Diverse ed autorevoli voci si sono già
fatte sentire per avvertire del rischio cui si espone l’Italia a smobilitare il
4 bis dell’ordinamento penitenziario, in particolare facendo saltare il
collegamento tra presunzione assoluta di pericolosità sociale
del condannato per mafia e collaborazione con la giustizia.
Avvertire questo rischio significa non
tenere in conto il dettato costituzionale sulla funzione rieducativa della
pena? Significa non tenere nel debito conto il principio di individualizzazione
della pena? Significa non sapere che esistono mafiosi che collaborano pur
restando mafiosi e mafiosi che pur non collaborando smettono di avere rapporti con
l’organizzazione? Significa non avere fiducia nella magistratura di
sorveglianza? Per quanto mi riguarda no, quattro volte no.
Significa piuttosto fare i conti con tre questioni e decidere che sulla
bilancia debbano pesare di più queste, anzi che no.
La prima: lo Stato non è Dio (e meno male!), non
può e non deve esplorare la coscienza delle persone per giudicarla, deve semmai
conoscere e valutare condotte oggettive che possano rappresentare una certa
scelta individuale. Seconda: le
organizzazioni criminali di stampo mafioso sono sodalizi segreti basati sul
vincolo associativo, un vincolo a tal punto saldato dalla violenza, che è prima
di tutto violenza interna al medesimo sodalizio, da essere percepito come
ineludibile ed inarrestabile tanto da generare omertà ed assoggettamento.
La terza: lo Stato ha un fondamentale dovere nel
tutelare i propri stessi funzionari, per esempio non sovra esponendoli al
rischio di subire violenza nell’esercizio dei propri compiti. Il “mix” di
queste tre questioni dovrebbe continuare a far pesare la bilancia dalla parte
fin qui ritenuta coerente ed opportuna: anche il mafioso ha diritto ad un
percorso di riscatto personale e sociale, a condizione che collabori con lo
Stato, punto.
Ciò posto sulla questione puntuale che
ormai da oltre due anni anima il dibattito dentro e fuori le aule di Giustizia,
la preoccupazione per me più grande è questa: anziché convincere l’Unione
Europea della necessità di norme europee particolarmente severe per
prevenire e contrastare il modo mafioso di organizzare il crimine sulla scorta
delle norme elaborate in Italia, è l’Italia che si sta facendo convincere che
non esista (più) la necessità di queste norme.
Perché quello che sta succedendo
relativamente al 4 bis o al 41 bis dell’ordinamento penitenziario, sembra simile a
quanto sta capitando, pure in modi differenti, ad altri caposaldi della
legislazione italiana in materia di contrasto alla criminalità organizzata di
stampo mafioso.
Qualche esempio, soltanto per titoli: c’è
chi spinge per il superamento della centralizzazione e specializzazione degli
apparati investigativi e giudiziari, principi che hanno ispirato la creazione di Dia e Dna; c’è chi tifa per la
vendita dei beni confiscati ai mafiosi ed intanto gufa sull’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni
sequestrati e confiscati, scommettendo sul tanto peggio, tanto
meglio; c’è chi organizza fior di convegni per minare alle fondamenta tutto
l’impianto delle misure di prevenzione tanto amministrative (interdittive
antimafia, scioglimento dei comuni per infiltrazione mafiosa) quanto
giudiziarie (sequestri e confische patrimoniali); c’è chi non ha mai smesso di
sminuire il ruolo dei collaboratori di giustizia o di rendere estremamente
faticosa la strada ai testimoni di giustizia.
Nessuno si è ancora azzardato a riaprire
la discussione sul 416 bis, ma è soltanto questione di tempo. Perché, di questo sono
convinto, è proprio il 416 bis il target da abbattere per
riportare la storia italiana indietro di quarant’anni e inibire l’evoluzione di
quella europea. Il Parlamento italiano, è noto, approvò di malavoglia e tra le
polemiche il 416 bis nel 1982, e lo fece soltanto perché lo impose il sangue
versato prima da Pio La Torre, ispiratore della
norma, e poi da Carlo Alberto Dalla Chiesa.
Il 416 bis stabilisce in buona sostanza che provata l’appartenenza di un
soggetto ad un certo tipo di sodalizio criminale, non si ha più bisogno di
dimostrare che egli abbia in concreto realizzato una specifica condotta
delinquenziale (in gergo si dirette: reato fine), perché si ritiene criminale,
cioè gravemente pericolosa per l’ordine pubblico, la mera appartenenza a questo
tipo di sodalizio.
E quale sarebbe questo “tipo” di sodalizio
così pericoloso da giustificare una simile reazione da parte dello Stato?
Quello basato appunto sulla segretezza e
sulla violenza del vincolo associativo capace
di terrorizzare tanto da ottenere ubbidienza. E questo modo di fare crimine è
assai pericoloso perché potenzialmente eversivo dell’ordine democratico. Chi
non lo capisce non conosce la storia italiana o fa finta di dimenticarla.
Finisco con una proposta:
anziché continuare lavorare per “modificare” le norme antimafia, perché non
lavoriamo con altrettanto entusiasmo a modificare la legge 17 del 1982,
rendendola finalmente capace, come avrebbe voluto la compianta Tina Anselmi, di contrastare le organizzazioni
segrete-punto? Che sono vietate dalla Costituzione, a-ri-punto.
Nessun commento:
Posta un commento