Il caso del vaccino AstraZeneca (AZ) è curioso. Un vaccino approvato senza restrizioni in UK, ma inizialmente solo per le persone al di sotto dei 65 anni in Europa, limitazione che è stata cancellata la scorsa settimana in Francia e Germania e da oggi anche in Italia. Del vaccino sviluppato a Oxford si è parlato oltre misura: non è efficace, sì lo è ma solo sui giovani, ha effetti collaterali devastanti… e così oggi qualcuno, di fronte all’offerta di AZ, risponde “No no, grazie, preferisco Pfizer”.
L’approvazione di un vaccino (così come una nuova scoperta scientifica)
richiede tempo e dati e conclusioni affrettate hanno la sfortuna di poter
diventare presto erronee, quando un numero maggiore di dati è a disposizione.
Tuttavia l’incertezza e l’attesa non sono gradite e la mancanza di risposte
certe viene così sostituita nella nostra mente - colpevoli anche i media - con
la risposta peggiore che, cioè, il vaccino inglese sia inutile e che
addirittura possa farci male.
L’ineludibile insostenibile incertezza
Il 12 febbraio 2002, in una conferenza stampa del Dipartimento della difesa
americana, un giornalista chiese all'allora Segretario della difesa Donald
Rumsfeld spiegazioni riguardo all’accusa rivolta dagli USA al governo iracheno
di aver fornito armi di distruzione di massa a gruppi terroristici nonostante
la mancanza di prove. La risposta di Rumsfeld fu quella che segue:
I rapporti che affermano che qualcosa non è accaduto hanno sempre attirato
la mia attenzione, perché è risaputo che ci sono cose che sappiamo di conoscere
(known knowns). E sappiamo che possono esistere cose che non conosciamo (known
unknowns). Ma ci sono anche quelle cose che non sappiamo di non conoscere
(unknown unknowns).
Quello che voleva dire il segretario Rumsfeld, con quel gioco di parole
forse mirato a distogliere l’attenzione del pubblico sull’operato del suo
governo, è che non aver trovato armi di distruzione di massa in Iraq non era
prova sufficiente per affermare che quelle armi non esistessero. O,
contestualizzando la frase di Rumsfeld, non avere prove dell’efficacia del
vaccino AZ sugli anziani non può diventare prova della sua inefficacia.
La tassonomia di Rumsfeld divide le situazioni tra quelle in cui sappiamo
di avere informazioni affidabili (known knowns), quelle in cui abbiamo
informazioni parziali, (known unknowns) e quelle in cui la nostra capacità di
formulare modelli del fenomeno che stiamo studiando è talmente limitata che non
siamo neanche in grado di quantificare l’incertezza delle nostre conclusioni
(unknown unknowns).
L’incertezza, tuttavia, caratterizza anche le situazioni in cui abbiamo una
buona comprensione di ciò che stiamo osservando. È difficile immaginare un
mondo senza incertezze, dove tutto sia esattamente determinabile. Se anche
riusciamo spesso a fare stime o previsioni azzeccate, che viste nella loro
superficialità ci sembrano esatte, esatte non lo saranno mai. Siamo solo in
grado di elaborare delle stime, concetto fondamentalmente diverso da quello di
un valore esatto: il valore esatto è rigorosamente unico, la stima è variabile
e necessariamente sbagliata. Accettare questa condizione è il primo passo per
usarla a nostro vantaggio.
Il beneficio dell’incertezza
Accettare l’incertezza è il primo passo per usarla a proprio vantaggio.
Nelle scienze applicate, per esempio, è consuetudine formulare modelli che
rappresentano l’incertezza intrinseca dei fenomeni naturali e sociali. E così è
stato fatto per stimare l’efficacia di un vaccino, appunto.
L’obiettivo primario della sperimentazione di un vaccino è stimare la sua efficacia non sulla popolazione generale, ma confrontando due gruppi il più
possibile simili tra loro, un gruppo di persone vaccinate e un gruppo di
persone a cui è stata somministrata una sostanza farmacologicamente inerte, o
placebo. In inglese si usano due parole diverse per distinguere i due
obiettivi: efficacy, lo studio dell’efficacia tramite un esperimento
randomizzato e effectiveness, lo studio dell’efficacia sulla popolazione
generale. L’efficacia di un vaccino, intesa come efficacy, è definita come la
riduzione relativa del rischio di infezione tra il gruppo dei vaccinati e
quello dei placebo. Ma dove si annida l’incertezza in questo esperimento?
Noi facciamo un solo esperimento, ma se invece ne facessimo due, cambiando
leggermente i partecipanti o la data di inizio, ci aspetteremmo la stessa
efficacia? Probabilmente no. Però non lo sappiamo, perché il secondo
esperimento è solo ipotetico, così come un eventuale terzo e così via.
L’incertezza che deriva dal non essere a conoscenza di tutti gli scenari
ottenuti da ogni ipotetica ripetizione (ce ne sono infinite) dell’esperimento
viene colmata creando un modello che li racchiude tutti al suo interno.
Immaginiamo di lanciare una moneta, il classico testa e croce. Ogni lancio, pur
avendo un risultato diverso e imprevedibile, può essere rappresentato da uno
stesso modello che definisce la probabilità con la quale la moneta finirà sul
lato della croce, o della testa.
Nel caso della sperimentazione del vaccino, l’incertezza si usa per
confrontare i due gruppi in maniera intelligente. Ipotizziamo che il rischio di
contagio nel gruppo dei vaccinati sia del 47% e nel gruppo placebo del 46%.
Quell’1% di differenza assoluta del rischio di contagio tra due gruppi a favore
del gruppo placebo significa che il vaccino è forse più nocivo? Del buon senso
ci porterebbe a dire di no: è plausibile che in un’altra ipotetica ripetizione
dell’esperimento i rischi si possano ribaltare e quell’1% vada a favore del
gruppo dei vaccinati. Oppure che si possa ridurre a 0. Riuscire a misurare
l’incertezza del singolo esperimento permette di quantificare il grado di
sicurezza nel risultato. Nella sperimentazione di AZ, questa incertezza è stata misurata con un intervallo di confidenza al 95% che va da 62,7% a 91,7%. In
altre parole se avessimo ripetuto lo studio cento volte e ogni volta calcolato
l’intervallo di confidenza per l’efficacia del vaccino, in 95 di queste
ripetizioni l’intervallo avrebbe contenuto l’efficacia reale del vaccino.
Quindi c’è un 5% di probabilità che il valore reale non sia contenuto tra 62,7%
e 91,7%, un caso poco fortunato.
Ma se l’incertezza viene rappresentata con un modello, cosa ci assicura che
il modello sia corretto? Si parte dai dati che abbiamo. Sono i dati che ci
suggeriscono quale modello è il più appropriato e che - in ultimo - ne
determinano la validità. Immaginiamo di nuovo di lanciare una moneta, stavolta
per dieci volte e di ottenere testa a ogni tiro. Dati alla mano, difficilmente
saremmo pronti a scommettere che il modello dietro ogni tiro non sia truccato.
Usando il modello per una moneta non truccata, quello che assume che la
probabilità che esca testa a ogni lancio è 0,5, la probabilità che esca dieci
volte testa in dieci lanci è 0,5^10 = 0,0009. Dunque: o siamo stati abbastanza
sfortunati (o fortunati) noi a osservare una combinazione di lanci così rara o
la moneta è truccata e la probabilità che a ogni tiro esca testa è molto più
alta di 0,5.
Ma se i dati non ci sono?
Un vaccino stimola una risposta immunitaria nell’organismo rispetto alla malattia
e stimolare sistemi immunitari compromessi o invecchiati potrebbe risultare più
complesso. Per esempio, il vaccino antinfluenzale americano del 2010-11 aveva un’efficacia del 60% in tutta la
popolazione, ma solo del 38% nel gruppo degli anziani. Per essere approvato
quindi il vaccino deve aver dimostrato una efficacia ragionevole anche su
diverse fasce d’età. Per la sperimentazione del vaccino contro COVID-19
sviluppato da AstraZeneca, sono state arruolate 660 persone in rappresentanza
del gruppo anziano. Di queste solo 2, una nel gruppo che ha ricevuto il vaccino
e una nel gruppo placebo, sono risultate positive al virus. Con un numero così
esiguo è difficile riuscire a spiegare quello che non vediamo. È un po’ come
lanciare la moneta una sola volta: avremo quantomeno qualche perplessità nel
sostenere che la moneta sia truccata (o non manipolata). E lo stesso vale per
il vaccino. Con i dati a disposizione la sua efficacia sugli anziani è praticamente
pari a 0: dato che se i gruppi sono simili, il rischio di contagio è quasi lo
stesso. Ma sarebbe bastata una sola persona in più contagiata nel gruppo
placebo, per fare salire la stessa efficacia al 50%. Evidentemente c’è troppa
poca sicurezza nei risultati ottenuti per poter affermare qualcosa di valido.
L’assenza di evidenza non è evidenza di assenza.
La spiegazione di una così bassa incidenza potrebbe essere che le persone
sopra i 65 anni, consapevoli del rischio legato all’età, abbiano mantenuto
atteggiamenti più attenti e responsabili per evitare di infettarsi. La saggezza
dei partecipanti più anziani potrebbe aver mascherato il rischio reale (senza
precauzioni) di contagio nel gruppo placebo, e compromesso la nostra abilità di
stimare la reale riduzione del rischio causata dal vaccino. Quindi questo non
significa che l’efficacia del vaccino sia in discussione, ma solo che mancano
dati, o evidenze dirette, per stimarla con la sicurezza richiesta. L’assenza di
evidenze non è prova di assenza (anche se, per coerenza, ci sarebbe anche da
chiedersi se l’assenza di evidenza non sia mai evidenza di assenza: «Se
l'Universo e la nostra galassia pullulano di civiltà sviluppate, dove sono
tutte quante?» chiedeva Fermi).
L’obiettività scientifica è garantita dalle evidenze dirette. Eppure, se
queste non sono presenti, per trarre conclusioni si può ricorrere a evidenze
che nascono dall’esperienza altrui. Per esempio, gli effetti di un nuovo farmaco
vengono studiati attraverso la diretta osservazione dei pazienti a cui quel
farmaco è stato somministrato. Ma non si potrebbero anche usare altri dati
disponibili, per esempio quelli di pazienti a cui è stato somministrato un
farmaco molto simile al nostro? In questo caso si parla di evidenze indirette.
Riguardo al vaccino AZ, ci sono diverse evidenze indirette a supporto della sua efficacia. La risposta
immunitaria sul gruppo degli anziani che hanno ricevuto il vaccino è stata
buona: gli anticorpi IgG sono stati trovati nel sangue degli ultrasessantenni
che hanno partecipato alla sperimentazione e nella popolazione interessata non
si è vista una risposta immunitaria diversa in base al gruppo di età. Ci sono
anche risultati di studi sull’utilizzo di anticorpi per curare patologie dovute
al SARS-Cov-2 che dimostrano che gli IgG possono proteggere da infezioni
sintomatiche grave, facendo dunque ipotizzare che anche l’efficacia possa
essere la stessa nei diversi gruppi d’età. Tesi, questa, supportata anche dai
trial degli altri vaccini che non hanno riscontrato una risposta del vaccino
dipendente dall’età, nonostante occorre precisare che quello di Pfizer è un
vaccino a mRNA, mentre quello di AstraZeneca è a vettore virale. I dati sulla
sicurezza del vaccino sono rassicuranti: negli anziani sono stati osservati
meno effetti collaterali rispetto ai più giovani.
L’effectiveness di AstraZeneca
Fuori dal rigore sperimentale c’è il mondo reale. In UK, dove il vaccino AZ
viene giornalmente inoculato agli ultrasessantenni, i primi dati sull’efficacia
del vaccino (quella sulla popolazione, l’effectiveness) si iniziano a
raccogliere e a studiare. Questi non sono studi da maniaci del controllo: il
fiscalismo dell’esperimento, atto a eliminare potenziali elementi che possono
creare associazioni ambigue, è assente e eventuali aggiustamenti si fanno con i
dati già in mano. In sostanza le persone vengono osservate senza un intervento
attivo da parte del ricercatore.
Dati preliminari sulla campagna di vaccinazione in Scozia sembrano riqualificare il
nome Oxford-AstraZeneca. L’efficacia (effectiveness) stimata nell’evitare
l’ospedalizzazione dovuta alla COVID-19 dopo 4-5 settimane dalla
somministrazione della prima dose del vaccino di Oxford è del 94% con un
intervallo di confidenza che va dal 73% al 99%. I dati a disposizione non hanno
permesso ai ricercatori un’analisi divisa per fasce d’età, ma quello che rende
questi risultati ancor più promettenti è che il 57% dei vaccinati con AZ sotto
osservazione aveva più di 65 anni. Per completezza l’efficacia stimata del
vaccino Pfizer-BioNTech è di 85%, con un intervallo da 76% a 91%.
Cautela e buonsenso
Non c’è dubbio, viviamo tempi incerti. Un anno fa avevamo tante domande:
molte di queste hanno ricevuto risposte, molte altre rimangono ancora aperte. E
tante ancora continuano a emergere. I vaccini diventano l’ulteriore simbolo di
questa incertezza e il caso AZ è solo un ulteriore esempio di come in ricerca
non tutto può essere programmato (non si può controllare il comportamento dei
partecipanti).
L’approvazione di un vaccino viene fatta da un ente regolatorio. Speculazioni possiamo
farne: c’è chi sostiene che evidenze indirette sull’efficacia del vaccino non
siano sufficienti per stimarne l’efficacia, ma è anche vero che ritardare nelle
vaccinazione della fascia più a rischio, senza evidenze che giustificano tale
scelta, ha come conseguenza certa la perdita di un maggiore numero di vite
umane.
Nelle prossime settimane arriveranno sempre più dati, e con loro risposte
più chiare. Nel frattempo, abituiamoci all’incertezza e impariamo a convivere
con la possibilità di molteplici scenari. E se, per evitare di far scontrare il
nostro pensiero con l'imprevedibilità, il nostro istinto ci spinge a cercare
verità assolute, riconosciamo a noi stessi che queste non esistono. Accettiamo
il dubbio. Come diceva Voltaire «Il dubbio non è uno stato mentale piacevole, ma la certezza è
ridicola».
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