il problema. Per cui uno dei nostri tentativi, anche
come Rete Italiana Pace e Disarmo è quello di fare una pressione popolare
affinché poi chi sta in Parlamento possa sentirsi non più da solo nel cercare
di osteggiare questi mega interessi. Ogni tanto funziona.
Qualche esempio?
E’ il caso della revoca degli export di armamenti. Alcuni parlamentari,
soprattutto donne, hanno preso in mano la situazione. Parlando delle spese
militari, è il caso dei droni che si volevano comperare. Una spesa scandalosa
di 800 milioni di euro, fatta per favorire Piaggio Aerospace e certi giri. Il
combinato disposto dell’iniziativa dal basso del movimento pacifista e
disarmista e l’impegno di parlamentari che hanno avuto il coraggio di esporsi,
ha fatto sì che questa operazione sia saltata. Però sono casi rari. Quello che
servirebbe è un controllo continuo di trasparenza. Questo non lo dovrebbe
volere solo il pacifista disarmista ma qualunque cittadino voglia avere un
controllo sugli ingenti fondi che vengono destinati a questo comparto, per
sapere come vanno spesi. La gente si indigna per le auto blu, che magari
costano 50mila euro, e non s’indigna per le navi blu, o gli aerei blu, o i
carri armati blu, che costano molto ma molto di più.
Una vergogna nella vergogna di questa “dittatura” delle armi, riguarda gli
affari che in questo settore l’Italia continua ad avere con Paesi retti da
regimi autoritari, liberticidi, sanguinari: la Turchia di Erdogan, l’Egitto di
al-Sisi, l’Arabia Saudita di Mohammed bin Salman, solo per citarne alcuni. Come
si spiega questa lucrosa vergogna?
Per due motivi: da un lato, ci sono interessi di alcuni che vengono fatti
passare come interessi di tutti e invece non lo sono, perché l’investimento nel
settore delle armi produce vantaggi solo per chi ha in mano quelle leve, ma è
chiaro, e tutti i dati econometrici lo stanno a dimostrare, che investire in
altri comparti, energia pulita, la sanità, l’istruzione, non solo è più sensato
ma ci porta maggiori ritorni economici. Dall’altro lato, perché si gioca alla
geopolitica, un giochino fatto di luoghi comuni, del tipo “se vogliamo
influenzare certi Paesi dobbiamo portarci le armi”. E’ vero il contrario. Ormai
siamo in mano ai Paesi che comperano le nostre armi. Lo si è visto nel caso
libico, con Turchia ed Egitto che hanno fatto quel che hanno voluto e noi che
gli abbiamo fornito le armi più degli altri non abbiamo certo aumentato la
nostra incidenza in quel Paese e nell’area del Mediterraneo. Lo si è visto nel
caso dello Yemen, che oggi entra nei sei anni dall’inizio di una guerra devastante,
della quale portano una pesante responsabilità quei Paesi,
tra cui l’Italia, che hanno venduto armi alle parti in conflitto, in
particolare alla coalizione guidata dall’Arabia Saudita.
Bisogna tornare a ragionare sensatamente. Insisto su questo: non è solo un
punto di partenza del pacifista, del disarmista, ma di riflessione, di logica.
Per anni ci è stato detto che con la vendita delle armi avremmo potuto
recuperare influenza e migliorare le cose. Questo mantra si è rivelato
empiricamente errato. Forse proprio perché è sbagliato il concetto di fondo, il
modello che si sostiene. Se vuoi la pace, prepara la pace. E quindi ragiona
diversamente. Se vuoi i diritti, i diritti li devi rispettare sempre, non li
puoi sospendere quando vuoi, quando ti fa comodo. Perché poi c’è qualcuno che
potrà sospenderli anche per noi.
Nessun commento:
Posta un commento