giovedì 1 aprile 2021

Francesco Vignarca analizza l'industria delle armi in Italia

Perché l’industria degli armamenti non conviene al Paese - Francesco Vignarca


Lo scrivevamo proprio un anno fa dalle pagine de il manifesto: mentre l’Italia chiudeva per il Covid-19 le fabbriche di armamenti potevano decidere autonomamente se rimanere aperte grazie ad una concessione del governo che arrivava a definirle «apicali». Lo confermano gli elementi portati all’attenzione del grande pubblico dalla puntata di Presa Diretta di questo lunedì: la «dittatura delle armi» riesce a proteggere con qualsiasi governo gli affari militari. E sicuramente non è nei programmi dell’esecutivo di Mario Draghi e del confermato Lorenzo Guerini un cambio di rotta.

Il ministro è stato chiaro nelle sue linee programmatiche presentate al Parlamento: bisogna agire «valorizzando pienamente l’intero potenziale esprimibile dall’Industria della Difesa, di cui è essenziale assicurare lo sviluppo ed il posizionamento sul mercato europeo ed internazionale»,. L’obiettivo sarebbe «impiegare le risorse della Difesa per sviluppare pienamente l’intero potenziale esprimibile dall’Industria di settore, attraverso una rinnovata sinergia», anche e soprattutto in questa fase delicata ritenendo «fondamentale investire nel pieno rilancio dell’industria della Difesa, non solo quale settore trainante dell’economia ma (…) in quanto presidio di sovranità, libertà, sicurezza e prosperità per il futuro del Paese». Tralasciando l’immagine di armi viste come presidio di «libertà e sicurezza» è importante anche domandarsi se sia così vero anche il collegamento con la «prosperità» dato sempre troppo facilmente per scontato. E troppo spesso utilizzato come scusante per giustificare scelte distruttive.

Partiamo dal fatturato. Secondo uno studio del 2018 realizzato da Ambrosetti in collaborazione con Leonardo il comparto italiano di Aerospazio, Difesa e Sicurezza varrebbe nel complesso 13,5 miliardi di euro all’anno. Secondo Aiad (la Confindustria «militare»,) il totale delle aziende di questo settore svilupperebbe un fatturato di 15,5 miliardi. Altre stime arrivano ad una quota di 16,2 miliardi. Dunque, approssimando per eccesso (e non tutte le aziende del comparto si possono considerare esclusivamente militari), si può considerare una produzione totale di 17 miliardi tutta stimata pre-Covid. Se la confrontiamo con il Pil del 2020 (già fortemente impattato dalla pandemia) si arriva di poco a superare la misera quota dell’1%, che in realtà è più verosimilmente uno 0,9% in condizioni normali. Davvero stiamo parlando di un’industria «fondamentale e insostituibile» su cui puntare con investimenti pubblici robusti e per la quale chiudere un occhio (o forse due) dal punto di vista etico e delle norme da rispettare? Lo stesso si può dire per l’export, da sempre magnificato come elemento di valore da parte dell’industria militare ma che alla prova dei dati non è così significativo. Infatti non tutto l’export delle aziende con capitale tricolore è davvero «italiano»: soprattutto le più grandi hanno una parte preponderante della produzione fuori dai confini nazionali (ad esempio Leonardo dice che solo il 16% dei propri ricavi è basato in Italia).

Limitandoci a quello militare abbiamo un dato fissato dai circa 3 miliardi certificati dalla Relazione al Parlamento della legge 185/90, che possiamo arrotondare a 3,5 valutando che non tutte le vendite di armamenti passano per quella strada (e possibili slittamenti temporali, tanto è vero che sempre Leonardo ha dichiarato di aver esportato da sola 2,9 miliardi di prodotti militari nel 2019). Anche in questo caso stiamo parlando di cifre residuali rispetto al totale di circa 480 miliardi di euro di «made in Italy», uscito dalla Penisola: poco più dello 0,7%. Infine i dati sull’occupazione principale forma di «ricatto», – soprattutto in alcune aree del Paese – per costringere la politica ad assecondare l’economia armata. Le varie stime (sempre di fonte industriale) convergono più o meno su 50.000 occupati diretti e 200-230.000 se consideriamo un non meglio precisato «indotto» (sicuramente peraltro non solo militare). Stiamo parlando di «ben» lo 0,21% (o 1% nel caso dell’indotto) di tutta la forza lavoro italiana a fine 2020. Non certo la parte preponderante degli occupati in Italia, che ad esempio per la sola piccola e media impresa ammontano a qualche milione.

E allora perché continuare ad ostinarsi a trovare una «giustificazione economica» per il sostegno incondizionato all’industria delle armi, quando risulta evidente che soprattutto valutando il medio periodo la spesa militare è infruttuosa anche da quel punto di vista? Lo dimostrano studi condotti negli Usa (dove il moltiplicatore è vantaggioso per il militare, visti i budget mostruosi del Pentagono) per cui ogni milione di dollari speso nella difesa porta a meno di 7 occupati, mentre la stessa cifra nell’energia pulita ne produrrebbe poco meno di 10, nell’educazione di base oltre 19, nell’educazione superiore più di 11 e nella cura sanitaria oltre 14. Dunque, a chi giovano gli investimenti armati? Al Paese nel suo complesso sicuramente no.

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Armi, i numeri parlano chiaro: non ci convengono – intervista a Francesco Vignarca

 

(di Alessandro Canella per Radio Città Fujiko)

 

L’industria di armi in Italia non produce particolari vantaggi dal punto di vista economico o lavorativo, ma al contrario viola costantemente l’etica e i diritti umani. Eppure nel nostro Paese (e non solo) rimane un dogma, al punto che i governi forzano, aggirano o trasgrediscono la legge 185 del 1990. A passare dei guai giudiziari, però, non sembrano essere coloro che esportano verso regimi e scenari di conflitto, ma coloro che cercano di fermare i traffici di morte, come sta accadendo ai portuali di Genova, finiti sotto inchiesta addirittura per associazione a delinquere.

A mettere in fila i numeri sull’industria delle armi del nostro Paese, che anche il ministro della Difesa Lorenzo è tornato a difendere sostenendo la necessità di valorizzarla, è Francesco Vignarca della Rete Italiana Pace e Disarmo in un articolo pubblicato oggi sul Manifesto.
I dati citati da Vignarca sono impietosi. Il fatturato dell’industria delle armi si aggira sui 17 miliardi, meno dell’1% del pil italiano. Una cifra che cala se si considera l’export, per cui l’Italia è al decimo posto nella classifica mondiale. I circa 3,5 miliardi di esportazioni belliche del nostro Paese rappresentano appena lo 0,7% di tutto l’export made in Italy, che ammonta a 480 miliardi.

Non va meglio sotto il versante occupazione, spesso addotto in modo apologetico per soprassedere a questioni etiche. I dipendenti diretti dell’industria di armamenti sono appena 50mila, pari allo 0,21% dell’intera forza lavoro attiva in Italia. Se si considera anche l’indotto, che comunque non coinvolge lavoratori e lavoratrici esclusivamente nel settore, ecco che i 200-230mila occupati rappresentano appena l’1%.
Secondo uno studio statunitense, nel Paese a stelle e strisce per ogni milione di euro investito nell’industria delle armi si creano appena 7 posti di lavoro. Con la stessa cifra, invece, si creerebbero quasi 10 posti di lavoro nelle energie rinnovabili, 19 posti di lavoro nell’educazione di base o 14 posti di lavoro nella cura sanitaria.

E allora perché c’è una difesa così dogmatica di un settore piuttosto residuale? «È marginale per la collettività, ma è un settore molto vantaggioso per i pochi che ne detengono le leve – osserva Vignarca ai nostri microfoni – È vantaggioso dal punto di vista politico perché chi sostiene o favorisce l’industria degli armamenti fa carriera più facilmente, mentre chi cerca di controllarla non la fa». Il portavoce della Rete Italiana Pace e Disarmo sottolinea che quello degli armamenti non è un vero e proprio mercato, perché la produzione e la vendita spesso sono una scelta politica e chi è nel settore non deve nemmeno rendersi particolarmente competitivo a livello industriale.

Sul fronte normativo, invece, le istituzioni stesse o le fabbriche d’armi che aggirano la legge 185 del 1990, che vieta le esportazioni in zone di guerra o verso Paesi che non rispettano i diritti umani, non sembrano subire particolari ripercussioni giudiziarie. Su questo versante è ancora attiva l’inchiesta circa l’utilizzo da parte dell’Arabia Saudita di bombe prodotte in Italia ed utilizzate nel massacro di civili in Yemen. Il caso, che risale al 2016, nacque dal ritrovamento di residui bellici che riconducevano a materiale prodotto nello stabilimento sardo della Rwm Italia, azienda produttrice di ordigni collegata alla tedesca Rheinmetall.

Molto più solerte, invece, è l’azione giudiziaria nei confronti di cinque attivisti del Calp (Collettivo Autonomo Lavoratori Portuali) di Genova, indagati per associazione a delinquere, resistenza e attentato alla sicurezza pubblica dei trasporti per aver bloccato, nel maggio 2019, la nave cargo battente bandiera dell’Arabia Saudita Bahri Yambu, carica di armi, attraccata a un terminal del porto di Genova. I portuali avevano bloccato l’ingresso degli ormeggiatori del porto, brandendo uno striscione con scritto: «Stop ai traffici di armi, guerra alla guerra». L’intento dello sciopero proclamato per quella giornata era impedire che si caricassero o scaricassero armamenti e strumentazioni accessorie che sarebbero stati impegnati per la guerra in Yemen.

«Nell’inchiesta sulle armi in Yemen – ricorda Vignarca – dovemmo opporci in appello alla richiesta di archiviazione del pubblico ministero, che tra l’altro aveva condotto le indagini in modo farraginoso. Per fortuna la gip dispose che le indagini andassero avanti. Ma i pochi magistrati che in passato hanno iniziato ad indagare si sono dovuti fermare perché spesso veniva messo il segreto di Stato». Un approccio giudiziario molto diverso, insomma, da quello riservato ai portuali di Genova, per i quali, ironizza Vignarca, si cerca di capire se un fumogeno costituisca o meno l’associazione a delinquere.

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Vignarca: “La potenza della lobby delle armi, chi si oppone non viene rieletto”

 

La “dittatura delle armi” in Italia. Globalist ne parla con Francesco Vignarca, autore di Mil€x, il primo Osservatorio sulle spese militari italiane, ed esponente di primo piano della Rete Italiano Pace e Disarmo.

 

La “dittatura delle armi”. E’ il titolo della puntata di ieri di Presa Diretta, la trasmissione d’inchiesta di Riccardo Iacona.  Come si connota questa “dittatura”?

Le decisioni sugli armamenti negli ultimi dieci anni sono state prese in maniera quasi automatica. Io cito sempre il fatto che alcuni dei sistemi d’arma più costosi che abbiamo poi acquisito, sono stati decisi e votati dal parlamento in poche ore, sempre facendo pochissime rimostranze alla proposta che arrivava dalla Difesa, dagli stati maggiori, ed esercitando raramente un controllo. Solo in alcuni casi c’è stata la volontà di fare delle indagini conoscitive, di esercitare controlli, di cambiare un po’ le regole, ma poi da un lato i parlamentari che si sono spesi per questa cosa sono stati messi fuorigioco, e dall’altro prevale sempre l’inerzia del fatto che su questi temi non si può andare contro la Difesa, non si può cercare di avere una trasparenza e una indipendenza da questo punto di vista, e poi pesa e non poco il fatto che se ci si mette contro questi interessi e queste decisioni si fa poca carriera.

Cambiando sostantivo, si può parlare di una lobby trasversale delle armi?

C’è un pezzo di quello che Eisenhower chiamava il “complesso militare industriale” che porta avanti imperterrito il proprio percorso. In alcuni casi perché ci credono, credono veramente che la capacità dell’Italia di portare avanti i propri interessi dipenda dal dispiegamento militare o delle spese militari; in altri casi, perché capiscono che tutto questo favorisce un pezzo d’industria che lucra su queste cose, non certo a vantaggio del sistema Paese ma a vantaggio solo dei propri interessi. In questo senso sì, c’è una lobby, c’è un pezzo di strutture che va in quella direzione. Io, però, sul terreno parlamentare registro più che altro una mancanza di coraggio. Alla Commissione Difesa storicamente sono sempre andati coloro che non avevano altro dove andare e rimanevano con il bastoncino corto in mano, e quindi erano più facilmente malleabili, non dico manipolabili ma era difficile per loro mettersi contro. Devo dire che nella scorsa legislatura, soprattutto alla Camera dei deputati, la Commissione Difesa ha iniziato a lavorare diversamente, a manifestare un cambio di passo. Ed è una cosa che succede dappertutto. Negli Stati Uniti, il controllo sulle spese militari è forsennato, e non si tratta certo di un Paese pacifista, ma perché vogliono sapere cosa succede. Invece da noi sembra quasi che se tu vuoi andare a controllare, allora sei disfattista, sei contro lo Stato…Invece no. Purtroppo c’è una mancanza di coraggio, tranne per alcuni esponenti che alla fine, proprio per il loro impegno, sono stati messi da parte. La trasmissione di ieri ha fatto vedere il caso di Gian Piero Scanu, ma pensiamo, per restare alla scorsa legislatura, di Giorgio Zanin, sempre del Pd, o a Giulio Marcon: tutti quelli che hanno cercato di muoversi in una certa direzione, chissà come mai non sono più in Parlamento. Perché se hai il coraggio di esporti, di rivendicare e praticare controlli e trasparenza, rimani da solo. E’ questo un po’ il problema. Per cui uno dei nostri tentativi, anche come Rete Italiana Pace e Disarmo è quello di fare una pressione popolare affinché poi chi sta in Parlamento possa sentirsi non più da solo nel cercare di osteggiare questi mega interessi. Ogni tanto funziona.

Qualche esempio?

E’ il caso della revoca degli export di armamenti. Alcuni parlamentari, soprattutto donne, hanno preso in mano la situazione. Parlando delle spese militari, è il caso dei droni che si volevano comperare. Una spesa scandalosa di 800 milioni di euro, fatta per favorire Piaggio Aerospace e certi giri. Il combinato disposto dell’iniziativa dal basso del movimento pacifista e disarmista e l’impegno di parlamentari che hanno avuto il coraggio di esporsi, ha fatto sì che questa operazione sia saltata. Però sono casi rari. Quello che servirebbe è un controllo continuo di trasparenza. Questo non lo dovrebbe volere solo il pacifista disarmista ma qualunque cittadino voglia avere un controllo sugli ingenti fondi che vengono destinati a questo comparto, per sapere come vanno spesi. La gente si indigna per le auto blu, che magari costano 50mila euro, e non s’indigna per le navi blu, o gli aerei blu, o i carri armati blu, che costano molto ma molto di più.

Una vergogna nella vergogna di questa “dittatura” delle armi, riguarda gli affari che in questo settore l’Italia continua ad avere con Paesi retti da regimi autoritari, liberticidi, sanguinari: la Turchia di Erdogan, l’Egitto di al-Sisi, l’Arabia Saudita di Mohammed bin Salman, solo per citarne alcuni. Come si spiega questa lucrosa vergogna?

Per due motivi: da un lato, ci sono interessi di alcuni che vengono fatti passare come interessi di tutti e invece non lo sono, perché l’investimento nel settore delle armi produce vantaggi solo per chi ha in mano quelle leve, ma è chiaro, e tutti i dati econometrici lo stanno a dimostrare, che investire in altri comparti, energia pulita, la sanità, l’istruzione, non solo è più sensato ma ci porta maggiori ritorni economici. Dall’altro lato, perché si gioca alla geopolitica, un giochino fatto di luoghi comuni, del tipo “se vogliamo influenzare certi Paesi dobbiamo portarci le armi”. E’ vero il contrario. Ormai siamo in mano ai Paesi che comperano le nostre armi. Lo si è visto nel caso libico, con Turchia ed Egitto che hanno fatto quel che hanno voluto e noi che gli abbiamo fornito le armi più degli altri non abbiamo certo aumentato la nostra incidenza in quel Paese e nell’area del Mediterraneo. Lo si è visto nel caso dello Yemen, che oggi entra nei sei anni dall’inizio di una guerra  devastante, della quale portano  una pesante responsabilità quei  Paesi, tra cui l’Italia, che hanno venduto armi alle parti in conflitto,  in particolare alla coalizione guidata dall’Arabia Saudita.

Bisogna tornare a ragionare sensatamente. Insisto su questo: non è solo un punto di partenza del pacifista, del disarmista, ma di riflessione, di logica. Per anni ci è stato detto che con la vendita delle armi avremmo potuto recuperare influenza e migliorare le cose. Questo mantra si è rivelato empiricamente errato. Forse proprio perché è sbagliato il concetto di fondo, il modello che si sostiene. Se vuoi la pace, prepara la pace. E quindi ragiona diversamente. Se vuoi i diritti, i diritti li devi rispettare sempre, non li puoi sospendere quando vuoi, quando ti fa comodo. Perché poi c’è qualcuno che potrà sospenderli anche per noi.

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