I missili Jupiter
Quando si tenne la prima marcia Perugia-Assisi, avevo tre anni. Di quel
1961 ricordo che abitavo a Taranto e, davanti a casa mia, c’era una famiglia di
militari americani arrivati da poco. Marito, moglie e un bambino con i capelli biondi.
Venivano dagli Stati Uniti per ragioni a noi ignote. Io cercavo di giocare con
il bambino americano biondo. Aveva giocattoli molto più belli dei miei. Ma i
suoi genitori non lo facevano uscire di casa. Un giorno lo picchiarono perché
aveva giocato con me. Tanta severità non ce la sapevamo spiegare. Era come se
avessero eretto un’inspiegabile cortina di silenzio e di riservatezza. Ma poi,
quaranta anni dopo, fu tutto più chiaro. Vennero desecretati i documenti che
spiegavano quella presenza di soldati americani a Taranto e in Puglia. Che
facevano esattamente e perché erano venuti da noi? Erano arrivati dagli Stati
Uniti per installare trenta missili Jupiter a testata nucleare in dieci basi
segrete. Ognuno di quei missili aveva una potenza cento volte superiore a
quella di Hiroshima. Quattro di quelle testate nucleari furono colpite in pieno
da fulmini e due rischiarono di esplodere. Manca oggi dai libri di storia
questo terribile dettaglio da cui è dipesa la mia vita e la vita di tante
persone. Le postazioni di quei missili, smantellati dopo la crisi di Cuba, sono
ancora visibili. Su PeaceLink ne abbiamo fatto la mappa con le coordinate satellitari
perché sulle Google Maps è possibile ancora individuarne le tracce.
La marcia Perugia Assisi del 1961 e la mobilitazione degli intellettuali
Quei missili c’erano quando fu fatta la prima Marcia Perugia-Assisi nel
1961. Nell’Italia consapevole e progressista che partecipò a quella marcia si
respirava un clima di lucida angoscia. Erano anni terribili. Un sottile e
fragile filo collegava la vita delle persone alle grandi scelte delle
superpotenze nucleari. Aldo Capitini, padre intellettuale e spirituale della
nonviolenza in Italia, fu l’ideatore di una marcia di speranza. Il merito
dell’iniziativa fu quello di dare inizio a un nuovo movimento pacifista,
ideologicamente indipendente dalle superpotenze, diverso da quello dei
“partigiani della pace” egemonizzato dai comunisti subito dopo la seconda
guerra mondiale. Il 1961 fu quindi l’avvio del primo movimento pacifista del
dopoguerra realmente autonomo e indipendente, capace di esprimere una cultura
della pace e della speranza a cui contribuirono personalità come don Lorenzo
Milani, Giorgio La Pira, Ernesto Balducci, Danilo Dolci. A fare da apripista
era stato già don Primo Mazzolari. Quel movimento di idee fu ulteriormente
arricchito da intellettuali e scrittori come Gianni Rodari, Franco Fortini e
Italo Calvino. A livello internazionale si erano distinti, nell’impegno per la
pace e il disarmo nucleare, uomini di scienza del calibro di Albert Einstein e
Bertand Russell. A questi si aggiunse Linus Carl Pauling, due volte premio
Nobel, prima per la chimica e poi per la pace, che assieme a Barry Commoner
mobilitò migliaia di scienziati contro i test nucleari in atmosfera.
La scomparsa dei pacifisti da Google News
A distanza di sessant’anni da quel primo movimento pacifista, così ricco di
uomini di cultura e di scienza, così indipendente ma così schierato dalla parte
della sopravvivenza dell’umanità, si avverte chiaramente oggi una evidente
assenza: quella degli intellettuali. Non che manchino intellettuali impegnati,
ma la differenza rispetto a sessanta anni fa è troppo evidente per essere
taciuta.
Sessant’anni dopo sta per scomparire addirittura la parola “pacifista”, una
parola che Freud utilizzava tranquillamente e con orgoglio scrivendo ad
Einstein. C’è oggi quasi una remora a usare quella nobile parola. Per evitare
che scompaia, PeaceLink la sta inserendo nei titoli delle sue pagine web perché
continui a essere indicizzata da Google e dagli altri motori di ricerca. La
parola pacifista rischia infatti di non dare più risultati se
la si cerca su Google News. Il sito di PeaceLink la mantiene in vita intenzionalmente
con articoli ad hoc, ma è come se la semantica si fosse inaridita. È una cosa
terribile su cui occorre riflettere, perché “pacifista” sembra quasi una
vecchia parola di cui vergognarsi, così come tanti si vergognano di essere
stati “comunisti”. Fra gli aggettivi scomparsi c’è anche “imperialista”, come
se nel mondo l’imperialismo non ci fosse più. Gli studenti trovano questa
parola sui libri di storia, la studiano, salvo poi scoprire che oggi non viene
usata più dai politici. Il primo politico che parlasse della politica
imperialistica degli Stati Uniti non potrebbe più fare il ministro,
avrebbe finito la sua carriera, e quindi si autocensura.
Le stagioni del movimento pacifista
Il movimento pacifista italiano ha conosciuto quattro stagioni: la sua
primavera, con la marcia Perugia-Assisi del 1961; la sua estate, con la lotta
agli euromissili dell’inizio degli anni Ottanta, sostenuto dal PCI di
Berlinguer ma anche da tanti giovani e da tante realtà spontanee della società
civile; il suo autunno, con la guerra del Golfo del 1991, in cui il pacifismo
venne abbandonato dal PCI, ormai a fine corsa, ma per fortuna
don Tonino Bello ebbe la capacità, con padre Ernesto Balducci, di ridare un
riferimento credibile ad un movimento disconosciuto da chi lo
aveva alimentato, magari in funzione anti-craxiana; il suo inverno, con
l’appoggio di D’Alema e Fassino alla guerra del Kosovo del 1999 e
dell’Afghanistan del 2001; un inverno durato vent’anni, caratterizzato persino
da ambiguità durante le guerre di Libia e di Siria che hanno visto uno
sbandamento vistoso del movimento pacifista.
Unica eccezione nel lungo inverno del declino pacifista è stato il grande
movimento mondiale del 2003 per fermare la guerra di Bush in Iraq. Un movimento
che si innestava nella precedente mobilitazione no-global del 2001. Nel 2003
milioni di persone riempirono le piazze, e anche i balconi, con le bandiere
arcobaleno.
Di quel luminoso movimento cosa è rimasto? Un cimitero di siti Internet non
aggiornati o addirittura scomparsi. Migliaia di pagine web non ci sono più, e
questo fa riflettere parecchio. Sono scomparsi partiti e giornali. Cosa rimane
allora? Forse l’esperienza di autonomia, serietà e competenza di alcuni
segmenti del pacifismo. Il pregio della specializzazione e della competenza è
sicuramente il lascito più interessante di quella intensa fiammata di attività
che vide la centralità di testimoni di pace come
Alex Zanotelli, Gino Strada, Luigi Ciotti e Tiziano Terzani.
Information warfare e comunicazione
pacifista
Se dovessi indicare un limite del pacifismo di oggi, sceglierei quello
della comunicazione inadeguata. C’è una evidente incapacità di competere in
modo efficace con i media militari nella velocissima battaglia
dell’informazione (information warfare) con cui giorno dopo giorno viene
modellata l’opinione pubblica durante le crisi militari e i momenti più acuti
dei conflitti armati. Pur disponendo di tecnologie digitali a portata di tutti,
non teniamo testa all’offensiva mediatica militare che si palesa soprattutto
sui social network, ossia su quel terreno che – per sua natura – dovrebbe
vederci vincenti. È incredibile ma è così. La manipolazione delle coscienze
passa attraverso una strategia mirata di diffusione di informazioni non
verificabili e la velocità della comunicazione digitale è travolgente, provoca
una grande scossa emozionale sull’opinione pubblica. Basti pensare agli annunci
di uso delle armi chimiche, quasi sempre fake news costruite per gettare
discredito su una delle due fazioni in conflitto. Il movimento pacifista ha una
scarsa attitudine alla velocità. La prontezza nella comunicazione non è la sua
carta vincente. Non controlla rapidamente l’informazione digitale generata
dalla guerra. A volte condivide fake news. Nei conflitti è invece fondamentale
che le bugie vengano messe subito in dubbio e smentite, entro le 24 ore e non
dopo due settimane, due mesi, due anni o vent’anni. Questo è il grande limite
del pacifismo, ed è un limite culturale, perché con le tecnologie digitali
potrebbe essere velocissimo ed efficace nel controbattere colpo su colpo e
passare all’offensiva mettendo sotto accusa le bugie del potere militare
in real time.
La cosa drammatica è che noi pacifisti non siamo in grado di imitare ciò che ha
fatto Assange. Forse non lo vogliamo emulare per paura di fare la sua fine? Il
dato di fatto è che non abbiamo avuto neppure l’intelligenza di sostenere
Assange e gli altri eroi del nostro tempo come Hale, Manning, Snowden. Tranne
alcune frange di volonterosi il resto è silenzio. Il movimento pacifista è oggi
il grande assente in questa lotta civile per la libertà dell’informazione
negata dalla guerra e dal potere militare americano. Ritornerò su questo punto.
Il pacifismo: delegittimato e sotto assedio
Oggi il quadro complessivo del pacifismo è – dal mio osservatorio – quello
di una città abbandonata e sotto assedio. Ma con sacche di resistenza isolate
che cercano di riconnettersi. Gino Strada è stato un esempio magnifico di
resistenza contro la guerra. Rispetto a sessanta anni fa va notato che l’assedio
posto al pacifismo non proviene dalla destra militarista ma
dalla sinistra con l’elmetto, quella governativa. Siamo stati
delegittimati non dai nostri avversari ma dai nostri “amici”. È stata la
sinistra – che un tempo marciava contro gli euromissili – ad abbandonare e poi
a isolare il movimento che si opponeva alla guerra in Afghanistan. Il movimento
pacifista è stato sabotato dall’interno. Ci chiedevano una legittimazione
della guerra per i diritti umani. È stata usata una raffinata
retorica (i partigiani che facevano la guerra contro Hitler e Mussolini) e sono
stati resuscitati anche temi cari al colonialismo (ricordiamoci che Giolitti e
Mussolini andavano in Africa per “liberare gli schiavi”). In nome dei diritti
umani ci hanno chiesto di rinunciare alla bandiera della pace e ci hanno
proposto un elmetto umanitario. Sembrava che il mondo dovesse
essere rimesso a posto con missioni militari altruistiche e
che chiunque si opponesse a questo altruismo con le stellette fosse insensibile
ai valori della libertà. Il tradimento della sinistra è durato più di vent’anni
e ha scolpito coscienze nuove, ha sfigurato l’identità di quella che un tempo
era l’Italia progressista e pacifica. Pasolini direbbe che una parte
dell’Italia è stata sfregiata e bruttata per
sempre. Era l’Italia dei nostri padri e dei nostri nonni, quella che la guerra
l’aveva patita e per questo condannata per sempre. Ci è stata chiesta l’abiura.
Un’abiura ai nostri valori giovanili, e tutto questo per la loro carriera
politica. È avvenuta una cosa così vergognosa sotto il profilo etico che è
difficile persino scriverne. Il tradimento è passato dal terreno della pace a
quello ambientale e qui la sinistra in carriera ha fatto il
resto dei suoi disastri. Molti di noi si sono dovuti riconvertire da pacifisti
a ecologisti per difendere i territori e la salute, io stesso l’ho fatto per il
caso ILVA. Ho visto finire sotto processo quelli che avevamo votato. È emerso
come un incubo e si è materializzato.
Le nostre responsabilità
Oggi, a sessant’anni dalla prima marcia Perugia-Assisi, il movimento
pacifista conosce una crisi senza precedenti. Pensate che non vi è stata alcuna
reazione allarmata neppure alla notizia (rivelata da Wikileaks) che la CIA è in grado di
controllare tutti i cellulari e persino le nostre conversazioni davanti a una
smart TV.
Oggi ignoriamo che c’è un informatico in carcere negli Stati Uniti che – con
grande sacrificio personale – ha passato a Wikileaks oltre ottomila pagine
top-secret (con il nome in codice Vault 7) che attestano quella capacità di
controllo globale su cellulari e smart TV, in violazione della Costituzione
Italiana e della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani. Il nome di questo
informatico è Joshua Adam Schulte ma non vedo folle che si mobilitano. Si
ripete il copione di Edward Snowden che adesso è salvo non perché ci siamo
mobilitati noi ma perché è saputo fuggire e ora vive nascosto.
La “guerra al terrore” ha generato il carcere di Guantanamo (su cui è partita una campagna per la chiusura), dove hanno
torturato le persone senza che il movimento pacifista abbia fatto in Italia
qualcosa di realmente significativo. Alcuni addirittura pensavano che
Guantanamo fosse stata chiusa! La nostra responsabilità di pacifisti è grande.
Perché? Semplice. Perché loro hanno addormentato le nostre
coscienze. Ma noi che abbiamo fatto per svegliarle? Vent’anni
di guerra in Afghanistan ci hanno abituato ai suoi abusi. Le violazioni delle
Convenzioni di Ginevra non hanno mobilitato le masse. Non siamo stati in grado
neppure di supportare la richiesta della Corte Penale Internazionale di
processare gli Stati Uniti per crimini di guerra.
La strategia del potere in questi anni non è stata quella di sbaragliare il
pacifismo con una prova muscolare. La strategia è stata quella di mettere in
una pentola tiepida la rana e di lessarla un po’ alla volta, finché non ha
avuto più lo scatto per saltare fuori. Ed ora il movimento è bollito. Quanti si
stanno battendo per chiedere la liberazione di Daniel Hale che ha fatto
obiezione di coscienza ai droni e oggi è in un carcere americano per aver
raccontato la verità? Quanti provano l’indignazione giusta per uscire fuori dal
tiepido brodo in cui sono stati lessati?
Abbiamo lasciato solo Assange
Siamo di fronte a una preoccupante assuefazione al male. Una
larga fetta della società convive con ciò che detesta. Ma è come se questa
assuefazione la subissimo anche noi pacifisti perché, come ho scritto prima,
non siamo in grado di supportare efficacemente la campagna per Wikileaks e per
la liberazione di Assange. Senza il contributo di Assange non
avremmo saputo che cosa succedeva realmente in Afghanistan. E quando Assange ha
messo online le menzogne di guerra, noi non abbiamo usato quegli strumenti
formidabili, ma ci siamo succhiati come caramelle le bugie che venivamo
condivise sui media progressisti. Abbiamo persino creduto che la
guerra in Afghanistan avesse migliorato le condizioni di vita degli afghani!
Tutte bugie che gli Afghanistan Papers hanno demolito,
ma quanti hanno letto gli Afghanistan Papers fra i pacifisti
italiani? E così ci siamo fatti infiltrare dalla propaganda, altrimenti non si
spiegherebbe la nostra mancata azione per porre fine alla guerra in
Afghanistan, guerra interrotta per volontà degli Stati Uniti senza che vi fosse
una battente iniziativa pacifista.
La grande differenza rispetto a sessanta
anni fa
La crisi del movimento pacifista sta qui, in queste incredibili assenze. Le
informazioni segrete sulla guerra e sugli abusi del potere militare non hanno
in Italia mobilitato granché. Non abbiamo difeso le persone coraggiose, gli
eroi del nostro tempo. Quelli che – con tanto pericolo – ci hanno consegnato le
verità nascoste. Informazioni che documentavano la distanza fra la realtà e la
propaganda di guerra. Una mole incredibile di dati su cui ha lavorato Stefania
Maurizi, autrice del libro “Il potere segreto”. Ma noi pacifisti,
diciamolo chiaramente, eravamo immersi nel tiepido brodo di cottura delle
informazioni manipolate. Dormivamo sereni perché i buoni tutto sommato stavano
vincendo in Afghanistan. Stavano governando con libere elezioni. Cercavano di
garantire i diritti delle donne, aprendo scuole e offrendo alle bambine il
diritto finalmente di studiare. Perché scendere in piazza? E quando i buoni
hanno perso e sono stati cacciati, ecco che ci siamo svegliati per gridare – da
bravi pacifisti bolliti – contro i cattivi talebani.
Il letargo dell’Afghanistan
Quando ci siamo svegliati da questo letargo, dopo zero iniziative
sull’Afghanistan negli ultimi dieci anni, abbiamo scoperto che il governo afghano
era un fantoccio, privo di reale consenso. Abbiamo scoperto che l’esercito
afghano, sulla carta con 350 mila uomini dotati delle migliori tecnologie
militari, si è volatilizzato di fronte all’avanzata di 75 mila insorti, meno
attrezzati militarmente. Per giungere a Kabul non hanno sparato un colpo. Tutto
si è concluso senza spargimento di sangue. Se non fossero stati talebani
avremmo parlato di nonviolenza. Ma il finale ha talmente infastidito la
sinistra con l’elmetto che abbiamo assistito alla spasmodica ricerca
dell’informazione negativa a tutti i costi per spostare l’attenzione e non
parlare del fallimento di venti anni di guerra e di retorica di guerra.
Sull’Afghanistan avevamo il dovere di fare di più e non lo abbiamo fatto. E
di questa nostra assenza occorrerà capire il perché. La mia opinione è che in
ultima analisi abbiamo creduto alla propaganda americana, preferendo anche una
lunga guerra al ritorno dei talebani. È brutto da dire ma bisogna ammettere che
l’egemonia del pensiero a stelle e strisce è penetrata nella nostra base
sociale che in larga parte vota PD e che alla propaganda filo-americana del PD
ha creduto. E così i pacifisti sono stati mutati – in vent’anni di mutazioni
graduali e quasi impercettibili – in paciocconi e creduloni che
hanno bevuto il racconto delle conquiste civili sotto l’occupazione americana.
È un brusco risveglio dire loro oggi che le statistiche erano state manipolate.
Credevano che esistesse veramente un Afghanistan buono dove migliorava
l’alfabetizzazione, l’aspettativa di vita, e così via. Il Corriere
della Sera ha addirittura parlato di un aumento di 8 anni
dell’aspettativa di vita in Afghanistan nei 20 anni di “guerra umanitaria”,
come a dire: con la guerra in Afghanistan gli afghani, pur morendo, hanno
vissuto in media di più. Quello che è mancato al movimento pacifista in questi
anni è stato il controllo sulla propaganda di guerra e la controinformazione
per arginare il fenomeno dei paciocconi creduloni che avevano
ammainato la bandiera arcobaleno per credere alle informazioni manipolate.
Sessanta anni fa il movimento pacifista aveva un coraggio e un’identità che
oggi occorre ritrovare.
La fine della guerra: sciagura od opportunità?
Mentre la fine della guerra del Vietnam è stata salutata nel 1975 come un
fatto positivo, dopo averne denunciato le menzogne con una martellante campagna
di volantini davanti a scuole e università, in queste settimane abbiamo
assistito alla fine della guerra dell’Afghanistan senza qualcosa di simile al
1975. Anzi. Quando c’è stato il ritiro abbiamo quasi rimproverato Biden, invece
di sostenerlo. Rimani ancora un po’, diceva l’Europa. Il regista
Michael Moore negli Stati Uniti ha invece detto chiaramente: bravo
Biden, ti sostegno. Ho apprezzato l’articolo di Domenico
Gallo su MicroMega che – anche lui – ha sostenuto la saggia scelta
di Biden di ritirare le truppe.
Invece della chiarezza di queste posizioni, nella sinistra abbiamo invece
assistito a strani “contorcimenti” che non rendono chiaro se vogliamo che
ritorni la “guerra umanitaria” o se vogliamo far fuggire in aereo tutte le
donne dall’Afghanistan per metterle in salvo dai talebani. Ho letto persino la
firma di Piero Fassino (che non rinnega l’appoggio alla missione militare di
venti anni fa) accanto a quella di autorevoli esponenti di movimenti pacifisti
in un comunicato, frutto di uno di questi “contorcimenti”, che cercava di
mettere tutti d’accordo, pur di salvare gli afghani dal flagello dei talebani.
La regressione della consapevolezza
In questi sessant’anni siamo pertanto regrediti dalla chiarezza e dalla
consapevolezza di chi partecipava alla prima marcia Perugia-Assisi. Siamo
approdati ad uno stato di confusione che è sicuramente frutto
di come la sinistra con l’elmetto, quella che ha appoggiato questi venti anni
di guerra fallimentare, abbia combattuto una duplice guerra: una in Afghanistan
e una dentro il movimento pacifista. La sinistra con l’elmetto è stata in grado
di iniettare nella cultura pacifista uno “stato di colpa” così riassumibile: se
non appoggiate la parte civile e “umanitaria” della missione militare in
Afghanistan sarete responsabili moralmente delle violazioni dei diritti umani
da parte dei talebani.
Oggi scopriamo che gli afghani non hanno imbracciato gli oltre 350 mila fucili
e mitragliatori, generosamente donati dall’industria militare occidentale, per
difendere le “conquiste civili” e il governo “democraticamente eletto”. E
scopriamo che non hanno opposto neppure una resistenza passiva nonviolenta come
i cittadini di Praga del 1968 di fronte alle truppe del Patto di Varsavia.
Niente, niente di niente, neppure una mezza manifestazione di persone per
scattare una foto simbolo consolatoria che raccontasse la resistenza
all’avanzata dei talebani.
E allora quello “stato di colpa” oggi non funziona più di fonte a queste lezioni
della storia, e per questo allora ce lo ripropongono ogni giorno con
notizie di violenze e soprusi, come se prima violenze e soprusi fossero stati
cancellati nell’Afghanistan liberato dalla NATO e dagli USA. Qualcosa
evidentemente è andato storto e la NATO è sotto shock per aver perso la guerra.
Ma noi ne siamo consapevoli? O ci addoloriamo assieme alla NATO per la
sconfitta?
Rimettere al centro l’ONU e l’educazione alla pace
Come scrive Domenico Gallo su MicroMega la sconfitta della NATO in
Afghanistan è paragonabile al crollo del Muro di Berlino e segna l’inizio di
una nuova epoca che consente all’ONU di riprendersi la sua centralità per una
politica di pace. La rinascita del movimento pacifista dipenderà dalla sua
capacità o meno di saper cogliere questa grande occasione. Oggi essere
pacifisti significa rimettere al centro l’ONU e fare educazione alla pace nelle
scuole, nell’ora di educazione civica, anche perché il sedicesimo obiettivo
dell’Agenda ONU 2030 è quello della pace.
Le cose da fare
Un’azione da sostenere è quella di un controllo serrato sul commercio delle
armi, applicando la legge 185/1990 che vieta di esportare armi italiani a
nazioni in guerra e che violano i diritti umani. Occorre poi mobilitarci per
impedire che in Italia arrivino le bombe atomiche di nuova generazione,
spingendo perché il parlamento discuta sull’adesione dell’Italia al trattato
ONU sulla messa al bando delle armi nucleari. Come esempio oggi di buona
prassi, vorrei segnalare una interessante iniziativa coordinata da Elio Pagani
che sta riunendo diverse associazioni per finanziare uno studio giuridico sulla
legalità della presenza delle armi nucleari in Italia.
Dobbiamo far tesoro delle buone prassi. Possono essere di riferimento le due
grandi campagne, quella sulle mine antiuomo e quella sulla messa al bando delle
armi nucleari, che hanno consentito al movimento per la pace mondiale di
conquistare due premi Nobel attraverso una campagna capillare, seria e
pragmatica, nazione per nazione, unita a una forte spinta ideale.
Un brevissimo cenno alla telematica è d’obbligo: il movimento pacifista è
quasi invisibile online. Era molto più visibile venti anni fa. Quest’anno
ricorrono i trent’anni dalla nascita di PeaceLink e in questi trent’anni abbiamo imparato come la “battaglia
dell’informazione” sia ormai cruciale. Bisogna saperla condurre investendo in
competenze digitali. Se si fa eccezione per PeaceLink, su cui vengono investite
molte risorse e attenzioni, sono pochissime le altre realtà online che entrano
in Google News e che svettano nei motori di ricerca. La frantumazione è una
delle cause della scarsa visibilità. Ma anche i coordinamenti sono poco
visibili per diverse ragioni su cui sarebbe importante discutere. Ma in
particolare l’uso di Facebook è diventato la causa del fatto che il movimento
pacifista non viene indicizzato sui motori di ricerca. I post su Facebook
(usati tantissimo perché pratici e veloci) sono spesso invisibili rispetto ai
motori di ricerca: non creano “memoria digitale”. È necessario che il movimento
pacifista acquisisca competenze digitali, ora che tutti hanno
le abilità digitali. Le competenze richiedono che alle abilità
vengano connesse conoscenze comunicative, come saper titolare, saper fare
notizia, saper scegliere le parole, saper confutare le fake news in tempo
reale. Le competenze digitali servono a scegliere gli strumenti più adatti ad
essere efficaci. Ma su questo versante non si presta attenzione e non vi sono
percorsi di autoformazione. E allora ci siamo tiepidamente immersi nel brodo
commerciale di Facebook, felici e contenti, senza esplorare le alternative
social che pure esistono (segnalo sociale.network).
Cosa significa essere pacifisti oggi
Per concludere questa mia personale riflessione, vorrei sottolineare che
essere pacifisti oggi significa non fare sconti a nessuno. Adesso è venuto il
momento della resa dei conti. Una pacifica ma intransigente resa dei conti. Gli
USA hanno perso la guerra, e anche la Nato. Adesso è il momento di essere
intransigenti in modo nuovo, rivoltando la questione dei diritti umani sui
paladini dei diritti umani che sono stati cacciati dall’Afghanistan. La
Campagna per chiudere la prigione di Guantanamo deve diventare a mio parere la
base di partenza per una critica della guerra a partire dai diritti umani,
ossia da quella base culturale su cui gli Stati Uniti hanno lanciato le loro
guerre umanitarie. Occorre porre sotto accusa chi ha compiuto, in particolare
dopo l’11 settembre 2001, crimini di guerra.
Deve essere, il nostro, un cambio di paradigma e di narrazione. I diritti umani
sono stati usati per mettere sotto accusa i “nemici” dell’Occidente, mentre
siamo stati noi a primeggiare nei crimini di guerra a livello globale. È stato
il terrore esercitato dall’Occidente, in modo inumano, l’inizio di uno dei più
bui periodi per la storia degli Stati Uniti e della NATO. Dobbiamo far capire
che questo è il momento di provare vergogna e i primi a doverci chiedere scusa
devono essere proprio i leader della sinistra con l’elmetto.
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