Da qualche mese assistiamo a una serie di polemiche che potremmo definire, declinando l’espressione ben nota di Judith Butler, come “scompiglio nella rappresentazione”. La più recente riguarda la possibilità che a tradurre la poeta Amanda Gorman sia il/la scrittore/scrittrice olandese Marieke Lucas Rijneveld.
Contro il parere di chi pensa che queste polemiche alimentino una sterile
tensione identitaria (benché in effetti lo facciano) e malgrado la violenza che
si abbatte ingiustamente sul/sulla traduttore/traduttrice (è assurdo uccidere
il messaggero, soprattutto se è un autore di genere non binario la cui opera è
in sé un atto di resistenza politica), vorrei scommettere sul carattere
potenzialmente produttivo e non distruttivo di questi dibattiti. A condizione,
però, di uscire dalla dialettica tra essenzialismo e universalismo e di
considerare la questione come un’opportunità di de-patriarcalizzare e
decolonizzare le industrie culturali.
Parola per parola
Prima di poter dare una risposta alla domanda su chi può tradurre un testo, è
necessario riconoscere che la domanda è in sé pertinente. Si tratta di mettere
in evidenza la dimensione al contempo artistica e politica di alcune pratiche
invisibilizzate e degradate dell’industria culturale.
La traduzione e la correzione sono per l’editoria quello che la gestazione
è per l’economia della riproduzione etero-patriarcale: l’autore (e l’editore) è
il padre del testo, mentre il traduttore è solo un mero tramite che traspone il
testo, parola per parola, da una lingua all’altra. Come le madri, anche i
traduttori e le traduttrici puliscono, curano e mettono in ordine. Ma chi dà il
nome e incassa i soldi è l’editore, metapadre dei libri, e, solo dopo,
l’autore. Rendere visibile e riconoscere il lavoro dei traduttori e delle
traduttrici è una missione urgente.
In secondo luogo la traduzione è sempre un processo politico. Niente
permette di capire meglio la politica culturale di una nazione delle sue
pratiche in materia di traduzione. Basti pensare, per esempio, alla resistenza
emersa in Francia tra il 1980 e il 2019 a tradurre testi provenienti dal
femminismo nero, dalla teoria queer o da quella postcoloniale. È stato
necessario attendere l’esplosione digitale mondiale del #MeToo e di Black lives
matter prima che questi testi fossero considerati come materiale editoriale
potenzialmente redditizio.
Ora, all’improvviso, le case editrici lanciano collezioni femministe e
antirazziste, e così ci troviamo davanti alla domanda pertinente su chi può
tradurre questi testi. L’esigenza posta dalle traduzioni di bell hooks, Jack
Halberstam o Saidiya Hartman non è quella dell’identità né tantomeno
dell’ontologia. Non si tratta di sapere se l’autore e il traduttore condividono
una “natura” comune, perché il sesso, il genere e la razza non sono nature, ma
costruzioni storiche e politiche. La razza non è un avvenimento epidermico né
una verità naturale, e nemmeno un’ontologia della pigmentazione cellulare, ma
una tecnologia politica di oppressione. Nondimeno la cultura nera, come la
cultura queer o quella trans, esistono in quanto tradizioni culturali e
discorsive, oltre che estetiche della resistenza.
Rappresentanti dell’egemonia
Non è l’identità a dover essere preservata in modo sacro quando si traduce
Gorman o qualsiasi altro autore proveniente da tradizioni somato-politiche
minoritarie, ma l’esperienza letteraria come superamento dell’assegnazione
normativa a un’identità. Il problema della rappresentazione politica nelle
pratiche artistiche (di traduzione, adattamento, eccetera) non può essere
regolato una volta per tutte con un’equazione essenzialista che cerca
l’equivalenza tra autore e traduttore in termini di identità. Non esiste
omogeneità di esperienza o di pensiero sessuale, razziale o di genere che
garantisca la fedeltà della traduzione.
Ciononostante la domanda su chi possa tradurre non può essere completamente
scartata dal presupposto universalista che neutralizza e depoliticizza il testo
privilegiando, con la scusa dell’universalità della “Letteratura”, letture
egemoniche e normative. La polemica intorno a Gorman mostra ancora una volta
che gli editori, operando come semplici mercanti del capitalismo culturale,
sono dei rappresentanti dell’egemonia politica e ignorano le lotte che animano
i testi da loro pubblicati.
Si è parlato molto in questi giorni della qualità della traduzione in
francese di Toni Morrison e di James Baldwin fatta da autori bianchi. Non ne
dubito. Ma al contempo non è stato portato alcun esempio di un eminente autore
bianco tradotto da una donna nera. Per superare le politiche identitarie,
paradossalmente, c’è bisogno di introdurre voci somato-politiche dissidenti
nell’industria dell’editoria. Non pretendo che i miei libri siano tradotti da
persone non binarie, ma voglio che esistano eccellenti traduttori non bianchi e
non binari capaci di tradurre e ritradurre Dante e Proust, Virginia Woolf o
Octavia Butler, Kathy Acker o Horacio Castellanos Moya.
È necessario allontanarsi dalla dialettica improduttiva tra essenzialismo e
universalismo e innestare processi di trasformazione delle istituzioni
culturali ed editoriali. Dopo tutto possiamo guardare quello che è successo con
un certo ottimismo: le opere di Amanda Gorman e di Marieke Lucas Rijneveld sono
rappresentative (con buona pace di Elisabeth Roudinesco) del cambiamento di
paradigma in corso, e sono pubblicate, tradotte e lette. È questo, in
definitiva, a fare la differenza.
(Traduzione di Andrea Sparacino)
Questo articolo è stato pubblicato dal quotidiano
francese Libération.
Da sapere
Tradurre Amanda Gorman
Amanda Gorman ha ventidue anni ed è afroamericana. Il 20 gennaio 2021 è
stata la più giovane poeta nella storia a recitare un suo componimento alla
cerimonia di inaugurazione del presidente degli Stati Uniti. La sua
raccolta The hill we climb sarà pubblicata in
numerosi paesi, ma la sua traduzione – o meglio i suoi traduttori – si trova al
centro di un’animata polemica. L’editore olandese Meulenhoff, in accordo con la
stessa Gorman, aveva affidato il compito a Marieke Lucas Rijneveld, che ha vinto
nel 2020 l’International Booker Prize. La scelta, però, ha scatenato la
disapprovazione di chi sosteneva l’inadeguatezza di una professionista bianca
per tradurre un testo così specificamente legato alle questioni razziali e
all’identità afroamericana. A questo si sono aggiunte le critiche all’identità
di genere e al vissuto di Rijneveld, che non si riconosce in un’identità
binaria, questioni considerate lontane dalla storia di Gorman. In seguito alla
vicenda, Rijneveld ha presentato le sue dimissioni dal progetto. Anche in
Spagna è successo qualcosa di simile: Victor Obiols, che era stato scelto dalla
casa editrice barcellonese Univers per tradurre la poesia in catalano, è stato
rimosso dall’incarico per profilo inadeguato.
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