Un sesso non
riconosciuto come tale – ha scritto Luce Irigaray – può contare solo “come non
sesso”, “negativo, inverso, rovescio dell’unico sesso visibile e
morfologicamente designabile”. Se sulla sessualità femminile, cancellata e
riscritta in base a parametri maschili, il femminismo ha riflettuto a lungo,
producendo cambiamenti significativi nella vita di molti, donne e uomini, non
si può dire altrettanto per quel lavoro non pagato che resta in gran
parte sepolto nelle case, nelle relazioni private, nella resa inconsapevole
delle donne a una consegna ritenuta ‘naturale’.
Il lavoro di
cura e il lavoro domestico, confusi con l’amore, con l’altruismo materno, con
l’ambigua collocazione dell’essere femminile, sospeso tra sacralità e
determinismo biologico, non riescono ancora oggi a essere visti e riconosciuti
per quello che sono sempre stati: sostegno materiale e affettivo al potere e al
privilegio di un sesso – ma, per estensione, anche di una classe, di una razza
– che ha
potuto perciò pensarsi autonomo, solo perché sciolto dai vincoli della
sopravvivenza, razionale perché alleggerito dal peso del corpo, forte per aver
svalutato debolezza, dipendenza, bisogni primari della vita umana, e asservito
coloro che sono chiamati a soddisfarli.
L’unico
lavoro riconosciuto come tale, sia da chi ne esalta le potenzialità illimitate, sia
da chi vorrebbe temprarlo secondo principi di giustizia e uguaglianza, è
il lavoro produttivo, associato a ricchezza, potere, successo, sviluppo,
proliferazione e consumo di merci. Espressione della supremazia maschile, prima
ancora che di un privilegio di classe, la divisione sessuale del lavoro
ha attraversato, senza cambiamenti sostanziali, sistemi economici diversi, dal
capitalismo al socialismo, dal fordismo al postfordismo, dalle economie locali
alla globalizzazione. Nonostante l’intensificarsi di ricerche e inchieste,
che riescono a scandagliare il lavoro non pagato in tutta la sua quotidiana,
complessa articolazione, e nonostante i risultati sorprendenti che ne
dimostrano la rilevanza quantitativa, in termini di tempo e denaro, l’ordine
delle priorità non sembra possa esserne toccato: la cura, componente essenziale
della vita umana, continua a macinare energie, intelligenza, saperi, destinati
a restare screditati, o riconosciuti per la loro importanza solo da chi ne è
protagonista, invisibile e inascoltato. La verità del rovesciamento di parti,
che ha permesso ai deboli di farla da padroni, agli sfruttati in fabbrica di
farsi sfruttatori in casa, riportata più volte nel cuore dell’analisi politica
da alcune componenti del femminismo, già a partire dagli anni Settanta,
continua a rimbalzare in un vuoto di interlocuzione che, a questo punto,
interroga uomini e donne.
“Non sono
solo le pratiche i simboli del sistema patriarcale che ci opprimono – scrive
Antonella Picchio -, ma la nostra assunzione di responsabilità rispetto alla
qualità della vita di uomini compagni e dei nostri figli. Noi abbiamo un
delirio di onnipotenza e loro hanno delle profonde debolezze nascoste e coperte
da noi”.
Se è vero
che la “riproduzione sociale della popolazione” non è una “questione
femminile”, che si possa risolvere nel privato, bensì il presupposto
imprescindibile della “produzione di merci”, perché è stato così
difficile, per non dire impossibile, negli anni in cui si è affermato un
diffuso movimento anticapitalista, trovare i nessi tra femminismo e lotta di
classe, o, quanto meno, da parte delle donne, “agire un conflitto
profondo”, mettendo al centro le condizioni di vita, il corpo, la
cultura, le relazioni e tutto ciò che erano venute scoprendo attraverso la loro
esperienza?
Si può
rilevare il limite di una interpretazione della cura in chiave esclusivamente
economica, quale è stata quella di Lotta Femminista – “salario al lavoro
domestico” -, e cioè l’assimilazione al lavoro produttivo di mansioni
complesse, particolari, profondamente implicate con la vita intima, la
maternità, la sessualità, i legami affettivi, che come tali non possono né
essere completamente monetizzate o affidate allo Stato. Ma non c’è dubbio che
ogni altro tentativo di affrontare le pesanti ricadute sulla donna della
divisione del lavoro ha finito per scontrarsi con la priorità della
dimensione produttiva, utilitaristica, assunta come modello unico, neutro,
universale, anche quando viene ribaltato e preso dal suo polo opposto e
complementare: il dono, la decrescita, la femminilizzazione del lavoro.
È come se,
restando intoccata la visione di fondo, in cui si intrecciano, oggi in modo
scoperto – per la femminilizzazione del lavoro – i tratti del maschile e del
femminile costruiti dall’uomo, e in assenza quindi di un’analisi del
sessismo che dica quale rapporto di potere è intercorso tra gli uomini
e le donne reali, non restasse anche alle strategie femminili altra scelta che
l’altalena tra un polo e l’altro, o lo sforzo acrobatico della loro ‘conciliazione’.
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