Succede il 21 marzo di ogni anno: i 15 milioni di curdi in Turchia e gli
altri 12 fuori dai confini celebrano il Newroz. La festa proibita che
dà inizio al loro calendario, in omaggio alle loro origini sanscrite e al culto
originario di Zoroastro, interrotto dall’islamizzazione forzata del Medio
Oriente dopo l’anno Mille. Una festa vissuta come il fumo negli
occhi dal nazionalismo turco, perché sancisce l’identità della più grande
Nazione del mondo senza Stato, suddivisa com’è da cinque frontiere. I Curdi in
realtà hanno sempre meno da festeggiare: sono l’unico popolo che ha
combattuto sul campo e sconfitto Isis, sebbene poi sia stato bersagliato dall’irriconoscenza
dell’Occidente. E solo due giorni fa, come ultimo atto di sfregio, la procura
di Ankara ha chiesto di mettere al bando il partito filo-curdo Hdp,
terza forza nel Parlamento e da sempre spina nel fianco del presidente Recep
Tayyip Erdogan. Ma nonostante la repressione e i divieti, il Newroz è
una festa che all’inizio di ogni primavera si tiene comunque, soffocata
tra arresti, sparizioni, morti e feriti. Questo è il racconto di un
viaggio nel Newroz. Molti anni prima di Erdogan. Senza che peraltro, da
allora, nulla sia mai cambiato.
Nel marzo del ’96 il Guardian pubblicò un reportage con
una serie di immagini agghiaccianti: sulla neve dell’Ararat tre
soldati turchi alzavano come trofei le teste gocciolanti di alcuni ribelli curdi,
appena recise con la baionetta. L’articolo parlava del Newroz (nuovo anno), il
nome della festa proibita che sancisce l’inizio del calendario
curdo, con l’equinozio di primavera. Decisi di partire e di andare
a vedere quell'evento. A Diyarbakir, capitale del Kurdistan turco,
la sera del 19 marzo, ci misi un paio d’ore per uscire dall’aeroporto. I
controlli sui bagagli furono interminabili. Migliaia di soldati circondavano
la pista e i transiti dei passeggeri e tutto sembrava predisposto per dare
l’idea di una città blindata, militarizzata, nella morsa di esercito e
aviazione. Il mattino dopo la luce del sole non dava certo un’immagine più
riposante della città. Camionette e mezzi corazzati ovunque, elicotteri fermi
in volo sopra i vicoli, tute mimetiche ad ogni angolo di strada. All'ingresso
della città, una grande scritta sospesa fra due tralicci, a mò di giogo per
auto e camion: "Ne Mutlu Turkum Diyene", sono
orgoglioso di essere turco.
Alla vigilia del Newroz, una regia occulta sembrava dunque scoraggiare la
festa. La mattina del 20 marzo presi un taxi, per andare in un quartiere
periferico, dove mi dissero che stavano preparando dei pneumatici, per
allestire un grande fuoco, l’indomani. Al rosso il tassista si fermò, poi ripartì
alla luce blu. Credetti di aver visto male, ma quando la scena si ripeté, poco
dopo, chiesi all'autista curdo perché i semafori lì fosserno
diversi. “Rosso verde e giallo - rispose lui - sono i colori
della bandiera curda. Qui l’hanno tolta anche dai semafori”.
“Anche la vostra lingua è vietata - provai a insistere - Noi parliamo inglese,
ma come fa chi conosce solo il curdo?”. E lui raccontò la storia di un
bambino, figlio di una povera famiglia di pastori, i cui genitori erano stati
arrestati. Quando il piccolo era andato in carcere a trovarli, sotto il tiro
dei mitra, non sapendo parlare in turco, era stato costretto a comunicare con
papà e mamma soltanto a gesti.
In dodici anni, scoprii, quella sporca guerra dimenticata aveva già
fatto 40mila morti, da una parte e dall’altra. Senza contare gli
scomparsi e le persone torturate durante gli interrogatori. I giornali curdi
erano stati chiusi e i loro partiti accusati di contiguità con i terroristi.
Nelle carceri, migliaia di detenuti si sarebbero lasciati morire per fame,
contro la riforma che per i curdi istituiva le celle di isolamento di
tipo “F”, in cui è impossibile stare in piedi, ideate per far impazzire
anche l’essere più razionale. Non immaginavo cosa avrei visto, in quel viaggio.
Ma il Newroz fu un’esperienza indimenticabile. Un'infinità di uomini,
donne e bambini col vestito delle grandi occasioni danzavano attorno
alle fiamme, al suono del saz e del kaval, lo strumento a corde e il flauto
del posto, sfidando i fucili, i blindati e le camionette. Per le strade
di Diyarbakir, l'anonima Sarajevo d'Oriente, quel 21 marzo si
riversarono quasi due milioni di persone in festa, venute anche dalle montagne
vicine. Le manganellate e gli arresti furono continui, ma la gente in manette
sorrideva.
L'arresto per il gesto della mano
Venni anch'io "arrestato" per una notte, in una bidonville di
Diyarbakir, con l’accusa di terrorismo. Un inatteso momento di gloria ma,
oggi posso dirlo, anche di terrore. Non credevo alle mie orecchie, ma l’interprete
in pochi secondi mi spiegò tutto. Gli otto agenti della Jitem, la polizia
politica che ci seguiva, mi avevano visto fare la “V” con le dita della
mano sinistra, mentre con la destra fotografavo centinaia di bambini
coloratissimi, con i piedi nel fango. Erano stati proprio i piccoli a fare la
“V” e io li avevo imitati. Come a dire: “Fermi così, che intanto io
scatto”. Ma quella “V”, spiegò l’interprete tremando, era il simbolo
del Pkk, il movimento armato di liberazione dei curdi. Il cui
leader, Abdullah Ocalan, detto "Apo" (lo
zio), sarebbe stato catturato a Nairobi il 15 gennaio 1999 e incarcerato
nell'isola di Imrali, unico detenuto in una sorta di
Alcatraz sul Mar Nero, un carcere circondato da cinquemila soldati e
altrettante galline. Io non sapevo certo cosa significasse la V, certo non
sarei stato così ingenuo da mimare il gesto davanti agli agenti. Ma finì tutto
bene, dopo una notte di arresti domiciliari in albergo, gentile concessione al
giornalista straniero.
Dalla capitale del Kurdistan turco me ne andai con un senso di struggimento
sconosciuto. Due giorni dopo, a Istanbul, scoprii che i desaparecidos esistevano
anche a Est del mondo. Come ogni sabato mattina, davanti al liceo
francese nel lussuoso quartiere di Galatasaray, si radunavano le madri
degli scomparsi venute dalle province orientali, in un sit-in
silenzioso dove, a turno, ognuna si alzava e raccontava la storia del
proprio figlio o marito “prelevato” da agenti in borghese e
mai tornato a casa. Ogni tanto una donna si alzava e, nel silenzio, mostrava
la foto del figlio o del marito rapiti, raccontandone la storia. Tra
quelle donne incontrai Evrim, una ragazza che mi raccontò di essere stata violentata
in carcere, durante selvaggi interrogatori, dove la costrinsero a
raccontare dove si nascondeva in montagna il fidanzato, un giovane guerrigliero
del Pkk.
Ad Evrim non riuscii a trattenere una domanda: “Ma cosa spinge un
giovane a entrare nella guerriglia?” “Semplice - rispose lei - Quando
ti chiamano al servizio militare, poi ti mandano al tuo villaggio a partecipare
ad operazioni contro la tua famiglia, tu cosa fai? La prima notte libera,
prendi il fucile e scappi in montagna”. Come accadde anche in molte valli
italiane, dopo l'editto del Duce del '44, che arruolava a forza
molti giovani nelle milizie nere. Ripensando a quei giorni, al popolo vittima
di un’ennesima guerra dimenticata, a quei lunghi controlli all'aeroporto
e alla paura, umana certo, che avevo provato all'idea di finire nei
guai, non sono più tornato in Turchia per oltre vent’anni. Sperimentando
una bizzarra forma di esilio, l’esilio dello straniero.
Quello che avrebbe voluto provare volentieri, se solo avesse
potuto scegliere, uno come Giulio Regeni. O Enzo Baldoni. E
tanti altri, che per avere dato voce ai diritti umani oggi possiamo solo
ricordare.
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