martedì 6 aprile 2021

Quel lavoro che non è un lavoro - Lea Melandri

  

Un sesso non riconosciuto come tale – ha scritto Luce Irigaray – può contare solo “come non sesso”, “negativo, inverso, rovescio dell’unico sesso visibile e morfologicamente designabile”. Se sulla sessualità femminile, cancellata e riscritta in base a parametri maschili, il femminismo ha riflettuto a lungo, producendo cambiamenti significativi nella vita di molti, donne e uomini, non si può dire altrettanto per quel lavoro non pagato che resta in gran parte sepolto nelle case, nelle relazioni private, nella resa inconsapevole delle donne a una consegna ritenuta ‘naturale’.

Il lavoro di cura e il lavoro domestico, confusi con l’amore, con l’altruismo materno, con l’ambigua collocazione dell’essere femminile, sospeso tra sacralità e determinismo biologico, non riescono ancora oggi a essere visti e riconosciuti per quello che sono sempre stati: sostegno materiale e affettivo al potere e al privilegio di un sesso – ma, per estensione, anche di una classe, di una razza – che ha potuto perciò pensarsi autonomo, solo perché sciolto dai vincoli della sopravvivenza, razionale perché alleggerito dal peso del corpo, forte per aver svalutato debolezza, dipendenza, bisogni primari della vita umana, e asservito coloro che sono chiamati a soddisfarli.

 

L’unico lavoro riconosciuto come tale, sia da chi ne esalta le potenzialità illimitate, sia da chi vorrebbe temprarlo secondo principi di giustizia e uguaglianza, è il lavoro produttivo, associato a ricchezza, potere, successo, sviluppo, proliferazione e consumo di merci. Espressione della supremazia maschile, prima ancora che di un privilegio di classe, la divisione sessuale del lavoro ha attraversato, senza cambiamenti sostanziali, sistemi economici diversi, dal capitalismo al socialismo, dal fordismo al postfordismo, dalle economie locali alla globalizzazione. Nonostante l’intensificarsi di ricerche e inchieste, che riescono a scandagliare il lavoro non pagato in tutta la sua quotidiana, complessa articolazione, e nonostante i risultati sorprendenti che ne dimostrano la rilevanza quantitativa, in termini di tempo e denaro, l’ordine delle priorità non sembra possa esserne toccato: la cura, componente essenziale della vita umana, continua a macinare energie, intelligenza, saperi, destinati a restare screditati, o riconosciuti per la loro importanza solo da chi ne è protagonista, invisibile e inascoltato. La verità del rovesciamento di parti, che ha permesso ai deboli di farla da padroni, agli sfruttati in fabbrica di farsi sfruttatori in casa, riportata più volte nel cuore dell’analisi politica da alcune componenti del femminismo, già a partire dagli anni Settanta, continua a rimbalzare in un vuoto di interlocuzione che, a questo punto, interroga uomini e donne.

“Non sono solo le pratiche i simboli del sistema patriarcale che ci opprimono – scrive Antonella Picchio -, ma la nostra assunzione di responsabilità rispetto alla qualità della vita di uomini compagni e dei nostri figli. Noi abbiamo un delirio di onnipotenza e loro hanno delle profonde debolezze nascoste e coperte da noi”.

Se è vero che la “riproduzione sociale della popolazione” non è una “questione femminile”, che si possa risolvere nel privato, bensì il presupposto imprescindibile della “produzione di merci”, perché è stato così difficile, per non dire impossibile, negli anni in cui si è affermato un diffuso movimento anticapitalista, trovare i nessi tra femminismo e lotta di classe, o, quanto meno, da parte delle donne, “agire un conflitto profondo”, mettendo al centro le condizioni di vita, il corpo, la cultura, le relazioni e tutto ciò che erano venute scoprendo attraverso la loro esperienza?

Si può rilevare il limite di una interpretazione della cura in chiave esclusivamente economica, quale è stata quella di Lotta Femminista – “salario al lavoro domestico” -, e cioè l’assimilazione al lavoro produttivo di mansioni complesse, particolari, profondamente implicate con la vita intima, la maternità, la sessualità, i legami affettivi, che come tali non possono né essere completamente monetizzate o affidate allo Stato. Ma non c’è dubbio che ogni altro tentativo di affrontare le pesanti ricadute sulla donna della divisione del lavoro ha finito per scontrarsi con la priorità della dimensione produttiva, utilitaristica, assunta come modello unico, neutro, universale, anche quando viene ribaltato e preso dal suo polo opposto e complementare: il dono, la decrescita, la femminilizzazione del lavoro.

È come se, restando intoccata la visione di fondo, in cui si intrecciano, oggi in modo scoperto – per la femminilizzazione del lavoro – i tratti del maschile e del femminile costruiti dall’uomo, e in assenza quindi di un’analisi del sessismo che dica quale rapporto di potere è intercorso tra gli uomini e le donne reali, non restasse anche alle strategie femminili altra scelta che l’altalena tra un polo e l’altro, o lo sforzo acrobatico della loro ‘conciliazione’.

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