Abolire le polizie
Estratto del
libro “Abolire la polizia”… qui mettiamo polizie e non solo il termine generale
polizia poiché il testo riguarda tutte le forze di polizie
Premessa
Dopo gli articoli sul movimento statunitense per il
definanziamento e l’abolizione delle polizie e delle carceri che l’anno scorso
abbiamo pubblicato (tradotti in italiano) pubblichiamo ora alcuni articoli di
compagni francesi che promuovono di rilanciare anche in Francia e in Europa
questi obiettivi oltremodo necessari. Come si vedrà in questo articolo le
parole d’ordine “disfare le polizie”, “definanziarle”, “abolirle” aprono in
realtà un percorso di vere riforme opposte a quelle di facciata che da sempre
ridanno più potere alle polizie. Un altro mondo è possibile senza polizie,
senza carceri!
Sarebbe urgente che anche in Italia le lotte dei
lavoratori reclamassero la drastica riduzione delle polizie e dei loro
finanziamenti e l’aumento adeguato e quindi considerevole degli ispettori del
lavoro e ispettori ASL, degli operatori socio-sanitari di centri pubblici (e
non privati) fra cui in particolare quelli per la cura dei tossicodipendenti e
delle persone affette da disagio psichico e anche dei semplici marginali oggi
assurdamente reclusi nelle carceri.
* * *
Ed ecco che il “Beauvau della sicurezza” (la
conferenza sulla sicurezza organizzata nella sede del ministero dell’interno
palais Beauvau) è finito e Emmanuel Macron ha potuto annunciare le misure
promesse dopo la copertura mediatica di centinaia di abusi della polizia e relativi
scandali: raddoppio dei poliziotti sulle strade, una dotazione di 1,5 miliardi
euro, telecamere pedonali per non parlare dei treni gratuiti. Tutto questo per
la polizia. In Francia, la denuncia della brutalità della polizia trova
divertenti sbocchi politici.
L’uscita questo mese di Abolire la polizia[1] è
tempestiva.
In questo libro, il collettivo Matsuda propone una
raccolta di traduzioni di testi americani che fanno parte del cosiddetto
movimento abolizionista, che quindi non si propone di riformare la polizia o di
limitarne i finanziamenti ma più semplicemente di sbarazzarsene. Inoltre sono
presenti numerosi testi di analisi e contestualizzazione, scritti dal collettivo
stesso. Il libro si apre sul movimento di George Floyd che ha incendiato gli
Stati Uniti nel 2020 e da cui è esplosa la parola d’ordine “abolire la
polizia”. Dopo, più specificamente, si occupa del movimento abolizionista,
della sua storia, della sua attualità e soprattutto dei suoi due principali
ambiti di lotta: delegittimare la polizia attraverso una critica globale
dell’istituzione e renderla concretamente obsoleta/inutile diffondendo modi di
organizzarsi, di fronte a conflitti e attentati, al di fuori del sistema penale[2].
Questo libro è stato pubblicato quasi
contemporaneamente a Défaire la police (https://www.editionsdivergences.com/livre/defaire-la-police)
di cui sono autori oltre allo stesso Collectif Matsuda Quadruppani, Jérome
Baschet, Elsa Dorlin e Guy Lerouge. La sua introduzione col titolo “Perché gli
sbirri sono tutti dei bastardi?” è pubblicata sempre da Lundimatin qui: https://lundi.am/pourquoilespolicierssontilstousdesbatards e
sarà disponibile anche in italiano.
Fine 2015. Il sindaco di Chicago, Rahm Emanuel, è
sotto il fuoco della critica. È accusato in particolare di una gestione troppo
“aggressiva” dei servizi di polizia nei confronti degli afroamericani, in
particolare dopo la morte nell’ottobre 2014 di Laquan McDonald, diciassettenne,
ucciso in mezzo alla strada con sedici proiettili da un agente di polizia.
Nello stesso anno, diciannove persone furono uccise dalla polizia di Chicago.
Ma è soprattutto la morte di Quintonio LeGrier (19) e Bettie Jones (55) che
accese la rivolta. La storia è tristemente banale: è lanciato un appello per un
“disturbo di quartiere”; si tratta infatti di una disputa familiare che
coinvolge Quintonio, che soffre di problemi di salute mentale e tiene in mano
una mazza da baseball davanti al padre. Una pattuglia arriva a casa dei
LeGrier. Il giovane viene ucciso da uno dei due poliziotti. Un proiettile
vagante colpì anche la vicina del piano di sotto, Bettie, a cui il padre di
Quintonio aveva chiesto di non aprire alle forze dell’ordine.[3]
Il poliziotto è stato sospeso per trenta giorni, a
seguito di una riforma attuata dal nuovo capo della polizia: un omicidio è
punito con trenta giorni di licenziamento. Più in generale, il sindaco di Chicago
si impegna a formare meglio gli ufficiali e a raddoppiare il numero di taser.
In un contesto di conflitto tra comune, polizia e manifestanti, una simile
promessa di riforme a seguito di un crimine di polizia è esemplare di cosa
significhi “riformare la polizia” in generale e della funzione di tali annunci:
risparmiare tempo, prosciugare la diffusione delle rivolte inserendole nelle
procedure giudiziarie e facendo sì che i manifestanti ritornino nelle loro
case, convinti che “le cose cambieranno”.
Gli appelli per la riforma della polizia negli Stati
Uniti sono diventati più forti e più frequenti. Vi si legge un effetto delle
lotte del movimento Black Lives Matter (BLM) che mettono in
discussione fortemente e regolarmente l’istituzione di polizia. Ma la sfida
oggi sta nel portare una critica alla polizia – e per estensione al complesso
industriale-carcerario – che non si traduce immediatamente in termini
riformisti, cioè in un’ottica di miglioramento dell’istituzione e delle
pratiche di polizia. Spesso si vedono richieste per una migliore condotta della
polizia, ma raramente discorsi che affermano che bisogna porre fine alla
polizia.
Sfidare le proposte di riforma per una migliore
polizia è diventata un’arte in cui eccelle il movimento abolizionista (si veda anche
l’articolo “Reformism Isn’t Liberation, It’s Counterinsurgency” di Dylan
Rodriguez https://level.medium.com/reformism-isnt-liberation-it-s-counterinsurgency-7ea0a1ce11eb che
pubblicheremo anche in Italiano sul sito dell’Osservatorio). Questo movimento
riesce a formulare con chiarezza critiche alle istituzioni e proposte di lotte
che non sono facilmente recuperabili nella retorica riformista.
Perseguire gli ufficiali di polizia?
Guardando al contesto statunitense, diversi ostacoli
di solito impediscono l’azione legale contro gli agenti di polizia. In primo
luogo, dal punto di vista giuridico, i poteri di polizia non spettano
direttamente allo Stato federale, ma principalmente agli Stati locali, che a
loro volta delegano funzioni organizzative e di comando a contee e comuni. Se
il ministero della giustizia viene coinvolto nei casi di “violazioni ripetute”
dei diritti costituzionali dei cittadini, un’eventuale sentenza si risolve solo
al ribasso in un affare tra il ministero e uno specifico dipartimento di
polizia. Non c’è molta speranza di andare oltre. E questo non riguarda in alcun
modo i tanti altri servizi di polizia del Paese.
In secondo luogo, dalla fine degli anni ’60, i
sindacati di polizia sono diventati estremamente potenti, negli Stati Uniti
come altrove (vedi fra altri articoli di Alex Vitale: http://www.osservatoriorepressione.info/cosa-ci-insegnano-le-rivendicazioni-del-movimento-antirazzista-negli-stati-uniti/; http://www.osservatoriorepressione.info/definanziare-la-polizia/; http://www.osservatoriorepressione.info/alle-radici-dellaumento-della-brutalita-razzista-delle-polizie/; http://www.osservatoriorepressione.info/perche-esiste-la-polizia/;
e il libro Polizie, sicurezza e insicurezze, 2021).
In un contesto di sommosse urbane e contestazione
politica, questi sindacati di polizia si sono eretti come baluardo di una
società assediata da proteggere. Con un gran numero di iscritti al sindacato,
si sono assicurati accordi collettivi che rendono molto difficili le azioni
disciplinari nei loro confronti, come i licenziamenti per comportamenti
razzisti e violenti (lo stesso avviene anche in Francia e in Italia). Queste
convenzioni possono essere imposte contro il diritto pubblico, rafforzando così
il regime eccezionale dell’istituzione di polizia. Inoltre, i funzionari
statunitensi eletti cedono regolarmente alle richieste dei sindacati di
polizia; una grande maggioranza di stati ha ad esempio implementato la legge
Stand Your Ground (“difendi il tuo territorio”) che autorizza l’uso della
“forza ragionevole. Non appena qualcuno ritiene di essere in pericolo”. Questa
legge consente a molti agenti di polizia che hanno strangolato o ucciso persone
di sfuggire al processo[4].
Gli agenti di polizia coinvolti in casi di violenza o crimini di polizia
possono contare sul sostegno sistematico e incrollabile dei loro colleghi e
sindacati, qualunque cosa abbiano fatto[5].
Ne consegue che l’organizzazione decentralizzata delle
forze di polizia, il suo sostegno da potenti sindacati, una legislazione
protettiva e un incrollabile spirito di corpo mettono a freno ogni speranza di
revisione.
“Il riformismo non è liberazione, è
contro-insurrezione”
Come osserva il ricercatore e attivista Dylan
Rodriguez (vedi sopra), per sessant’anni, le principali fasi delle riforme
della polizia contemporanea hanno risposto sistematicamente alle rivolte urbane
contro la polizia[6].
Sia dopo i disordini di Watts nel 1965, quelli di Detroit nel 1967, sia più
recentemente dopo quelli di Los Angeles nel 1992; ogni episodio di rivolta ha
dato origine a commissioni governative che riunivano politici, capi di polizia,
attivisti dei diritti civili e universitari al lavoro sulla riforma della
polizia[7].
I riformisti che vogliono frenare la rabbia contro le forze dell’ordine
scommettono in particolare sul modello della polizia di prossimità,
che corrisponde alla “polizia di comunità” in Francia. Dagli anni ’60 negli
Stati Uniti, le città istituirono brigate pedonali e a cavallo. Stanno
emergendo piccole stazioni di polizia di quartiere, nonché una politica di
quote di reclutamento per agenti di polizia non bianchi. La polizia dovrebbe
discutere, stabilire contatti con i commercianti, organizzare attività sportive
per i giovani. Devono favorire partnership con associazioni locali, con
residenti conosciuti e riconosciuti nelle loro comunità. La polizia di comunità
prevede anche lo svolgimento di incontri periodici tra agenti di polizia e
residenti (spesso i più anziani e i proprietari di casa) per far emergere i
problemi del vicinato (pulizia del marciapiede, punto d’incontro, presenza di
prostitute, giovani in giro …[8].
Questo pacchetto di misure mira a convalidare una partnership con coloro che
nella comunità hanno interesse alla presenza dei poliziotti. Tuttavia, non si
può dire che la polizia di comunità sia molto radicata nelle forze di polizia
americane, anche se il ritorno dei Democratici alla Casa Bianca potrebbe dare
adito a tentativi di aggiornarlo. Questo metodo di lavoro, anche se
incoraggiato dai fondi federali, fa fatica a prendere piede poiché la maggior
parte dei poliziotti non ne vuole sentire parlare. Inoltre, questo approccio si
basa sull’esistenza di comunità strutturate come minimo attorno ad
organizzazioni con interlocutori del mondo associativo o religioso. Senza
questo, non c’è possibilità di stabilire le partnership essenziali tra la
polizia e le popolazioni. Nei quartieri dove molte persone diffidano della
polizia e sono riluttanti a collaborare con loro, approcci in questi termini
non sembrano avere molto futuro. Negli anni ’90, l’accento era posto sulla
responsabilità della polizia. I poliziotti devono essere trasparenti, affinché
i cittadini possano indicare la loro responsabilità. A quel tempo, i comitati
di sorveglianza dei cittadini si moltiplicarono nelle grandi città[9].
L’idea del controllo della polizia di comunità che era emersa dalle lotte degli
anni ’70 sta assumendo una nuova forma. Oggi, guidata dal municipio, essa
ripristinerebbe la fiducia nelle forze dell’ordine, grazie a una maggiore
trasparenza. Di fronte a questi argomenti, gli abolizionisti sostengono che la
polizia non può essere separata dalle sue funzioni storiche semplicemente con
una “buona” supervisione. D’altra parte, la violenza della polizia vista come
disfunzioni individuali mina la capacità di affrontare il sistema nel suo
insieme. Puntare su un organo di vigilanza della polizia significa investire
sulla possibilità della sua riforma, e quindi della sua legittimazione.
Insomma, un vicolo cieco.
Non sono mele che marciscono, è l’albero delle mele
I numerosi tentativi di riforma sembrano tutti più
incapaci degli altri di porre fine alle vessazioni, alle violenze e agli
omicidi della polizia. La documentazione, la formazione o la supervisione non
proteggono da perquisizioni, intimidazioni, percosse e morte. L’esempio
dell’agente di polizia Derek Chauvin è illuminante: era già stato oggetto
di diciotto denunce interne al dipartimento di polizia di
Minneapolis, era stato obbligato a seguire un corso di formazione sul
pregiudizio razziale, un’altra sulla de-escalation durante gli interventi con
persone in crisi e i pedoni con telecamera, ma tutto ciò non gli ha impedito di
tenere George Floyd sotto il ginocchio per quasi nove minuti. La polizia non
deve necessariamente agire di nascosto per brutalizzare la popolazione, sapendo
benissimo che le sue azioni saranno coperte, relativizzate e messe a tacere dai
responsabili e dalla magistratura. Un maggior grado di trasparenza e vicinanza
all’istituzione non ferma la violenza.
La questione per gli abolizionisti non è mai stata
quella di denunciare le “pecore nere” o le “mele marce” all’interno delle forze
di polizia generalmente considerate buone e competenti. E neppure immaginare
una forza di polizia più rispettosa della legge che ucciderebbe meno cittadini
di “seconda classe”. Perché la ragione di questa istituzione è difendere e
accentuare i rapporti di dominio, come dimostra il legame storico tra la
creazione della polizia, l’inizio della schiavitù e la nascita del capitalismo.
Le riforme cambieranno solo i mezzi per raggiungere questa missione, ma non
cambieranno i loro obiettivi. Gli attivisti antischiavitù avevano lo stesso
tipo di certezze: condannavano il sistema schiavistico nel suo insieme e
lottavano per la sua completa eradicazione, senza chiedersi se la distribuzione
di manuali di buone maniere ai “padroni” avrebbe permesso l’invenzione di un
sistema. …
“Rafforzare la polizia o abolirla passo dopo passo?“
Le riforme della polizia vengono analizzate anche da
una prospettiva abolizionista attraverso ciò che producono in termini positivi
per la polizia, non solo come operazioni cosmetiche in definitiva non
necessarie. La riforma è un alleato diretto delle forze dell’ordine estendendo
il loro potere e aumentando il loro budget con il pretesto di modificarne la
professionalità. Legittima le istituzioni di contrasto aggiornando il possibile
obiettivo di un corretto funzionamento e mira a perpetuare e migliorare il
sistema repressivo. Il collettivo Critical Resistance ha
pubblicato un documento in seguito alle rivolte di Ferguson nel 2014 intitolato
“Rafforzare la polizia o abolirla passo dopo passo?”[10].
Prendendo la forma di una tabella a partita doppia, ogni riforma viene
esaminata dal punto di vista della seguente domanda: questa misura ridurrà la
presa che la polizia ha sulla nostra vita? Tutte le leggi immaginate dai
legislatori vanno nella direzione opposta. Ad esempio, una migliore formazione
della polizia, sbandierata dalla sinistra su entrambe le sponde dell’Atlantico,
ha l’effetto di aumentare il budget dell’istituzione. Si basa sulla bizzarra
convinzione che la polizia possa autolimitarsi lasciando da parte
consapevolmente i vincoli sistemici che la incoraggiano a usare le armi.
Soprattutto, moltiplica le possibilità di intervento per gli sbirri. Quindi, se
una stazione di polizia offre ai suoi agenti una formazione per gestire meglio
le persone in crisi psichiatrica, avranno ulteriore legittimità per intervenire
in tali casi e questo di fatto amplia il loro campo d’azione[11].
Questo tipo di riforma tende in realtà ad aggiungere corde all’arco repressivo.
Abolizione significa costruire un ampio movimento
politico che lotta testa a testa contro il sistema penale. Questa lotta include
varie riforme strappate al potere, che avvicinano a un mondo senza polizia: la
seconda parte del lavoro di Critical Resistance presenta
riforme chiamate “non riformiste”, cioè “abolizioniste”. Molti abolizionisti
difendono questo tipo di provvedimento che Thomas Mathiesen[12],
uno degli attivisti e pensatori del movimento abolizionista sin dagli anni ’70,
dal canto suo ha chiamato “riforme negative”.
È infatti impossibile fare un elenco di riforme
“buone” o “cattive” assolute. Dipende dal contesto, quello che sarebbe un passo
indietro da qualche parte potrebbe essere audace altrove. Gli abolizionisti ci
ricordano regolarmente che si tratta di una questione di strategia. Tuttavia,
l’importanza di affermare l’obiettivo finale rimane: sconfiggere la polizia.
Ecco alcune domande che possono aiutare a fare un
passo indietro rispetto alla pertinenza di una campagna e valutare se rafforza
o meno le attività di polizia:
– Questa riforma riduce il finanziamento delle
polizie?
– Sta riducendo la sua scala, i suoi strumenti, le sue
tecnologie, la sua portata?
– Separa la polizia dalle idee di “sicurezza” e
“protezione”?
– Diminuisce la legittimità delle forze di polizia?
(spesso intesa come autorizzazione alla piena discrezionalità che diventa
libero arbitrio?)
Chiaramente, si tratta di evitare riforme che aiutino
le forze di polizia a superare le crisi di delegittimazione, ristrutturarsi e
mantenere il potere. Spesso esse prendono di mira coloro che le screditano,
riducono il loro budget, il loro armamento, le loro tutele legali, il loro
morale, il loro sostegno politico … Si sovrappongono a cose molto diverse:
organizzarsi a livello locale per mandare via gli agenti di polizia da un
liceo, ottenere il rilascio di un detenuto, ridurre drasticamente il numero
degli agenti di polizia in una città, limitare il pagamento degli straordinari
o addirittura sospendere lo stipendio di un ufficiale se è in corso un’indagine
a suo carico, far pagare dalla loro tasche ai poliziotti le responsabilità
professionali per i loro abusi, violenze ecc. …
Così tante piccole parti del potere della polizia
possono essere soppresse da subito.
La presentazione del libro
Minneapolis, maggio 2020. George Floyd, afroamericano
di 46 anni, muore per soffocamento da parte della polizia. Un’ondata di
proteste, senza precedenti dagli anni ’60, attanaglia allora il paese.
Manifestazioni, mobilitazioni sui social network, saccheggi: l’unicità di
questo movimento sta tanto nella sua portata quanto nella radicalità delle sue
proposte. Non si tratta più di denunciare gli abusi dell’istituto di polizia,
ma di mettere in discussione la sua stessa esistenza.
Defund (definziare) e Abolire la polizia,
smantellare la polizia e il suo finanziamento, sono slogan che, in Francia (e
in Europa) possono sembrare abbastanza astratti. Eppure fanno parte della
storia della lotta dei neri contro la schiavitù e l’incarcerazione di massa.
Sono anche incarnate in esperienze di giustizia trasformativa, solidarietà
comunitaria, autodifesa e lotta femminista.
Traducendo diversi testi scritti negli Stati Uniti
negli ultimi dieci anni, questa raccolta mira tanto a documentare e a
trasmettere questo nuovo abolizionismo: vivere senza la polizia.
Collectif Matsuda
pubblicato su lundimatin#305 – https://lundi.am/Abolir-la-police
traduzione e nota introduttiva a cura di Turi
Palidda
Indice:
Introduzione; I. La rivolta di George Floyd; II. Dalla
schiavitù al potere nero; III. Polizia: riforma impossibile; IV. Il movimento
abolizionista oggi; V. Femminismo e abolizionismo; Conclusione; pubblicato il
10 settembre 2021, 336 pagine, ISBN: 979-10-96195-14-5, 14 euro: https://achat-livre-abolir.vercel.app
note:
[1] A questa svolta editoriale aggiungere Siamo in guerra –
Terrore di Stato e militarizzazione della polizia di Pierre
Douillard-Lefèvre e Defaire the Police con Serge Quadruppani,
Elsa Dorlin, Irené, Jérôme Baschet, due libri di cui non mancheremo di parlare
molto presto.
[2] Vi invitiamo inoltre a visitare il sito web allegato,
www.abolirlapolice.org, che dovrebbe essere regolarmente aggiornato per
alimentare il dibattito sull’abolizionismo offensivo e trasformativo.
Il libro, disponibile in molte librerie, può essere
ordinato anche direttamente sul sito.
[3] La storia non finisce qui, l’agente di polizia omicida rivendica
dieci milioni di dollari dalla famiglia LeGrier per “trauma emotivo estremo”.
[4] Su questo argomento, in Francia, si veda il libro di Vanessa
Codaccioni, La legittima difesa. Omicidi sicuri, crimini razzisti e
violenza della polizia, Parigi, CNRS, 2018.
[5] Una delle uniche eccezioni è Derek Chauvin che è stato licenziato dal
consiglio comunale (il suo ex datore di lavoro), dai suoi colleghi e dai
sindacati di polizia di Minneapolis. Il suo unico sostenitore pubblico al suo
processo è il suo avvocato che continua a dire che non era responsabile
dell’omicidio di George Floyd.
[6] “Il pensiero magico del riformismo. Il riformismo non è liberazione.
È controinsurrezione”, Rodiguez Dylan in Abolition for the people,
online, 2020, Level Media: https://level.medium.com/reformism-isnt-liberation-it-s-counterinsurgency-7ea0a1ce11eb
[7] La rivolta per George Floyd non ha fatto eccezione. I parlamentari
hanno successivamente proposto due leggi di riforma della polizia che alla fine
sono state respinte dal Senato. Anche la città di New York ha lavorato a misure
per le sue forze di polizia nell’autunno del 2020. Sono ben analizzate nel
testo Storie di polizia su www.illwilledition.com. In Francia, ci ricorda il
Beauvau della sicurezza, annunciato dopo il pubblicizzato pestaggio di Michel
Zecler, produttore di musica nera nel novembre 2020, e che porta a… nuove
conquiste sociali per la polizia (trasporto pubblico gratuito, sussidi per le
mutue di polizia …).
[8] Alcune città arrivano addirittura a spacciare i poliziotti per agenti
della lotta contro le disuguaglianze. Ruth Wilson Gilmore racconta, ad esempio,
che la polizia di Los Angeles, dopo i disordini del 1992, formò squadre per
raccogliere denunce nei quartieri poveri e distribuire bicchieri o buoni. Vedi
Ruth Wilson e Craig Gilmore, “Beyond Bratton”, in Policing the Planet, a cura
di Jordan Camp e Christina Heatherton, Verso, 2016, pp 145-164.
[9] Questi gruppi di sorveglianza della polizia cittadina si sono
incontrati nel 1995 nell’Associazione nazionale per il controllo civile delle
forze dell’ordine (NACOLE).
[10] Vedi la tabella tradotta dalla rivista Jef Klak nell’articolo Cosa
fare con la polizia? Le funzioni dell’ordine sociale in questione, disponibili
sul loro sito web.
[11] Sapendo che più di un quarto degli omicidi della polizia negli Stati
Uniti coinvolge qualcuno con problemi di salute mentale.
[12] Thomas Mathiesen è stato un sociologo abolizionista norvegese, autore
tra gli altri di The Politics of Abolition, London: Martin
Robertson, 1974. In italiano si veda il suo libro: Perché il carcere: http://www.ristretti.it/areestudio/cultura/libri/perche_il_carcere.pdf
Disfare la polizia – di
Serge Quadruppani e Jérôme Floch
Introduzione del
libro Défaire la
police, Éditions Divergences, Parigi
Dopo i fatti
di Genova 2001, le brutalità poliziesche sono diventate abituali: i dominanti
non tollerano la protesta contro le loro scelte e vogliono schiacciare tutti i
soggetti sociali che non vi si adattano passivamente. Il testo è stato
pubblicato da lundimatin#306, il 27
settembre 2021. In questo lavoro ricercatori, scrittori, filosofi e
storici propongono di pensare la polizia: da dove viene? A cosa serve? A chi
serve? E come sbarazzarsene? Pubblichiamo qui un estratto di Serge Quadruppani
e Jérôme Floch che introduce il libro e cerca di gettare le basi per una
critica serena e ragionevole delle forze dell’ordine e del mondo che difendono.
Le note a questo testo – tutte del traduttore – sono necessarie per il lettore
italiano che non conosce le vicende a cui vi si allude in diversi passaggi
Traduzione di
Turi Palidda
Perché gli sbirri sono tutti dei bastardi?
Da Hong Kong a
Buenos Aires, dagli stadi egiziani alle manifestazioni francesi, sontuosamente
disegnate sui muri di Santiago come sui vagoni dei treni britannici, negli
stampini a Tunisi o nei pennarelli in una toilette del 9-3[1],
rigonfie a Minneapolis e visibili perfino in un attraversamento pedonale
torinese sapientemente trasformato per sillabare le lettere: indubbiamente lo
slogan che supera di gran lunga in popolarità e universalità ogni espressione
d’amore per la patria, qualsiasi slogan pubblicitario, è colui che proclama che
tutti i poliziotti sono bastardi. L’hashtag #ACAB accompagna oltre 2,2 milioni
di post sul social network Instagram.
Per capire le
ragioni di questa popolarità, forse sarebbe necessario soffermarsi su una
questione di traduzione. A rigor di termini, All Cops Are Bastards dovrebbe
dirsi “Tutti gli sbirri sono dei figli di p.” (o meglio delle canaglie o anche
“fango dell’umanità”, secondo il dizionario Larousse “uomo disprezzable, che
agisce in modo sleale”). Si sa che nel francese popolare contemporaneo, come
nell’italiano o nell’inglese, “bastardo” non significa in primo luogo che
l’individuo così qualificato sarebbe figlio di un’unione illegittima (qualunque
sia la legittimità invocata), ma un bastardo, che merita solo disprezzo e odio.
Ma per cogliere le ragioni dell’incomparabile popolarità di questo slogan, il
rigore del traduttore può essere miope. Senza dubbio dobbiamo scavare nelle
profondità semantiche del termine “bastardo”. Se ha avuto sin dall’inizio una
connotazione negativa, è perché, nelle società patriarcali premoderne, una
nascita al di fuori di un’unione ufficiale ha introdotto, nei confronti della
prole, una perturbazione su un elemento fondamentale del mondo tradizionale:
l’appartenenza. Il bambino non apparteneva interamente al mondo (famiglia,
clan, classe, casta) del padre né a quello della madre. Per quanto riguarda la
polizia, è quindi il loro carattere torbido che dobbiamo mettere in
discussione. Se tutti i poliziotti sono bastardi, non è perché sono tutti
bastardi: sì, lo sono – tranne quando infrangono la loro funzione. Ma non sono
solo questo.
“Tutti i
poliziotti sono bastardi”: quelle e quelli che sono indignati per quello che
percepiscono come odio oltraggioso semplicemente non lo capiscono. La canzone
la conosciamo: certo, ci sono pecore nere, ma la generalizzazione a tutti i poliziotti
delle colpe di pochi è una stravaganza ideologica. Contro questa idea corrente
e rimaneggiata, notiamo al contrario che l’affermazione ACAB trae la sua forza
dalla sua accuratezza e precisione. Tutti i poliziotti sono bastardi, questo è
un dato di fatto, e la verità dello slogan deriva proprio dall’affermazione del
bastardo. È un dato di fatto che, in virtù delle loro origini, la grande massa
dei poliziotti appartiene agli strati popolari. Un altro, altrettanto
indiscutibile, è che, dietro il loro ruolo ufficiale di difesa della
popolazione, negano la loro appartenenza popolare difendendo l’ordine del
mondo, l’economia, la borghesia, il dominante (libero a ciascuno, secondo le
sue scelte teoriche, di qualificare le forze che quotidianamente ci travolgono).
Tutti i poliziotti sono bastardi perché la loro funzione in sé si basa su
questa ambiguità, questa ipocrisia: la loro legittimità dovrebbe essere
popolare anche se servono il potere. Questa prova non è più discutibile in
Francia, la terra della torta alla crema repubblicana, né a Tunisi, Madrid o
San Paolo.
A cosa
serve la polizia?
Il campo delle
attività delle forze di polizia è particolarmente vasto e diversificato.
Segnalano veicoli mal parcheggiati o fermano i ladri, giocano a fare i cowboy
con proiettili di difesa e fanno la guerra alla droga, una minoranza più
accorta risolve omicidi o controlla gli oppositori mentre altri respingono i
migranti al confine, terrorizzano i manifestanti, proteggono l’Eliseo (il
palazzo del presidente della Repubblica) o accorciano i free party.
Sono usate per qualsiasi cosa, e questo è certamente il motivo per cui la
Francia ne impiega più di 250.000.
Ma in fondo a cosa
serve tutta questa polizia? A che servono tutta questa meticolosa quadratura
del territorio, tutta questa sorveglianza dei comportamenti, tutta questa
brutalità istituzionalizzata? Ciò che la polizia difende con tutti i mezzi a
sua disposizione non è l’ordine e la società, è un certo ordine e la sua
società. Su cosa si esercita il suo ricatto di paura e sicurezza, non è la
libertà umana che si tratterebbe di regolamentare, sono gli individui soli,
diseredati e quindi deboli prodotti dal mondo dell’economia. Ciò che la sua
violenza controlla e reprime sono corpi e spiriti vivi e quindi insoddisfatti. La
polizia non è solo il braccio armato dello stato e del governo, è la garanzia
che ognuno rimanga al posto che gli spetta.
Siamo magnanimi.
Se possiamo dire che tutti i poliziotti sono semanticamente bastardi, possiamo
anche immaginare che alcuni non siano bastardi, prepotenti o addirittura
abbrutiti. La polizia stessa deve avere i suoi outsider, la
squadra finanziaria, la tutela dei minori e perché no l’IGPN (il reparto
addetto agli atti illeciti dei poliziotti). Sì, la polizia è disprezzata, ma,
non si obietta con la stessa regolarità che svolge anche compiti utili? Può
capitare di gioire quando mette la mano sul collo di Balkany o intercetta
Sarkozy, quando perquisisce gli uffici del ministro della Giustizia o si
appropria di sms che dimostrano che in passato il ministro dell’Interno ha
abusato dei suoi poteri per ottenere favori sessuali. Ma, anche quando queste
inchieste non finiscono allo sfascio come nell’ultimo caso citato, questa
furtiva soddisfazione è presto turbata dall’evidenza che questi regolamenti di
conti all’interno delle classi dominanti, questo conflitto tra istituzioni
dominanti non mette affatto in causa il dominio e i poteri costituiti ma al
contrario ne attestano la vitalità: se questi casi possono avere conseguenze
spiacevoli per alcune persone in realtà detestabili, stabiliscono anche la
legittimità di istituzioni che lo sono ancor di più, dimostrando di essere
capaci di correggere le loro disfunzioni.
E quando la
polizia impedisce un serial killer (jihadista o maniaco o entrambi) dall’uccidere
ancora, uno stupratore o un pedofilo dal continuare a reprimere, forse non ci
lamentiamo, ma anche qui il nostro sollievo non può che essere di breve durata
poiché la risposta penale e la repressione da sole non impediranno mai alcuno
stupro e non arretreranno in alcun modo la cultura che li produce, mentre la
geopolitica globale e il razzismo di stato (per cui la polizia lavora) non
hanno finito di creare psicopatici sociali pronti a scongiurare la loro
pulsione di morte di orpelli religiosi. La polizia non fa nulla per combattere
l’insicurezza sistemica poiché ne è una parte essenziale.
C’è qualcosa di
molto sorprendente nella situazione in cui stiamo vivendo in questo momento. La
polizia non è mai stata così centrale nel dibattito pubblico. Ad ogni
manifestazione, i social network divampano in reazione ai video ormai
sistematici della brutalità della polizia: infermieri molestati, i loro occhi
accecati, folle soffocate dal gas, percosse con i manganelli. A Redon, per
impedire a qualche centinaio di giovani di commemorare la morte di Steve Maia
Caniço, il prefetto invia, tra gli altri, il GIGN[2].
Immediatamente, le immagini dei gendarmi incappucciati che picchiavano sul
materiale musicale sono diventate virali. A Saint-Denis, qualche giorno prima,
c’erano le immagini di una madre che urlava perché non riusciva più a trovare
il figlio di due anni. Veniva da un funerale che la polizia ha ritenuto opportuno
affogare nei gas lacrimogeni. Ad aprile, 8 giovani accusati di aver dato fuoco
ad agenti di polizia a Viry-Châtillon nel 2016 sono stati finalmente assolti:
gli inquirenti avevano falsificato i verbali delle udienze. Al momento in cui
scriviamo, Bagui, fratello di Adama Traoré, morto per mano della gendarmeria a
Persan, è stato appena assolto dopo 5 anni di reclusione. I tribunali hanno
dovuto ammettere che non aveva partecipato ai disordini seguiti all’assassinio
di suo fratello. Con i molteplici e ricorrenti scandali di corruzione, in tutti
i commissariati di polizia, e in grandi quantità, come nel caso del BAC di
Marsiglia che ha assalito gli spacciatori, o su scala difficilmente
immaginabile, con l’organizzazione, da parte degli Stups (antidroga), del
narcotraffico mondiale in collaborazione con i maggiori spacciatori
internazionali. Con tutti questi racconti in continua evoluzione, la leggenda
d’oro della polizia che macina la TV per i vecchi retrocede costantemente a
favore di una storia di corruzione e violenza degna delle serie americane più
calde. Mentre il nome “guardiani della pace” è caduto in disuso, e nonostante
il martellamento negazionista di Macron e del suo seguito, la nozione di
“violenza di polizia” s’è ora installata nel linguaggio dei media, introducendo
l’idea che la violenza è costitutiva dell’esercizio della professione
dell’operatore di polizia. Gli stessi media più inclini a sostenere l’ordine
delle cose sono costretti a prestare attenzione agli abusi polizieschi. Ma
nonostante tutto, non tutti detestano ancora la polizia, come i manifestanti
costantemente cantano dopo il movimento del 2016 contro la legge El-Khomry (la
parola d’ordine più ripetuta in tutte le manifestazioni è Tout le
monde déteste la police). Anche se l’odio diffuso si sta diffondendo, solo
molto raramente è accompagnato da una comprensione strutturale e sistemica di
cosa sono le forze dell’ordine, cosa rappresentano e a cosa servono, anche
quando non lo sono. Naturalmente, il primo fattore della radicalizzazione
“anti-sbirro”, come dicono i suoi sostenitori, è la polizia stessa: cosa
sarebbe stato del movimento dei gilet gialli senza lo shock della brutalità
della polizia? -, ma la semplice critica agli eccessi, agli oltraggi e alle
famose bavures (illeciti) di un corpo di polizia altrimenti
troppo concentrato sul voto RN (il partito di Le Pen), ci lascia in mezzo al
ponte.
Nelle società
statali in genere e, in Occidente, fino alla fine dell’età classica, era chiaro
e comunemente accettato che gli uomini d’arma fossero lì per primi per fare
regnare la legge del più forte, cioè del signore e del sovrano. Con le
rivoluzioni democratiche borghesi cominciò a prevalere l’idea che “la legge è
uguale per tutti”, principio tanto più affermato nei testi (e in Italia nelle
aule giudiziarie) quasi sempre di fatto negato. Certamente, dal bobby disarmato
ben integrato nel paesaggio britannico allo sbirro davanti al quale tutta la
strada tace nel sud Italia, era diffusa tutta una serie di atteggiamenti,
secondo l’etica religiosa di cui era intrisa la società, il senso civico
protestante o cattolico al quale lo Stato democratico sarà per sempre estraneo.
Insomma, il poliziotto era più o meno rispettato a seconda di quanto la società
fosse vicina allo stato. Ma anche dopo le rivoluzioni borghesi, qualunque siano
le variazioni geografiche, da nord a sud, la divisione di classe è rimasta
determinante, e la piccola borghesia inglese può benissimo amare la sua
polizia, i Cockney spontaneamente l’hanno odiata. Infatti, finché la classe
operaia è stata una classe pericolosa, una certezza è rimasta saldamente
ancorata negli strati popolari: lo sbirro è la prima fila del nemico sul fronte
della lotta di classe.
Questa sana
convinzione ha cominciato a indebolirsi quando gli eredi della socialdemocrazia
e dello stalinismo si sono tuffati nella ricerca della rispettabilità
democratica, mentre progrediva la frammentazione della classe operaia e la
scomparsa della sua controcultura, per finire in questo discorso sull’amore
della polizia democratica forza che è ormai quella di tutte le democrazie
occidentali. Nell’ideologia largamente dominante, l’odio per la polizia sarebbe
ora riservato agli antisociali e agli psicopatici. Torna però una certa
lucidità. A cosa serve un controllore nel metrò? Non per far muovere i treni,
ma per fare in modo che i più poveri non possano muoversi. A che servono le
migliaia di giovani che ogni anno finiscono in prigione per aver fatto un po’
di soldi vendendo hashish? Non per mantenere lo stile di vita sano del cittadino
medio, ma per imporre continue pressioni disciplinari nei quartieri più poveri
e per ricordare ai recalcitranti che, per guadagnarsi da vivere, bisogna essere
sfruttati in una fabbrica, da un’agenzia interinale o da un’app Uber. E le
migliaia di cadaveri che riempiono le acque del Mediterraneo con
un’indifferenza quasi generale, a cosa servono? Per dissuadere i successivi
ricordando loro il prezzo da pagare per entrare nel nostro piccolo inferno
occidentale[3].
In prima e ultima istanza, la polizia non difende il debole, né la vedova, né
l’orfano, né la donna maltrattata. La polizia difende brutalmente il mondo
dell’economia e la sua conditio sine qua non: l’accaparramento da
parte di alcuni del territorio e degli sforzi di tutti. La presa del territorio
da parte di pochi e l’impegno di tutti. La necessità della polizia è una
bufala, la sua esistenza un’usurpazione.
Perché la
polizia?
La storia della polizia
in Francia, sua città natale, è abbastanza semplice: in primo luogo, è la
storia dello Stato. Per produrre e garantire la sua sovranità, s’è cominciato
prima a trovare gente per riscuotere le tasse, poi persone armate per impedire
la rivolta dei poveri, assicurare il flusso delle merci e garantire la
protezione dei ricchi – e della loro ricchezza. Né uno né due, il concetto di
Stato e la sua attuazione pratica, la polizia, hanno fatto il loro fragoroso
ingresso sulla scena della storia. L’idea che una piccola parte della gente
dovrebbe essere usata per mantenere la schiavitù degli altri con la violenza è
abbastanza recente. Così, l’istituzione di polizia può ben presentarsi come
naturale, senza tempo e insuperabile: è solo parassitaria, evanescente e presa
in prova.
Quello che
dobbiamo capire ora è ciò che interessa alla polizia. Come riesce a far fronte
all’odio che suscita e alla vergogna di se stessa? La risposta è crudele. La
forza della polizia, ciò che la fonda quotidianamente, ciò su cui poggia il suo
potere, non sono tanto i suoi numeri, le sue uniformi e le sue armi, quanto il
nostro desiderio di polizia. Se accettiamo di essere brutalizzati e
infantilizzati, è prima di tutto perché ci è stato insegnato ad avere paura.
Uno dei miti più
potenti che giustifica questa oltraggiosa tolleranza è che saremmo pericolosi
l’uno per l’altro, che senza la paura di finire i nostri giorni in prigione, ci
uccideremmo a vicenda e ogni attività sarebbe fermata. Basta guardare un
programma TV per scoprirlo. Ogni giorno, ore e ore di finzioni o “reportage” ci
immergono nel cuore di indagini e altre operazioni frenetiche: si spara al
terrorista, si smaschera degli assassini, si sgominano i reticoli della
prostituzione. Non importa quanto piccola sia la quantità di lavoro della
polizia che rappresentano questi spettacoli, si diffonde l’idea che la polizia
ci sta proteggendo dagli altri. Non importa se il vero lavoro quotidiano della
polizia è regolare il traffico di droga, ottimizzare i viaggi in macchina di
lavoratori e villeggianti, inseguire la plebe che devia, dirimere le liti tra
vicini e picchiare i manifestanti.
Povertà, violenza
sessuale, rumori notturni, consumo di droghe, prostituzione, furti, epidemie,
guida in stato di ebbrezza … Tutti questi comportamenti che la polizia pretende
di regolare e reprimere quotidianamente, è anche l’ultima a poterne trovare una
soluzione.
L’immagine che il
poliziotto ha di sé e alla quale si attiene è un miraggio. Corre come un
criceto nella sua ruota alla velocità richiesta dalla politica dei numeri[4],
sapendo che non avrà assolutamente alcun effetto sulle cause di ciò che
sostiene di combattere. Il poliziotto non combatte contro la delinquenza, fa la
guerra ai poveri e mantiene la povertà.
Ma chi è
la polizia?
Dati statistici e
studi sociologici consentono di conoscere il profilo tipico dell’operatore di
polizia in servizio. È prevalentemente bianco, maschio e di origine popolare.
L’80% proviene da aree rurali o piccoli e medi comuni di provincia e oltre il
60% aderisce a idee di estrema destra. Automaticamente c’è una minoranza di
persone e donne razzializzate, figli di cittadini benestanti e persino un
sindacalista SUD (simile ai sindacati autonomi). Questo è tutto il problema
della sociologia: al di là dell’osservazione oggettiva, fatica a illuminarci.
Quello che
sappiamo anche è che gli operatori vanno molto male, si sentono disprezzati dai
passanti tanto quanto dai loro superiori, che le loro condizioni di lavoro sono
abominevoli e il loro salario umiliante. Secondo un recente sondaggio condotto
dalla Mutuelle Générale de la Police, il 24% di loro afferma di avere pensieri
suicidi, 6,7 volte più degli altri lavoratori (Le Monde, 06/07/2021). La
polizia sarebbe quindi la prima a voler porre fine alla polizia.
Come possiamo
spiegare una tale propensione per la morte? Gli istituti di sanità pubblica
ovviamente propongono le loro piccole spiegazioni: la cattiva atmosfera, l’aria
condizionata dell’auto serigrafata che non funziona più, le ore di
straordinario mai pagate, ecc. Ma dobbiamo affrontare i fatti, queste cattive
condizioni di lavoro sono presenti in quasi tutti i mestieri, non possono
quindi apparire fattori sufficienti. Bisogna poi avanzare un’altra ipotesi per
cercare di capire come il poliziotto possa odiarsi così tanto.
Se, come abbiamo
accennato nell’introduzione, la diffusione mondiale dello slogan “tutti i
poliziotti sono bastardi” è dovuta alla sua efficacia nel mostrare l’ipocrisia
della funzione dell’ufficiale di polizia – che pretende di difendere il popolo,
di emanare da esso, mentre serve essenzialmente solo a difendere l’economia, lo
Stato e i relativi interessi – come non immaginare che tutto ciò non passi attraverso
la polizia stessa? È perché la sua esistenza è insostenibile che è disprezzato
e spregevole, e lo sa. La sua unica attività sociale è mimetizzarsi
nell’uniforme. Pertanto, deve raccontare storie per immaginare di essere
qualcosa di diverso da questo relitto.
Il poliziotto non
è né un guerriero né un mafioso: il beneficio della violenza che prodiga
quotidianamente non gli torna mai, è gratuito. Se molesta, estorce o
brutalizza, non è mai a proprio vantaggio, è perché gli viene ordinato di
farlo. I misfatti che deve compiere quotidianamente non rispondono alla propria
etica ma a idee vuote, lontane e astratte: violenza legittima, sicurezza, pace
civile, ordine delle cose… Egli può ben servirsi della sua libera volontà, per
scegliere le sue vittime secondo i suoi gusti personali, per rivolgersi o
familiarizzare con coloro che controlla, ma ciò che la sua uniforme copre è la
sua irresponsabilità fondamentale. L’unica grandezza che gli è accessibile è
quella di obbedire agli ordini, la sua unica libertà è incarnare su scala
microscopica e derisoria la ragion di Stato[5].
“Ma dietro
l’uniforme c’è un essere umano!” No, quello che c’è è un soggetto irresponsabile
delle sue azioni, un burattino immorale, un artista dal cuore freddo. Ciò che
rende così odiosa la vita del poliziotto è la banalità e la vacuità di tale
male.
Violenza
legittima e brutalità della polizia
Mentre la polizia
diventa sempre più a suo agio nell’arena pubblica e dei media, sentiamo ciò che
rimane dell’indignazione “di sinistra” per l’emergere di uno stato di polizia.
Se non c’è un essere umano dietro l’uniforme, non c’è nemmeno una nobile
istituzione statale dietro l’iniquo stato di polizia. Se è consuetudine
definire lo Stato come l’istituzione che detiene il monopolio della violenza
pubblica legittima, significa che a carico di questa violenza ci sono la
polizia e l’esercito. Da quel momento in poi, ogni stato è fondamentalmente una
forza di polizia. L’unico margine che gli rimane è riuscire a mascherare, più o
meno efficacemente, la violenza che l’ha sempre costituito, dando vita alle
finzioni democratiche che conosciamo. Man mano che queste finzioni si disfano o
perdono credibilità, l’apparato repressivo si svela.
Se in tutto questo
testo abbiamo spesso preferito parlare di brutalità poliziesca piuttosto che di
violenza, non è stato per sostituire una parola con un’altra. Nel 1977, Jean
Genêt scrisse una bellissima prefazione ai “Testi dei prigionieri della
Frazione dell’Armata Rossa”, in cui si proponeva di distinguere violenza e
brutalità: “Se pensiamo a qualsiasi fenomeno vitale, anche secondo il suo
significato più stretto che è: biologico, capiamo che violenza e vita sono
praticamente sinonimi. Il chicco di grano che germoglia e spacca la terra
gelata, il becco del pulcino che rompe il guscio dell’uovo, la fecondazione di
una donna, la nascita di un bambino sono accuse di violenza. E nessuno incolpa
il bambino, la donna, il pulcino, il germoglio, il chicco di grano. “Al
contrario, la brutalità è “il gesto teatrale o la gestualità che pone fine alla
libertà, e ciò per nessun altro motivo che il desiderio di negare o
interrompere un libero compimento. Il gesto brutale è il gesto che spezza un
atto libero”.
Da una parte,
quindi, la violenza vitale e spontanea, quella dei manifestanti che invadono le
strade e i palazzi, le vetrine delle merci che si rompono, i corpi liberi che
si scontrano con gli scudi del potere. E dall’altra la brutalità organizzata
che assume «le forme più inaspettate, non immediatamente rilevabili come
brutalità: l’architettura delle case popolari, la burocrazia, […] la priorità,
nel traffico, data alla velocità sulla lentezza dei pedoni, l’autorità della
macchina sull’uomo che la serve, la codificazione delle leggi prevalenti sulla
consuetudine, […] l’uso del segreto che impedisce la conoscenza di interesse
generale, l’inutilità delle schiaffi nelle stazioni di polizia, il dare del tu
da parte della polizia a coloro che hanno pelle bruna, […] la marcia del passo
dell’oca, il bombardamento di Haiphong, la Rolls-Royce da quaranta milioni…”
È qui che
l’infinita denuncia della violenza della polizia può rivelarsi una trappola.
C’è ovviamente un problema nel rendere visibile a quante più persone possibile
ciò che le forze di polizia stanno cercando di coprire quotidianamente.
Pensiamo subito al prezioso lavoro di censimento e verifica svolto durante lo
spostamento dei gilet gialli dal giornalista David Dufresne. Tuttavia, quando
guardi il suo documentario Un pays qui se tient sage, non puoi
fare a meno di essere a disagio. Le immagini e le testimonianze di brutalità si
susseguono, i poliziotti imbarazzati si giustificano come possono da quello che
tutti abbiamo visto per strada o sugli schermi dei nostri cellulari. Ma il film
è ossessionato da un’assenza. Puoi vederlo, la brutalità sfrenata, sullo
schermo gigante, ma quello che non vedi mai è contro cosa è. Non i corpi gonfi
o mutilati dei manifestanti, ci sono anche loro. No, quello che manca è la
violenza, la rivolta, la voglia che il mondo finalmente cambi. Ciò che la
polizia ha soppresso nel sangue e nei gas lacrimogeni durante il movimento dei
gilet gialli non erano corpi inerti, non era una popolazione obbediente e docile,
ma un popolo che si stava ribellando. Ciò che ha fatto tutta la sua potenza e
l’ha allontanata anni luce dal “movimento sociale”, dai suoi cortei sfiniti con
le sue febbrili pretese che nessuno si stanca nemmeno di ascoltare, è che,
nelle rotonde, nei centri cittadini e sugli Champs Élysées, volevamo combattere
con il potere una volta per tutte. Ciò che fonda la polizia, ciò che la rende
indispensabile a qualsiasi stato, a qualsiasi governo, è il rischio di
insurrezione, la potenziale violenza del popolo. Non c’è lo stato, poi la
repressione poi la popolazione, c’è la gente, poi lo stato e il suo bisogno di
repressione. Il potenziale dell’insurrezione è primario: la polizia la
rincorre. C’è la violenza emancipatrice che crea mondi migliori e la brutalità che
fa di tutto per impedire che accadano. Prima c’è la vita, poi ciò che la
costringe, la reprime, la danneggia[6].
Coronapolizia
Da un giorno
all’altro, con gli arresti domiciliari per metà della popolazione mondiale,
l’evento Covid ha permesso questo: la forza lavoro, ad eccezione di quella dei
decespugliatori ancora non sostituibili dai robot, si trova come mai prima
d’ora individualizzata, isolata, fissata sul luogo chiuso della sua
riproduzione, e sempre più disponibile. Riservando lo spazio esterno al
capitale, alle sue macchine fotografiche e alle forze del suo ordine, abbiamo
fatto apparire con accecante chiarezza l’utopia del capitalismo digitale, in
via di realizzazione da diversi decenni: i suoi algoritmi che si occupano di
catturare la nostra attenzione per approfittare di quasi tutti i nostri momenti
di veglia, in attesa di trovare il modo di fare altrettanto con il nostro
sonno, assicurando insomma in tutto automatismi e con lo stesso impeto la
macchinazione dell’uomo e la riproduzione allargata del capitale. Ma mentre gli
espedienti capitalistici ci prendono la testa, perché non c’è (ancora?) testa
senza corpo, qualcuno deve prendersi cura della nostra carne: è qui che entra
in gioco la polizia. Ecco cosa cerca di imporsi: mentre le nostre teste
apparterrebbero al GAFAM (l’acronimo delle 5 maggiori multinazionali
dell’IT occidentali), i nostri corpi sarebbero sempre più curati dalla medicina
e dalla polizia. Abbiamo visto con quale ottusa brutalità (sebbene non priva di
discriminazione di classe (cfr. il trattamento differenziato del 93 e del XVI
secolo), la polizia francese e tutte le polizie del mondo prendessero parte a
questo programma. Abbiamo anche visto che ciò non avveniva senza la resistenza
dei corpi (né delle teste). In Francia, quando arriva l’epidemia di Covid, il
legame di fiducia tra la polizia e la sua popolazione, come dicono sondaggisti
e politici, è già piuttosto logoro. Ma mentre milioni di persone sono infette,
e centinaia muoiono ogni giorno, mentre tutti devono rimanere chiusi in casa, e
il sistema ospedaliero è vicino al collasso, che significa che mancano le
mascherine, cosa sta facendo la polizia? O meglio, per cosa decide il governo
di utilizzare le sue centinaia di migliaia di scagnozzi? Perché il governo
Macron ha perso l’occasione per tornare a questo benedetto momento post-attacco
quando “baciare un poliziotto” non era solo uno sfogo di ubriachezza, ma un
desiderio condiviso, a quanto pare, da molte persone? Perché non mettere la
polizia al servizio dei bisogni primari della popolazione? Sarebbe bastato
chiamare due o tre tv che hanno familiarità con il giornalismo embedded per
mettere in scena uno spettacolo affascinante a beneficio dell’intero paese dove
la polizia sarebbe stata vista portare la spesa alle nonne. In termini di
propaganda, sarebbero sicuramente valsi 200 episodi di Julie Lescaut. È stata
scelta una direzione molto diversa. I poliziotti, li faremo girare per le
strade per assicurarsi che nessuno esca di casa, chiederemo loro di dare la
caccia a qualsiasi barbecue, di attraversare le foreste per inseguire i
mountain biker, di controllare tutti i veicoli per prenderli, per assicurati
che il loro movimento sia giustificato. Se la maschera viene indossata sotto il
naso, un esercito di pandora è pronto per essere multato. Il contenimento sarà
la realizzazione del sogno che ogni pattuglia porta con sé: dominare la città.
E siccome c’è
comunque inventiva tra gli stolidi che ci governano, è arrivato il momento del
certificato di viaggio. Oltre allo schieramento della polizia, spettava a tutti
avere l’app. Per fare la spesa, portare a spasso il cane o passeggiare nel
raggio di un chilometro e un’ora, dovevi essere preventivamente autorizzato.
Chi avrebbe potuto immaginare un giorno un sistema di controllo così
tautologico, infantilizzante e assurdo? Non dimentichiamo che migliaia di multe
sono state distribuite agli sfortunati che si sono dimenticati di compilare l’auto-autorizzazione
o hanno sbagliato la data. Questo pasticcio di minuti potrebbe essere stato
deriso o diffamato, molti di noi si sono inchinati ad esso e ci si sono
abituati. Per mesi abbiamo dovuto giocare a guardare noi stessi, a
controllarci, a diventare, sulla scia dell’autoimprenditorialità,
autocontrollo. Il resto del tempo, nella tradizione vichy ancora viva (lo stato
fascista francese durante l’occupazione tedesca), ci si poteva fidare
dell’istinto informatore di chi non era abbastanza autoinflitto. Queste cattive
abitudini hanno permesso a Emmanuel Macron di annunciare nell’estate del 2021
che tutti i nostri viaggi in luoghi pubblici sarebbero ora subordinati alla
presentazione di un lasciapassare sanitario. Oppure la comparsa di migliaia di
piccoli confini invisibili che permettono di discriminare chi è in regola e chi
no. Che gli autoproclamati rappresentanti della protesta contro queste nuove
misure siano parassitari dall’estrema destra o da stravaganti convinti che i
rettiliani vogliano inserire chip 5G nel nostro cervello, è prima di tutto una
manna per il governo, che può così creare un diversivo polarizzando il
conflitto tra vaccinati e non vaccinati. Ma dietro questa falsa alternativa si
fa strada il potere. Compresi i gretti dirigenti che ci governano, era ovvio
che manovre del genere non potevano che allargare un po’ il divario tra gran
parte della popolazione e la polizia. Ma per capire perché queste pratiche
prettamente repressive si siano subito imposte, è necessario comprenderle meno
in termini di razionalità che di emozioni e passioni. Il primo motivo della
scelta del manganello era che corrispondeva, per usare un termine
bourdieusiano, all’habitus della polizia. Verso la fine del
secolo scorso e l’inizio di esso, durante i periodi in cui i governanti della
post-sinistra sono subentrati per garantire l’aggiornamento degli standard
ultraliberali della società francese, abbiamo assistito a varie fantasie
intorno alla “polizia locale”, questo folle progetto di riunire la popolazione
dei quartieri a basso reddito e la polizia. Ma già nel 2002, con Sarkozy,
queste ambizioni umanitarie sono state abbandonate. L’amico di Bolloré e
Gheddafi (cioè Sarkozy), con la volgarità e l’arroganza che sono il suo marchio
di fabbrica, si è preso la briga di ricordare che i poliziotti non sono
educatori. Ritorno a un’identità secolare: si bastona per bastonare. La
continuazione di questo programma, la sua applicazione moltiplicata, aveva
tanto più ragione di essere fatta in quanto l’autonomia delle forze di polizia
non cessava di crescere poiché i governanti dovevano fare affidamento su di
essa per far fronte alle crisi – l’ultima e la più grave, quella dei gilet
gialli, avendo consacrato la messa sotto controllo del ministero dell’Interno
da parte dei sindacati polizieschi più reazionari. Nell’unico campo in cui sono
addestrati a inventare, quello della pubblicità e della propaganda (nel loro
gergo, “comunicazione”), i manager hanno comunque fatto questa scoperta: il 29
marzo, l’oggetto mediatico più spaventoso del decennio compare sui social.
Booba, boss del rap esagonale da 25 anni, icona della periferia seguita da
milioni di giovani su tutte le piattaforme, trasmette “Coronatime”, un video in
cui invita i “giovani” a rispettare il confinamento e i gesti di barriera. Per
l’occasione ha anche scelto di intervistare a lungo un ospite sorprendente:
Bernard Squarcini, ex direttore della Dgsi (servizi segreti) non meno mafioso
dei suoi conoscenti. Unire un ex capo della sicurezza interna e il rapper
“pirata” di riferimento che arruffa la polizia con forza, questo è il tipo di
trasgressione (“disturbo” nel loro gergo) a cui gli inserzionisti che ci
governano sono affezionati. Ma questo dice più di quanto vorrebbero. Degna dei
migliori manuali di controinsurrezione, questa scoperta rivolta a una parte
specifica della popolazione ritenuta difficile da controllare fa pensare che,
dietro la gestione prettamente poliziesca dell’emergenza sanitaria, ci fosse
senza dubbio un’altra ragione: la paura.
Se si trattava
ufficialmente di far rispettare misure sanitarie ancora ampiamente comprese e
accettate dalla stragrande maggioranza, la gestione repressiva della pandemia
aveva sicuramente un motivo, che tocca la profonda psicologia di chi era al
potere: lo spegnimento della macchina economica era ai loro occhi teso con
minaccia.
Perché c’erano
molti malati, persone che morivano negli ospedali, famiglie imprigionate nei
loro piccoli appartamenti, persone che perdevano la strada o la loro fonte di
reddito. C’era il telelavoro, con email zelanti dalle 7:00 alle 23:00. C’era
infatti un abbozzo dell’imposizione dell’utopia capitalista del lavoro
rinchiuso, isolato di fronte al capitale. Ma c’erano anche gli uccelli che
avevano ripreso a cantare nelle città, l’aria che era tornata respirabile, i
dipendenti che finalmente avevano potuto prendersi cura dei loro giardini, gli
amici che avevano inventato nuovi modi di incontrarsi. Per la prima volta, gran
parte del pianeta è stata in grado di smettere di funzionare. Immaginiamo per
un secondo che questo arresto globale della macchina capitalista non sia stato
accompagnato dall’isolamento forzato di tutti nelle loro case da parte della
polizia. Immaginiamo che questa libertà di stare insieme, liberati
dall’alienazione del lavoro, possa essere estesa ed essere vissuta da tutta la
popolazione per un periodo che la popolazione avrebbe voluto prolungare…
Immaginiamo… Come impedire alla fantasia di fare il suo lavoro? Come possiamo
evitare che diventi una forza materiale?
Domande
angoscianti per il potere, che a volte suscitavano risposte angosciate. In
alcuni episodi repressivi, come cacciare escursionisti in alta montagna o
spazzare spiagge con il supporto di droni, non si può fare a meno di percepire
uno strano misto di frenesia ossessiva e giochi di ruolo controinsurrezionali.
L’odio del partito che si è manifestato nella folle repressione dei rave-party
o dei raduni spontanei, l’invio del GIGN in tenuta antiterrorismo mascherata
per vessare i relatori: tutto questo non ha altra razionalità che quella della
paura.
È vero che le
feste migliori spesso finiscono in sommosse e viceversa. Chi ci governa lo sa
tanto meglio che a volte ha causato loro dei brutti cambiamenti. Prevenire
un’epidemia di saccheggi dei supermercati, sicuramente anche a questo serviva
la gestione delle forze dell’ordine del Covid. Centinaia di migliaia di persone
stipate in alloggi scadenti, l’economia parallela chiusa, i lavoratori
temporanei in disparte: il governo ha guardato i sobborghi francesi come bidoni
in fiamme.
Se il governo ha
schierato centinaia di migliaia di poliziotti, ciò potrebbe essere
principalmente dovuto al timore che lo spegnimento della macchina economica
riveli comportamenti ingovernabili[7].
Era quindi necessario che i confinamenti e le restrizioni fossero vissuti in
primo luogo non come un esercizio di autodisciplina liberamente acconsentito,
ma come un momento punitivo dal quale si tratterebbe di uscire quanto prima per
ritrovare la normalità, cioè ordinaria alienazione. Il capitalismo non ama la
gioia, vuole la resilienza[8].
Destituire
la polizia
La prima trappola
che la polizia ci tende è quando ci trattano come nemici e scatenano il
risentimento reciproco dentro di noi. Ecco perché dobbiamo subito prendere la
strada opposta, rifiutare la simmetria. La lotta contro gli sbirri non si
riduce a questi tafferugli che ormai accompagnano le manifestazioni, e che
rallegrano quando permettono loro di sfuggire alla vigilanza della polizia e
dei sindacati affinché tutti possano sparpagliarsi in città, occupare luoghi,
legare, ribaltare simboli, affermare rabbia e gioia, talvolta deprimente quando
ridotta a rituali di gas lacrimogeni. La lotta agli sbirri ha qualche
possibilità di successo se gioca sulla natura bastarda di quest’ultimi,
accentuando la confusione che la caratterizza. Se si appoggia dove fa male: la contraddizione
tra la loro cultura popolare e la loro guerra contro il popolo, sulla
riflessione che gli danno gli irregolari. Questo non sarà fatto con i fiori,
siamo d’accordo. Il 5 gennaio 2019, Christophe Dettinger, “lo Zingaro di
Massy”, avanza sulla passerella Léopold-Sédar-Senghor e inizia a boxare a mani
nude i gendarmi super attrezzati che avevano appena bloccato la folla e
picchiato a terra un manifestante. La scena viene filmata e vista da milioni di
francesi, le immagini si illuminano alle 20: nasce una stella. Identificato
dalla polizia, si è arreso 3 giorni dopo e si è trovato imprigionato. Un
crowdfunding (di raccolta fondi) raccoglie 117.000 euro in meno di 24 ore.
L’ondata di entusiasmo non è il risultato di un pensiero strategico, è un’emozione
suscitata dalla bellezza del gesto, dal tranquillo coraggio di un individuo.
Dove la polizia ha eretto un muro, Christophe Dettinger vede un sentiero.
Elimina gli ostacoli e apre la strada. Se è stato necessario incarcerarlo,
trascinarlo nel fango sulle tv, chiudere la sua pentola di appoggio e creare un
concorrente a sostegno della polizia, non era solo per punirlo per il suo
”essere difeso e per aver difendeva i suoi simili”, ma perché era necessario
distruggere la sua immagine e la gioia che inevitabilmente procurava a tutti
coloro che erano stati sottoposti per settimane o anni all’onnipotenza della
polizia. L’esempio è altrettanto valido per la ZAD di Notre-Dame-des-Landes[9]:
se lo Stato ha mobilitato mezzi così enormi per schiacciarla, è perché era
inaccettabile che esistesse sul territorio nazionale uno spazio dove la polizia
fosse caduta in disuso. Dobbiamo seguire la strada aperta da Christophe Dettinger.
Molto più dei suoi pugni, ciò che ha ferito i poliziotti è stato l’aver
mostrato di avere dalla sua parte le virtù di cui si vantano: il coraggio, la
freddezza, l’uso ragionato della violenza al servizio della protezione dei più
deboli. Ha suonato su una corda profonda nel cuore delle persone, nel cuore
delle donne e degli uomini che, per quanto poco possiedano, avranno sempre
quello, a cui a volte si aggrappano a costo della propria vita: la loro
dignità. Questa è la linea di fondo: i poliziotti non hanno onore. I poliziotti
devono vergognarsi di loro. Nel libro che ha dedicato loro, Valentin Gendrot,
un giornalista che si è infiltrato nella loro casa attraverso l’accademia di
polizia, racconta un “errore” coperto da tutta la sua pattuglia, lui compreso.
Inizia con un’umiliazione inflitta a un bambino e continua perché il bambino si
rifiuta di subire senza batter ciglio. Ci si può interrogare sulle ragioni di
fondo del comportamento del poliziotto sbavando, sull’assoluta arbitrarietà
delle sue provocazioni a danno di un ragazzino che non ha nulla di illegale in
sé e tace perfettamente. In primo luogo, ovviamente, c’è una questione di
godimento. A causa dello scarso potere che gli conferisce la sua divisa, il
vile poliziotto, quello che dobbiamo sovvertire, è continuamente vegliato da
questa passione malvagia: il piacere di umiliare, di ferire. Ma è necessario
precisare cosa porta questi uomini e queste donne a sfogare tanto odio: il
disprezzo in cui loro si sentono trattenuti. Ciò che colpisce nella storia di
Gendrot come nei libri dei sociologi, nei commenti fatti all’interno dei gruppi
Facebook delle forze dell’ordine o anche nelle discussioni su WhatsApp di
poliziotti apertamente fascisti rivelati dalla stampa, è la sensazione tra
molti di essere disprezzati, tanto dai loro superiori quanto da buona parte
della popolazione. Il poliziotto di base è frustrato e, come tante persone
frustrate di tutte le professioni, la sua frustrazione si trasforma in fascismo
e razzismo. Fascismo: Se sono una merda, potrei anche concedermi il piacere di
trattare di merda gli altri. Razzismo: io sono una merda ma gli altri, gay o
razzializzati o donne o intellettuali, l’elenco potrebbe continuare, sono anche
peggiori merde.
Durante il
movimento contro la legge El-Khomri, il nostro amico editore Eric Hazan ha
pubblicato in mattinata un testo dal titolo: “Sulla polizia, un’opinione di
minoranza”. Ha proposto di incontrare la polizia più demoralizzata per cercare
di radunarli nel movimento. Se il testo ha suscitato qualche scherno negli
ambienti cosiddetti radicali, ha comunque toccato un punto essenziale. Non ci
sarà vittoria possibile finché una parte sostanziale delle forze dell’ordine
non deciderà di abbassare le armi. Ciò su cui non siamo d’accordo, tuttavia, è
come ottenere questa resa delle truppe. Il 14 luglio 1789, se la Bastiglia fu
presa, fu perché, il giorno prima, 48.000 elettori avevano formato milizie e
saccheggiato i depositi di armi. Nel 2011, se le forze di polizia di Mubarak e
Ben Ali hanno finito per disertare le strade, è stato perché gli insorti hanno
saccheggiato e bruciato le stazioni di polizia a centinaia e la polizia è stata
giustamente percepita come l’incarnazione di questi due regimi dittatoriali.
A differenza di
molte altre professioni, quella dei poliziotti vieta che nell’esercizio delle
loro funzioni si trovi con loro qualsiasi lotta comune che li porti fuori dalle
loro cattive passioni. Grazie al movimento dei gilet gialli, molti spiriti che
vi erano entrati con sproloqui nazionalisti, cospiratori, ecc., a forza di
buoni incontri, si sono arresi. Niente del genere è possibile con i poliziotti.
L’unico rappresentante della polizia, a nostra conoscenza, che abbiamo visto
schierarsi con i gilet gialli e combattere al loro fianco, un gendarme, non ha
più futuro in questa professione. Nel 2016, ai poliziotti arrabbiati che hanno
marciato sulla scia delle proteste antisindacali, non avevamo altro da dire
loro se non questo: non siate più bastardi.
O più
precisamente, non essere più bastardi di poliziotti. Perché è ora di
ammetterlo: non abbiamo nulla, in linea di principio, contro i bastardi. Anche
noi siamo preoccupati per i nostri ruoli sociali, assumendo di essere un padre,
un artista, uno spazzino per la società, ma molto più contro di essa. Piuttosto
che rivendicare una purezza irrintracciabile, di fronte ai poliziotti, la
nostra strategia deve essere questa: essere più bastardi di loro. Sapendo
giocare su tutti i fronti. Ciò significa, ad esempio, non rifiutarsi di
combattere sulla base delle garanzie legali, quando non le rispettano, pur non
chiudendosi nel legalismo. Sapendo sostenere, davanti a loro, dove fa loro
male: il disonore di aver scelto una professione del genere. Ti senti
disprezzato? Ma è perché sei spregevole! Nonostante i tuoi salari molto più
alti di quelli degli operai, e le incessanti lusinghe dei tuoi capi (che però
ti disprezzano quanto noi e tu lo sai), la tua condizione è dura? Bene,
lavoreremo per renderla ancora più dolorosa, come lavoreremo per rendere la
diserzione sempre più desiderabile.
Dopo il movimento
di George Floyd, negli Stati Uniti è sorto intero il problema su cosa fare con
la polizia. Abolirla per i più radicali, ridurne i finanziamenti per i più
timidi, riformarla per i repubblicani francesi. Ma questi dibattiti ideologici
e incombenti sembrano soprattutto favorevoli a produrre e legittimare ipotesi
astruse. Ricordiamo che in Francia l’unico movimento di massa che ha preso sul
serio la questione della polizia è stato quello dei gilet gialli, che a priori
non aveva nulla contro la polizia in quanto tale, anzi. Ma affrontandola,
scoprendo la bassezza e la crudeltà dietro le sue azioni, i Gilet sono passati
rapidamente da “La polizia con noi” a “Tutti detestano la polizia”. Perché
nello slancio del loro movimento, non volevano più essere sorvegliati.
Mettere fine alla
polizia significa trovare i mezzi per destituirla e rimuoverla non è picchiarla
con la forza o abolirla in astratto, è renderla inoperante.
Risolvere il
problema della polizia è trovare una via d’uscita in mezzo alla sua
onnipresenza. Ciò implica poterla respingere, eludere, disperdere e
disorientare le sue forze come hanno fatto le migliaia di rotonde affollate,
per rendere la sua esistenza ancora più insostenibile e vergognosa di quanto
non sia mai stata. Far esistere i legami e i mondi all’interno dei quali non
avrà mai più il suo posto.
NOTE
[1] Si
tratta del 93, cioè il dipartimento Seine-Saint-Denis, ossia la banlieue di
Parigi categorizzata dai media e dall’opinione dominante anche fra sociologi
ecc. come la “peggiore”, quella che “pone più problemi” di ordine pubblico ecc.
Di fatto è una delle banlieue le più razzializzate e criminalizzate di Francia.
Vedi: https://www.cairn.info/journal-herodote-2016-3-page-55.htm; https://www.cairn.info/revue-herodote-2016-3-page-99.htm; https://www.nouvelobs.com/rue89/rue89-nos-vies-connectees/20150130.RUE7659/pourquoi-toujours-le-9-3.html.
[2] Animatore
di 24 anni ucciso durante la carica della polizia ritrovato, in avanzato stato
di decomposizione, nella Loira un mese dopo la scomparsa. Del ragazzo si erano
perse le tracce dopo la brutale carica della polizia alla Festa della
Musica: https://www.agi.it/estero/ragazzo_morto_francia_carica_polizia-5939537/news/2019-07-30/.
Il GIGN, Groupe d’intervention de la Gendarmerie nationale (GIGN)
è un’unità d’elite della Gendarmeria nazionale francese specializzata in azioni
antiterrorismo.
[3] È
il messaggio di “lasciar morire” dei paesi d’immigrazione ai migranti
(vedi Umanità a perdere. Sindemia e resistenze, da
chiedere a info@osservatoriorepressione.info)
[4] Si
allude qui al sistema imposto da Sarkozy (il “sarcometro”) per misurare la
produttività dei poliziotti in base al numero di arresti, denunce, controlli
d’identità, metodo adottato anche in Italia e che si rifà alla logica liberista
di pretendere di misurare la produttività di tutti (vedi Polizie,
sicurezza e insicurezze, 2021).
[5] Su
questo punto mi permetto di segnalare che una parte degli operatori delle
polizie interiorizza categorie e idee reazionarie che corrispondono a
comportamenti brutali contro soggetti sociali che disprezza sino al punto che
vorrebbe eliminarli (al pari dei nazisti). Il suicidio di alcuni potrebbe
essere spiegato come profonda crisi rispetto alle illusioni di essere un
operatore dello stato per il bene del popolo, oppure a seguito di mobbing da
parte di superiori e colleghi (vedi Polizie, sicurezza e insicurezze,
2021).
[6] Questo
punto è importante: se la polizia francese è diventata la più la brutale
d’Europa è in reazione alle rivolte dei gilets gialli, delle banlieues, delle
manifestazioni come quelle contro la riforma della legge sul lavoro e di quella
delle pensioni. Laddove come in Italia le lotte sono meno incisive la polizia
sembra essere meno brutale ma questo non esclude che possa subitaneamente
diventarlo.
[7] Ricordiamo
che a più riprese capi della polizia e ministre dell’interno italiani hanno
allertato a tale proposito. Di fatto tutte le polizie di tutti i paesi sono
state messe in allerta rispetto ai rischi di rivolte.
[8] Sin
dagli anni ’90 il discorso della resilienza è diventato dominante innanzitutto
come antitesi alle resistenze rispetto ai disastri sanitari, ambientali ed
economici (vedi https://www.researchgate.net/publication/323884247_Resistenze_ai_disastri_sanitari_ambientali_ed_economici_nel_Mediterraneo).
[9] È
il caso più famoso in Francia, simile a quello dei NOTAV della Valsusa.
Il
riformismo non è liberazione, è controinsurrezione
Non puoi
abolire la violenza sistemica anti-neri e razziale-coloniale proteggendo il
sistema stesso.
Questo
articolo fa parte di Abolition
for the People, una serie creata da una partnership tra Kaepernick
Publishing e LEVEL, una
pubblicazione Medium per e sulla vita degli uomini neri e “di pelle scura”. La
serie, che comprende 30 saggi e conversazioni nell’arco di quattro settimane,
punta alla conclusione cruciale che polizia e carceri non sono soluzioni per i
problemi e le persone che lo stato considera problemi sociali, in essa si
reclama un futuro che metta la giustizia e i bisogni delle comunità al primo
posto.
La
logica della “riforma”
La
riforma va meglio intesa come una logica piuttosto che un risultato: un
approccio al cambiamento istituzionale che sostiene i sistemi sociali,
economici, politici e/o legali esistenti, inclusi, ma non limitati a, polizia,
politica elettorale bipartitica, eteronormatività, giustizia penale, e
distruzione corporativa del mondo naturale.
Riformare
un sistema significa aggiustare aspetti isolati del suo funzionamento al fine
di proteggere quel sistema dal collasso totale, sia da parte di forze interne
che esterne. Tali aggiustamenti di solito si basano sul presupposto
fondamentale che questi sistemi devono rimanere intatti, anche se producono
costantemente miseria asimmetrica, sofferenza, morte prematura e condizioni di
vita violente per determinate persone e luoghi.
Mentre
la polizia moderna è emersa attraverso la violenza istituzionalizzata
dell’apartheid anti-nero e le lunghe eredità genocide della schiavitù dei beni
mobili e della guerra di frontiera, gli sforzi contemporanei di “riforma della
polizia” suggeriscono nondimeno che la polizia può essere magicamente trasformata
in una istituzione non-anti-neri, non-sistema razziale-coloniale (“razzista”).
Secondo la storia, questa magia bianca deve essere eseguita attraverso
cambiamenti frammentari nell’amministrazione della polizia, nei protocolli,
nella “responsabilità degli ufficiali”, nella formazione e nel reclutamento del
personale.
La
campagna #8CantWait campaign, ampiamente
pubblicizzata sui social media dall’organizzazione no profit We the
Protestors e dal sua Campaign Zero durante i primi giorni della ribellione
globale del giugno 2020 contro la violenza della polizia anti-nera, esemplifica
la frode fondamentale di questa magica ambizione. Basata su un’insostenibile, poco ricercata e
pericolosa nozione che l’adozione delle sue otto politiche migliorate di “uso
della forza” porterà la polizia a uccidere “il 72%
in meno di persone“, l’agenda #8Can’t Wait ha attirato l’immediato
e diffuso supporto di celebrità e funzionari eletti, tra cui Oprah Winfrey,
Julián Castro e Ariana Grande. Tali avalli sono inseparabili dalla logica politica
del complesso industriale nonprofit : l’infrastruttura della
filantropia liberale mercifica le narrazioni semplicistiche di riforma in
ordinate frasi audio/testo che possono essere facilmente ripetute, retwittate e
ripubblicate da persone e organizzazioni rivolte al pubblico. Questa dinamica
non solo insulta l’intelligenza di coloro che sono impegnati in forme di lotta
serie e collettivamente responsabili contro la violenza di stato; glorifica
anche la pigrizia in cerca di potere come sostituto dell’attuale attivismo
(abolizionista).
Uno
dei tanti problemi evidenti con #8CantWait – che sostiene la riduzione
dell’escalation, “l’avvertimento prima di sparare”, il divieto di strozzature e
l’installazione di un “continuum dell’uso della forza” – è che molte delle sue
proposte di riforma sono state assorbite dai dipartimenti di polizia con più
omicidi di neri negli Stati Uniti (incluso il famigerato Chicago PD) molto
prima delle uccisioni di Breonna Taylor, George Floyd e tanti altri, sanzionate
dallo stato. Contro tutte le prove storiche, #8CantWait tenta di convincere
coloro che mettono in discussione e si ribellano a un sistema violento e che
crea miseria che la polizia è riformabile, che può essere modificata e
rinnovata per proteggere e servire gli stessi luoghi, comunità e organismi che
ha storicamente sorvegliato, pattugliato, intimidito e sviscerato.
Come
ha scritto la direttrice del Progetto NIA e organizzatrice abolizionista
Mariame Kaba su New York
Times editorial di giugno, “Non c’è una sola epoca
nella storia degli Stati Uniti in cui la polizia non sia stata una forza
violenza contro i neri”. Un recente amicus brief in
Harvard Civil Rights-Civil Liberties Law Review fa eco alle Black radicali feministe and
abolizioniste come Kaba, Rachel
Herzing, Alisa
Bierria, Sarah Haley, Beth Richie,
e Ruth
Wilson Gilmore considerando come #8CantWait equivalga a un reazione
liberale e al tentativo di appropriazione di un emergente movimento di massa
globale che affronta radicalmente le logiche fondamentali anti-nere di genere
della polizia moderna. Il brief suggerisce che “la decisione
di Campagna Zero di andare avanti con una proposta di mezzo, proprio quando gli
organizzatori abolizionisti hanno iniziato a raccogliere un maggiore sostegno
pubblico nelle loro richieste di definanziare e abolire la polizia, è
discutibile”.
È
fondamentale chiedersi perché tali campagne di riforma emergano costantemente
con particolare intensità in momenti storici di diffusa rivolta antisistemica.
Le ribellioni globali del 2020 contro la polizia anti-nera, l’accelerazione
dell’organizzazione abolizionista e proto-abolizionista e la diffusione dei
radicalismi femministi e queer neri in mezzo a noi sono, come potrebbe dire il
defunto Cedric
Robinson, una totalità brillante, disordinata e bella che cerca di
rovesciare condizioni di terrore. Queste condizioni sono sia profondamente
storiche che acutamente presenti, e comprendono le forze mortali della
criminalizzazione, dell’insicurezza abitativa e alimentare,
dell’incarcerazione, dell’intossicazione ambientale mirata, della violenza
sessuale e della demonizzazione culturale. Tuttavia, i movimenti di riforma
tendono a oscurare e riprodurre contemporaneamente condizioni di terrore
normalizzate rinviando e/o reprimendo il confronto collettivo militante con i
fondamenti storici della violenza di stato anti-nero e razziale-coloniale di
genere. In altre parole, se il fondamento di tale violenza è la polizia stessa
piuttosto che atti isolati di “brutalità della polizia” o giustizia penale
piuttosto che lo scandalo della “carcerazione di massa”, allora la riforma è
semplicemente un altro modo per raccontare gli obiettivi di tale guerra
domestica asimmetrica che devono continuare a tollerare l’intollerabile.
Cosa
potrebbe significare, in momenti di diffusa ribellione contro condizioni
normalizzate di terrore, concettualizzare campagne di riforma come #8CantWait
come una counterinsurgency liberal-progressista?
In che modo tali controinsurrezioni riformiste servono a minare, screditare o
altrimenti interrompere le crescenti lotte dei popoli oppressi e in cerca di
libertà (neri, indigeni, incarcerati, colonizzati) per le trasformazioni
abolizioniste, anticoloniali, decolonizzanti e/o rivoluzionarie delle
trasformazioni sociali esistenti, sistemi politici ed economici?
“Riformismo”
Il reformism –
la posizione ideologica e politica che si fissa sulla riforma come motore
primario, se non esclusivo, del cambiamento/giustizia sociale – è un altro nome
per questa forma morbida di controinsurrezione. Il riformismo rinvia, evita e
persino criminalizza gli sforzi delle persone per catalizzare un cambiamento
fondamentale in un ordine esistente, spesso attraverso mandati dogmatici e
semplicistici di “nonviolenza”, incrementalismo e conformità.
Inoltre,
il riformismo vede nella legge l’unica forma legittima di protesta, espressione
culturale/politica collettiva e/o intervento diretto su condizioni
sistemicamente violente. (Vale la pena notare che l’interpretazione di atti
violenti vs. atti non violenti richiede discussione e dibattito, in particolare
in risposta a nozioni ossimoriche di “violenza sulla proprietà” che raramente
spiegano la violenza di genere anti-nero e di stato razziale-coloniale.) Il
riformismo limita l’orizzonte di possibilità politica a ciò che è visto come
realizzabile entro i limiti delle strutture istituzionali esistenti (politica
elettorale, capitalismo razziale, eteronormatività, stato-nazione, ecc.).
La
controinsurrezione riformista fa perno sulla fervente convinzione che lo
spirito di progresso, miglioramento nazionale e convinzione patriottica
prevarranno su un ordine fondamentalmente violento. In pratica, questa credenza
si avvicina a una sorta di pseudo-religione.
Mentre
le forme abolizioniste, rivoluzionarie e radicali di analisi e movimento
collettivi creano spesso un confronto inconciliabile con istituzioni e sistemi
oppressivi, il riformismo cerca di preservare gli ordini sociali, politici ed
economici modificando aspetti isolati del loro funzionamento. Un’affermazione
peculiare anima le forme contemporanee di questa controinsurrezione
liberal-progressista: che le lunghe asimmetrie storiche, sistemiche,
istituzionalmente riprodotte dalla violenza dei sistemi esistenti sono le
sfortunate conseguenze di “disuguaglianze”, “disparità” risolvibili,
“pregiudizi (inconsci o impliciti) ”, corruzioni e/o inefficienze. In questo
senso, il riformismo presuppone che uguaglianza/equità/parità siano
realizzabili — e auspicabili — all’interno dei sistemi esistenti.
La
controinsurrezione riformista fa perno sulla fervente convinzione che lo
spirito di progresso, miglioramento nazionale e convinzione patriottica
prevarranno su un ordine fondamentalmente violento. In pratica, questa credenza
si avvicina a una forma di fede liberale dogmatica, una sorta di
pseudo-religione. Pertanto, l’aumento della “diversità” nel personale e
nell’infrastruttura burocratica, i cambiamenti nell’apparato giuridico e
politico e la “anti-bias
trainings” (formazione anti-pregiudizi) individualizzata diventano
alcuni dei metodi principali per alleviare la violenza di stato. C’è ancora un
altro strato di presupposto fatale che struttura la posizione riformista: che
coloro che sono presi di mira dalla miseria, dallo sfollamento e dalla morte
prematura nell’ambito dell’ordine sociale esistente devono tollerare la
sofferenza continua mentre aspettano che la “correzione” riformista prenda
piede.
Abolition
Un’analisi
abolizionista e una prassi collettiva, d’altra parte, offre una confutazione
urgente all’incrementalismo in malafede della posizione riformista. Vale la
pena sottolineare due parti della risposta abolizionista dilagante: in primo
luogo, che la logica interna dell’ordine sociale, politico ed economico
esistente (secondo Sylvia
Wynter, chiamiamola “Civilization”)
equivale a una lunga guerra storica contro popoli specifici e posti. In secondo
luogo, che la trasformazione di un tale ordine non solo richiede il suo
sconvolgimento, ma deve anche essere guidata dalla liberazione, dalla salute
collettiva e dall’autodeterminazione dei popoli di origine africana, dei popoli
indigeni e aborigeni, e di altri popoli e luoghi presi di mira dalla lunga
storia della Civilizational
war (la guerra civilizzatrice). Considerando la logica anti-Black,
genocida e proto-genocida del
capitalismo razziale, lo stato-nazione (USA), la supremazia bianca e la settler-colonialdomination,
il riformismo non è semplicemente inadeguato al compito di abolire l’anti-nero,
la guerra coloniale razziale; è fondamentale per l’espansione, la
sofisticazione e la scadenza della Civilization.
Per
essere onesti, alcune rare campagne di riforma cercano immediati aggiustamenti
istituzionali che affrontino direttamente le vittime asimmetriche
dell’anti-Blackness e della violenza razziale-coloniale. Gli Abolitionist
approaches to reform (approcci abolizionisti per la riforma),
ad esempio, approvano misure a breve termine che difendono l’esistenza di
persone vulnerabili e oppresse, consentendo al contempo a organizzatori, insegnanti,
studiosi e altri attivisti di costruire una maggiore capacità di ribaltare e
trasformare completamente gli accordi sistemici esistenti. #8toAbolition, la risposta
abolizionista a #8CantWait, esemplifica un tale programma di riforme locali
immediate, che includono il definanziamento/ridistribuzione dei budget della
polizia, la depenalizzazione delle economie e delle comunità incentrate sulla
sopravvivenza, la decarcerazione delle carceri e l’accesso universale a un
alloggio sicuro. Tuttavia, la campagna afferma comunque che “l’obiettivo finale
di queste riforme non è creare polizie o carceri migliori, più amichevoli o più
orientate alla comunità. Invece, speriamo di costruire una società senza
polizia o carceri, in cui le comunità siano attrezzate per provvedere alla loro
sicurezza e benessere”. La riforma è, nella migliore delle ipotesi, una tattica
provvisoria di emergenza che gli abolizionisti intraprendono con precauzione.
Questo
momento storico è segnato da molteplici cancellazioni del copione riformista:
un numero crescente di persone, comunità e organizzazioni sta rifiutando con
fermezza e militanza l’ordine sociopolitico ed economico contemporaneo. Siamo
in un periodo animato da una diffusa rivolta dei neri e degli indigeni, visioni
audaci di un futuro contro/dopo la civiltà e un disciplinato rifiuto di massa
di arrendersi all’intimidazione dei reazionari di destra e all’aperta
repressione dello stato. La proliferazione di attività di base, linguaggio, pensiero
e apprendimento collettivo espongono le fragili rivendicazioni ideologiche del
riformismo, che appassiscono di fronte all’arte, al movimento e alla poesia in
aumento dell’abolizione, della rivoluzione, della riparazione e della comunità
radicale che definiscono periodi come l’estate del 2020. I lettori di questo e
altri contributi ad Abolition for the People potrebbero già essere coinvolti
con tali comunità, ma se non lo sono, possono probabilmente cercare e trovare
modi per collegarsi a tali collettivi con il minimo sforzo. (Altrimenti,
possono contattarmi all’indirizzo dylanrodriguez73@gmail.com e farò del mio
meglio per facilitare una connessione.)
Infine,
in un momento in cui gli Stati Uniti stanno reagendo a questa ondata di umanità
insorgente e autoliberante, muovendosi apertamente verso una versione del
ventunesimo secolo del fascismo nazionalista bianco, è utile rivisitare le
parole dello scrittore rivoluzionario nero, insegnante e organizzatore George
Jackson, dal suo libro Blood in My
Eye:
Non
avremo mai una definizione completa del fascismo, perché è in costante
movimento, mostrando un nuovo volto per adattarsi a qualsiasi particolare
insieme di problemi che sorgono per minacciare il predominio della classe
dirigente tradizionalista e capitalista. Ma se uno fosse costretto per motivi
di chiarezza a definirlo con una parola abbastanza semplice da comprendere per
tutti, quella parola sarebbe “riforma”.
La
violenza di Stato fatale e terrorizzante non è contenibile in incidenti
isolati. Attinge ed espande attivamente una lunga storia della Civiltà basata
sull’eviscerazione e la negazione della vita nera; l’occupazione e la
distruzione di popoli e luoghi indigeni; la criminalizzazione delle persone
queer, trans e disabili; il fiorente danno della violenza sessuale autorizzata
dallo stato; e l’ostinata onnipresenza della misoginia violenta, che sono
l’ordine quotidiano delle cose nelle condizioni della guerra (domestica)
normalizzata.
La
riforma è nella migliore delle ipotesi una forma di gestione delle vittime,
mentre il riformismo è controinsurrezione contro coloro che osano immaginare,
attuare e sperimentare forme abolizioniste di comunità, potere collettivo e futuro.
L’abolizione, in questo senso, è la giusta nemesi del riformismo, nonché la
risposta militante, di principio e storicamente fondata alla controinsurrezione
liberale.
L’abolizione
non è un risultato.
Piuttosto,
è una pratica quotidiana, un metodo di insegnamento, creazione, pensiero e un
progetto di costruzione comunitaria insorgente (“fugitive“)
che espone le insidie dell’avventura riformista. Demistifica la magia a buon
mercato del riformismo ed evoca un abbraccio della dinamica tradizione radicale
e rivoluzionaria nera che informa i collettivi di labors
of freedom (lavori di libertà), struttura le nozioni di
giustizia e autodifesa collettiva e induce un obbligo politico ed etico a
combattere senza scuse, in qualunque modo sia disponibile, efficace e
storicamente responsabile. Niente di meno: è una concessione alle logiche del
genocidio anti-nero e razziale-coloniale.
da Level
Medium
Traduzione
e nota introduttiva a cura di Turi Palidda
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