Il significato dell’espressione, sia nella lingua originaria che in quella italiana, per quanto riguarda l’aspetto teleologico, è chiaro e inequivocabile: indica le azioni volte a porre fine alla vita di una persona allo scopo di evitargli sofferenze prolungate nel tempo o una lunga agonia.
Non altrettanto condivisa è la classificazione delle
condotte che vengono considerate eutanasia. Si parla di eutanasia
attiva quando la morte è diretta conseguenza dall’azione di un terzo,
come la somministrazione di un farmaco da parte del medico, e di eutanasia
passiva quando la morte costituisce l’effetto indiretto di un’azione o
di un’omissione, come nel caso della sospensione di trattamento sanitario o
dell’alimentazione artificiale.
Fattispecie a sé, sarebbe costituita dal suicidio
assistito, (l’aiuto o l’assistenza al suicidio) nel quale è la persona che
desidera morire a compiere l’atto che produce la morte grazie all’aiuto di una
terza persona. Il caso classico è quello del medico, o di un familiare
che, su richiesta dell’aspirante suicida, gli fornisce un farmaco idoneo a
procurargli la morte, che sarà però il richiedente ad assumere.
Quanto alla classificazione delle condotte non vi è
consenso neppure all’interno del Comitato Nazionale di Bioetica che,
chiamato a pronunciarsi sulla questione dopo la nota sentenza della Corte
Costituzionale, si è limitato a dar conto dell’esistenza di diverse opinioni al
suo interno: alcuni hanno sostenuto che la distinzione tra eutanasia e suicidio
assistito sarebbe speciosa, data la sostanziale equivalenza tra
il fatto di aiutare una persona che vuole darsi e si dà la morte, e il fatto di
essere autore della morte di questa persona; altri hanno ritenuto che, sia
sotto il profilo filosofico che simbolico, consentire a una persona
di darsi la morte non è identico a dare la morte a qualcuno a seguito della sua
richiesta.
Il suicidio, da un punto di vista giuridico, non è
oggetto di divieto da parte della legge. Tuttavia, – secondo
interpretazione dello stesso Comitato di bioetica, non si
ritiene esercizio di un diritto costituzionalmente garantito, ma viene
inteso come una semplice facoltà̀ o un mero esercizio di una libertà di fatto.
Lo sfavore dell’ordinamento si ricaverebbe, tra l’altro, dal fatto che la
legge sanziona penalmente sia le condotte che incitano al suicidio, sia quelle
che provocano, materialmente, la morte di una persona che chieda di porre fine
alla propria vita.
L’art. 579 del codice penale punisce (con reclusione
tra i 6 e i 15 anni) chi cagioni la morte di una persona con il consenso di lui
ed un’altra norma (art. 580) punisce con pene variabili tra 1 e 12
anni chi determina altri al suicidio, ne rafforza il proposito, ovvero ne
agevola, in qualsiasi modo, l’esecuzione.
Si tratta, per la verità, di norme estranee
all’impianto costituzionale, introdotte dal Codice penale del 1930
precedentemente all’entrata in vigore della Carta Costituzionale. Norme,
peraltro, già dichiarate parzialmente incostituzionali. La Corte costituzionale
, (Sent. n. 242 del 22 novembre 2019), ha dichiarato
incostituzionale l’art. 579 del c.p. nella parte in cui non esclude la
punibilità di chi con le modalità di cui alla legge n. 219/2017 (Norme
in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento)
o con modalità equivalenti, agevoli l’esecuzione del proposito di
suicidio che si sia autonomamente e liberamente formato, di una persona tenuta
in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia
irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputi
intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli,
sempre che tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate
da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del
comitato etico territorialmente competente. La norma, è ritenuta in
contrasto con gli art. 2, 13 e 32 Cost. che riconoscono i diritti
inviolabili dell’individuo, la libertà personale ed il diritto alla salute.
Sulla base dei ragionamenti del Giudice costituzionale
si può sospettare che anche l’art. 580, (oggetto del quesito referendario)
potrebbe non superare un eventuale vaglio di costituzionalità ove
la Corte venisse chiamata a pronunciarsi. La distinzione tra fornire il
prodotto che procura la morte e somministrarlo, quanto a finalità ed
effetti, è assai labile, almeno fuori dai confini di Bisanzio, posto che, in
ogni caso si produce la morte della persona che, nel rispetto delle condizioni
indicate dal Giudice costituzionale, lo richieda.
Del fatto che il suicidio costituisca una
semplice facoltà e non un diritto, o una libertà di fatto, si
può dubitare. Nel diritto alla vita, al pari di altri diritti
costituzionalmente garantiti, è implicito anche il diritto a rinunciare
all’esercizio di tale diritto. Il diritto ad iscriversi ad un sindacato, ad
esempio, comprende in sé anche il diritto a non iscriversi. Il diritto alla
riservatezza non proibisce di comunicare ad altri i dati che si ha diritto a
mantenere riservati. Analogamente, il diritto alla vita non impone alla persona
l’obbligo di restare in vita. Non le impedisce, in altri termini, di decidere
di non esercitare quel diritto. Se così non fosse, dovremmo concepire non solo
un diritto alla vita, ma, accanto ad esso, anche un obbligo a restare in vita.
Ma possiamo davvero ipotizzare che l’ordinamento, in presenza dell’esplicita e
consapevole volontà di una persona di rinunciare al proprio diritto alla vita,
possa in qualche modo costringerlo a vivere?
L’art. 32 della Costituzione consente, ove sia la
legge a disporlo, l’obbligo di sottoporre le persone a determinati trattamenti
sanitari, anche contro la loro volontà; precisa, tuttavia, che la legge non può
in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana.
Personalmente, non credo che imporre di continuare a vivere ad un uomo o ad una
donna che con piena coscienza e consapevolezza abbiano deciso di lasciarsi
andare nelle braccia della loro “sorella morte” – tanto più se si tratta di una
scelta dettata dall’urgenza di fuggire da un insopportabile dolore fisico e
psichico – sia rispettoso della dignità umana. Un’interpretazione che ritenesse
il contrario, sarebbe in contrasto, con quanto stabilito dal secondo comma
dell’art. 32 della Costituzione in quanto andrebbe oltre i limiti imposti dal
rispetto della persona umana.
Sia ben chiaro, nel nostro ordinamento, nella nostra
cultura giuridica, non esiste alcun “diritto al suicidio”. La Repubblica, al
contrario, è chiamata a promuovere e proteggere il diritto alla vita, e sono
molti gli strumenti che può mettere in cmapo, a partire dal promuovere il
benessere generale della società, garantire un’assistenza sanitaria generale e
gratuita, ridurre gli incidenti sul lavoro, soccorrere i naufraghi, predisporre
misure di tempestiva ed efficace terapia del dolore, offrire il sostegno
psicologico alle persone che si trovino in grave difficoltò, garantire
un’adeguata riabilitazione e rieducazione …
In Europa, secondo dati Eurostat, oltre un milione di
persone muoiono ogni anno delle deficienza del sistema sanitario pubblico
diverse migliaia a causa di errori della diagnosi e della cura. Per fortuna, in
queste speciali classifiche, l’Italia risulta tra i paesi più virtuosi o,
sarebbe meglio dire, meno deficitari.
Il fatto che l’ordinamento, in generale, non guardi
con favore alla scelta di rinunciare alla propria vita non significa, tuttavia,
né che possano adottarsi misure coercitive che impediscano alla persona di
disporre della propria esistenza, e neppure che nelle ipotesi di patologie
incurabili in presenza di sofferenze insopportabili, in ossequio al rispetto
dei diritti fondamentali della persona, il sistema sanitario non possa
prevedere forme di assistenza medica alla buona morte.
Concludo questi brevi riferimenti – di carattere prevalentemente
giuridico – con riferimento al suicidio, perché dal punto di vista teleologico,
anche quanto alle implicazioni di carattere morale, non vi è differenza tra le
diverse modalità che provochino la morte di chi abbia deciso di togliersi la
vita. Ciò che conta sono il desiderio e la cosciente volontà di porre
fine alla propria vita. In definitiva, sotto il profilo etico, non fa
differenza se tale finalità viene perseguita mediante la rinuncia alle cure, il
suicidio o la buona morte medicalmente assistita. Altrettanto potrebbe dirsi
per la persona che cooperi alla realizzazione dell’intento: sotto il
profilo etico, poco importa se provoca la morte di una persona a seguito di
un’omissione o di una condotta attiva. Ciò che conta è il rapporto tra la
condotta e l’effetto desiderato. Sotto il profilo legale, invece, il mero aiuto
al suicidio, alla luce della sentenza della Corte Costituzionale, non
costituisce più reato, mentre continua ad esserlo, in attesa dell’esito
del referendum abrogativo, la condotta di chi provochi direttamene la
morte, ad esempio con la somministrazione di un farmaco.
Vorrei far riferimento ad un recente avvenimento.
Qualche settimana fa, in Spagna, una donna gravemente ammalata si è tolta
la vita in una stanza d’albergo assumendo una dose di veleno. La donna era
affetta, da anni, da una patologia cronica osteomuscolare incurabile, aggravata
dall’intolleranza agli oppiacei. Ultimamente era sopravvenuto un cancro alla
vescica “invasivo e di grado elevato”, secondo il referto medico. La donna, che
auspicava una dolce morte, non appena entrata in vigore la legge che, in quel
paese, consente la morte medicalmente assistita, aveva chiesto di poter essere
ammessa. La richiesta era stata sottoposta alla struttura competente,
ma non era andata a buon fine, inizialmente in quanto il medico
incaricato si era dichiarato obiettore di coscienza.
Ma non è questo che interessa, piuttosto l’esito e le
ragioni della donna che, qualche settimana prima accompagnata dal medico
curante e dall’amica più cara, aveva rilasciato un’intervista a “El Pais”
dichiarando quanto segue:
“La decisione l’ho già presa. Non credo di poter
attendere che mi venga applicata la legge. Ho sempre affermato che non voglio
vivere se non sono in grado di poter decidere sulla mia vita. Non sono in grado
di cucire, non posso leggere. Non c’è niente che possa darmi speranza. Non si
tratta di un capriccio. Il fatto è che tutta la mia vita consiste
esclusivamente nel cercare di soffrire il meno possibile. E nonostante tale
sforzo la mia sofferenza è intollerabile. Per questo penso che, al massimo,
riuscirò a resistere sino ad ottobre, ma forse neppure riuscirò ad
arrivarci”.
Il giornalista le chiede: “E nel caso non riuscisse
ad essere ammessa al trattamento previsto dalla legge, ha cercato qualche
alternativa per darsi la morte?
“Si ho qualche alternativa, non piacevole, ma ce l’ho.
Solo che, dal punto di vista psicologico, si tratta di una alternativa
terribilmente violenta. È violento pensare Mi sto suicidando”. Io non lo voglio
questo. Voglio solo che mi aiutino a smettere di soffrire. Niente di più”.
Cito questo, episodio, uno come tantissimi altri, tra
i pochi che superano il riserbo e diventano di dominio pubblico, perché
consente, di comprendere come il tema, l’unico tema in discussione, sia quello
della vita, della morte e del diritto di decidere della propria esistenza: il
resto riguarda gli aspetti tecnici, le modalità di esecuzione
dell’intento, che possono andare dalla rinuncia alle cure ed all’alimentazione
sino al suicidio.
Ho voluto introdurre nel discorso un caso concreto,
anche perché risulti chiaro che la vita, la morte, le sofferenze, non esistono.
Nella storia, nella realtà esistono uomini e donne che vivono, che
soffrono, che muoiono. Le espressioni astratte che utilizziamo sono
comprensibili e concepibili soltanto perché si verificano tali evenienze.
Come, proprio in questi giorni ci ha ricordato
Biorn Larsson, siamo in grado di intendere il “senso” attribuito alle
parole ed alle espressioni, ma per sapere se esistono veramente dobbiamo
rivolgerci alla scienza. La vita è sacra, inviolabile, è un valore
supremo. Il principio lo intendiamo, riscuote consenso. Ma, nella realtà,
davvero la vita è sacra protetta, rispettata? Ed in che modo?
Arriviamo al nodo. La decisione circa le regole che
potrebbero disciplinare – se, quando e come – pratiche di buona morte, ha
evidenti implicazioni etiche che interrogano la coscienza di ciascuno e quella
collettiva.
Il fondamentale interrogativo, sul piano etico, consiste
nel cercare una risposta, non ambigua, ad una elementare domanda: consentire la
buona morte, è un bene o un male? Ciò, non significa, nonostante ogni
apparenza, pronunciarsi su principi astratti, quali la sacralità della vita.
Il quesito, al quale il Parlamento italiano non ha
voluto rispondere, nonostante il pressante invito della Corte
Costituzionale, è un altro: se la comunità nella quale oggi storicamente
viviamo ritenga eticamente accettabile consentire l’assistenza medica, la buona
morte, alle persone gravemente sofferenti, senza speranza di guarigione delle
quali sia stata accertata la cosciente e consapevole volontà di porre fine alle
proprie sofferenze.
Ciò, non sulla base di precetti morali fondati su
costruzioni metafisiche o di credo religiosi, ma alla luce di valori fondanti e
condivisi, logicamente giustificati, di una comunità, laica. Quali il benessere
collettivo, la ricerca della felicità, la solidarietà. Che tenga conto,
evidentemente, degli effetti che le scelte personali possano provocare sul
sistema di convivenza dell’intera comunità. L’etica laica, in ogni caso deve
necessariamente trovare nell’immanenza, e non nel trascendente, la risposta ai
propri interrogativi.
Non dobbiamo chiederci se la buona morte,
astrattamente considerata, sia un bene o un male, ma se operi bene o male, per
se stesso e per la comunità, la persona che decida di praticarla. Si tratta,
conseguentemente, di un giudizio sulla persona che aiuta il richiedente a porre
fine alle proprie sofferenze.
L’etica di cui parliamo, peraltro, è opinabile, in
quanto ispirata a diverse concezioni filosofiche; ad esempio
all’imperativo categorico kantiano che ipotizza una sorta di deontologia nel
comportamento umano; oppure alle teorie utilitaristiche, secondo le quali le nostre
azioni dovrebbero mirare alla massima felicità per il maggior numero di
persone. In ogni caso, l’etica di cui parliamo non coincide con i precetti
morali dettati da ideologie o religioni. Beninteso, è frequente che
i valori “laici” e quelli derivanti dai precetti morali delle religioni possano
coincidere, Ma non sempre. Alcune pratiche imposte da talune religioni, ad
esempio, sono incompatibili con i diritti fondamentali universalmente
riconosciuti.
In ogni caso non vi è alcun antagonismo tra l’etica
laica che dovrà ispirare le scelte del legislatore in materia di buona morte ed
i precetti morali delle religioni cristiane in materia di buona morte –
peraltro non condivisi da tutte le professioni religiose – . Precetti morali
che, anche quando non coincidenti con l’etica “laica” del legislatore, potranno
sempre orientare liberamente le condotte dei propri adepti. Non solo, a quanti
eventualmente professino un credo distinto da quello dell’etica “laica”, in
casi come questo, viene di norma riconosciuto il diritto di non
uniformarsi al precetto civile, cioè di astenersi dalle pratiche che non
condividono, attraverso lo strumento dell’obbiezione di coscienza, come
opportunamente richiamato anche dalla citata sentenza della Corte
Costituzionale.
Nel caso concreto, – perché non si dimentichi, neppure
per un momento, che non è della morte che ragioniamo, bensì delle persone che,
in determinate circostanze, desiderano la propria morte o si danno la morte
– si può aggiungere che a tutte le professioni religiose, vien in
ogni caso garantita – ci mancherebbe altro – ogni assistenza spirituale volta
ad aiutare il credente a non cedere alla tentazione di porre fine
anticipatamente alla propria vita e ad affrontare con spirito orientato al
trascendente le proprie sofferenze. Ma se un credente, uomo o donna,
esercitando il libero arbitrio, continuasse a manifestare il proposito di
porre fine alla sua vita, troverei paradossale che il suo desiderio non possa
poi essere accolto perché il precetto morale della confessione religiosa che il
proprio adepto non intende rispettare venisse recepito e fatto proprio
dall’ordinamento giuridico dello Stato.
Aver certezze è bene, risulta sicuramente
rassicurante, rassicurante. Ma coltivare dubbi è non meno salutare e
utile, soprattutto in questo caso, visto che la vita e la morte, per
tutti, possono essere segnate da svolgimenti imprevedibili e misteriosi.
Spesso siamo convinti, molti di noi- e lo proclamiamo
con sicumera -, che in presenza di un determinato evento ci comporteremo
in una determinata maniera. Ma è soltanto un’idea, un’astrazione. Finché
resta un’idea … Tra quanti oggi giurerebbero che mai, in nessuna circostanza,
ricorrerebbero alla buona morte, non pochi, di fronte ad una situazione non più
immaginaria ma reale, sicuramente, potrebbero comportarsi in maniera
differente. Ma è vero anche il contrario, cioè che tra quanti dichiarano
che, in circostanze analoghe, sceglierebbero di anticipare la morte, molti,
alla prova dei fatti opererebbero una diversa scelta rinunciando a tale
proposito.
Vita e morte, disincrostate dell’astrazione, altro non
sono che i nostri percorsi quotidiani Così terribili da considerare
funesto persino il giorno della nascita – secondo il pastore errante di
Leopardi – o così assurdi da potere essere paragonati – secondo Camus –
alla fatica di Sisifo? O, per altro verso, esaltante esperienza di conoscenza e
di appagamento, o alternarsi di gioia e di dolore? Una miriade interpretazioni
che sfugge alla nostra conoscenza ed alla nostra esperienza futura. Cosa ne
sappiamo, esercitando sana umiltà, del sentimento di chi, ormai sul ciglio del
baratro, in presenza di insopportabili sofferenze, chiede di lasciarsi andare
dolcemente? Abbiamo sufficienti motivi per giudicarlo e per impedirglielo?
Senza contare che, il più delle volte, ciò significa semplicemente che lo
costringiamo a realizzare lo stesso proposito in clandestinità o con maggiore
sofferenza.
Non abbiamo ricette. Camus immagina che possa essere
felice persino chi è destinato a spingere sassi lungo il pendio per tutta
dal vita, senza alcuna speranza di fuggire dal supplizio. Umberto Eco
afferma “Io ho il diritto di scegliere la mia morte per il bene degli altri”, e
tanti altri, ciascuno secondo i propri principi.
Prendiamo atto di trovarci di fronte all’irrisolto
mistero della vita e della morte. E visto che la vita, in un modo o nell’altro,
la sperimentiamo, il mistero si concentra sulla nostra. La morte costituisce il
nostro ultimo dubbio.
Il mistero. Io, ad esempio, in questo momento,
immagino che se mi trovassi in condizioni di estrema ed insopportabile
sofferenza, non solo chiederei di anticipare la fine con una buona morte,
ma mi fingo persino che nel momento in cui mi
comunicassero che all’indomani un medico mi accompagnerebbe dolcemente alla
morte, proverei un grande senso di serenità, anzi di felicità.
Allo stesso tempo, sono certo e consapevole che, di
fronte ad una situazione del genere, ne ho esperienza, potrei decidere
diversamente, cioè scegliere di attendere, anche nel dolore, con altro spirito,
la fine dei miei giorni.
Insomma, sappiamo così poco della vita da non poter
essere certi neppure delle nostre azioni. Figuriamoci se possiamo dettare
il comportamento di altre persone. Spero che né a me né ad altri venga
confiscato il libero arbitrio.
Insomma chi siamo noi per giudicare?
Impedire, per legge, una scelta altrui che non condividiamo è assai più di un
giudizio.
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