Perché scienza e
tecnologia lasciate sguinzagliate, senza visione e mèta, portano a enormi
disastri.
Quanto
durerà ancora l’ingannatoria politica mondiale della crescita e dello sviluppo
inarrestabili, e tuttavia definiti “sostenibili”?
Nel 1972 uscì “Il Rapporto sui limiti dello sviluppo”, che il Club di Roma
commissionò al MIT.
Tale rapporto, pur con i limiti di calcolo e di simulazione di quegli anni, era
davvero anticipatorio e rivelatore di quanto sarebbe accaduto oggi, e prediceva
già allora le conseguenze della continua crescita della popolazione e dei
consumi sull’ecosistema terrestre e sulla stessa sopravvivenza della specie
umana.
In sintesi,
il Club di Roma arrivava anche a concludere che, riferito a quegli anni:
·
Se l’attuale
tasso di crescita della popolazione, dell’industrializzazione,
dell’inquinamento, della produzione di cibo e dello sfruttamento delle risorse
fosse continuato inalterato, i limiti dello sviluppo su questo pianeta si
sarebbero raggiunti in un momento imprecisato entro i prossimi cento anni. Il
risultato più probabile sarebbe stato un declino improvviso ed incontrollabile
della popolazione e della capacità industriale.
·
Fosse
possibile modificare i tassi di sviluppo e giungere ad una condizione di
stabilità ecologica ed economica, sostenibile anche nel lontano futuro. Lo
stato di equilibrio globale dovesse essere progettato in modo che le necessità
di ciascuna persona sulla terra siano soddisfatte, e ciascuno abbia uguali
opportunità di realizzare il proprio potenziale umano.
Questo
rapporto è stato poi aggiornato negli anni ’90, delineando una serie di scenari
che contemplavano da situazioni di risorse ed efficienza di produzione infinite
(inverosimile), a crisi delle risorse non rinnovabili, a crisi da inquinamento
e alimentare, passando da programmazione famigliare, fino all’utilizzo più
efficiente delle risorse naturali, ma nella sostanza, gli autori confermavano
la prima versione del rapporto, affermando che si deve accettare l’idea della
finitezza della Terra, che è necessario intraprendere più azioni coordinate per
gestire tale finitezza, che gli effetti negativi dei limiti dello sviluppo
rischiano di diventare tanto più pesanti quanto più tardi si agirà.
Bene, in un
mondo che ormai arriva già nel mese di luglio di ogni anno ad esaurire le
risorse (i “servizi ecosistemici”, orrendo termine antropocentrico) rigenerate
dalla Terra, con quale coraggio la politica globale e nazionale, ormai
manipolata dall’avido e insaziabile mondo finanziario (basti vedere da dove
arriva il nostro presidente del consiglio-banchiere, principale paladino, fan e
sponsor europeo della crescita infinita dei PIL nazionali), si presenta tutti i
giorni in TV e sui giornali a ricordarci i mirabolanti obiettivi di crescita
che dobbiamo perseguire in termini di PIL, di produzioni industriali, di
sviluppo, pena enormi sciagure e disgrazie in caso contrario?
E sono del
tutto vani su politica e popolazione i messaggi ben più recenti, fin
ottimistici rispetto alla realtà, dello stesso IPCC, che col suo sesto rapporto
climatico ci avverte che la situazione climatica globale è in stato di allarme
rosso e sostanzialmente fuori controllo, proprio a causa della crescita delle
emissioni climalteranti e quindi dello sviluppo eccessivo e mal governato,
mentre l’EEB (l’European Environmental Bureau) ci dimostra
scientificamente e con evidenze incontrovertibili che è impossibile disaccoppiare
lo sviluppo dagli impatti ambientali (ossia che lo sviluppo sostenibile non
esiste, nonostante quanto ASVIS cerchi di assicurarci), che sono poi le cose
che per semplificare ci sta dicendo una sensibile e coraggiosa bimba svedese da
tanti anni.
Imperterriti,
i governi, quello Draghi in testa, a guida del governo più neoliberista della
storia d’Italia, non perdono occasione di fissare target di crescita e sviluppo
sempre più alti, facendo a gara tra gli stati che incrementano maggiormente il
PIL (vince sempre la Cina). Fin le politiche Europee e degli altri continenti,
basate ormai sui Green Deals (dove Deal guarda a caso significa anche “affare”)
perseguono comunque anch’esse la crescita economica, dietro il paravento della
transizione industriale e tecnologica in salsa verde, velleitariamente definita
sostenibile, nell’ottica della sola riduzione delle emissioni di gas
climalteranti (non delle produzioni di merci, servizi, trasporto e degli altri
impatti!): come se i problemi ambientali si riducessero alla sola CO2
nell’atmosfera.
Come se non
bastasse, come in una gag comica di casa nostra, Beppe Grillo ci ha
beffati regalandoci un ministro “del fu ambiente” quasi a secco di
nozioni di ecologia e biodiversità, e più che altro esperto di soldi, di
nano tecnologie e di robot, il quale, oltre a prendersela e offendere
paradossalmente proprio gli ambientalisti, definiti un male peggiore della
stessa catastrofe climatica che loro vorrebbero combattere, sta attuando
egregiamente, soltanto una politica dichiaratemene distributiva di enormi
risorse verso i grandi gruppi industriali che hanno impattato finora, e sta
continuando a foraggiare tecnologie dei dinosauri e dei camaleonti
dell’industria, come quella fossile, se non addirittura resuscitando anche
quella nucleare, con tutte le cattive lezioni che quel mondo dell’atomo “sicuro
e controllato” (che non esiste) ci ha dispensato in proposito.
Lasciare la scienza e la tecnologia di laboratorio
sguinzagliate, sul modello-slogan del Ministero della transizione
ecologica di Cingolani, nelle mani del neoliberismo e orientata solo
al progressismo antropocentrico e alla crescita economica, senza guidarla e
indirizzarla tramite una visione e una formazione davvero ecologista e
orientata alla biodiversità, al biocentrismo, alla parsimonia, farà grandi
danni alla sostenibilità ambientale, un pò come la fisica nucleare che lasciata
nelle mani sbagliate ha generato la bomba atomica: occorre cioè asservire
la tecnologia per rendere conveniente, anche economicamente, l’ecologia, il
risparmio, la riduzione degli sprechi, invece che al contrario imporre
forzatamente la tecnologia ovunque con il solo scopo di permettere all’economia
di proseguire nella sua dissennata crescita, a suon di miliardi di
finanziamenti pubblici.
Per cercare
di attenuare la devastante crisi ambientale e climatica, a mio avviso, non
servirebbero affatto le centinaia di miliardi del PNRR, enorme costo economico
e ambientale che stiamo semplicemente ricaricando sulle spalle dei nostri
giovani, soldi a spingere immani investimenti in chissà quali tecnologie,
grandi opere, cantieri, mega ponti sullo Stretto, bensì, a molto minor costo,
rimodellando completamente l’economia e la società, verso modelli di vita più
semplici, parsimoniosi, locali, verso la semplificazione invece che la
complicazione, l’eliminazione degli enormi sprechi che abbiamo in ogni ambito e
della pubblicità. Questo non significa non puntare anche su tecnologia,
innovazione, ricerca (io stesso sono ingegnere), ma sarebbe meglio abbandonare
quanto prima le velleitarie speranze salvifiche di improbabili tecnologie, come
il nucleare di quarta generazione o quello da fusione (sono comunque
pericolose, impattanti, insostenibili, e irrealizzabili commercialmente, o
comunque arriveranno troppo tardi), l’idrogeno blu/grigio/viola, la cattura
carbonica, le auto elettriche in sostituzione 1:1 di quelle attuali, insomma,
tutte tecnologie che in realtà foraggiano sempre le stesse industrie degli
stessi attori che hanno destabilizzato fin qui l’ecosistema del nostro unico
pianeta, usando le masse come consumatori insaziabili.
Perché ad
esempio non si propone anche una trasformazione profonda dell’agricoltura, che
per come viene praticata oggi su scala intensiva e industriale, nonché
insegnata agli istituti di agraria, è una tecnica biocida, che si giova proprio
della totale perdita di sterilità e humus dei suoli, proprio per rendere
necessario il sempre più massiccio uso di fertilizzanti e diserbanti, che è il
vero business dell’industria del settore? Questo modello, tuttora spinto da
Coldiretti, non solo devasta l’ambiente e la biodiversità, ma alimenta lunghe e
insostenibili filiere alimentari con prodotti ormai senza sapore e privi di
sostanze e principi nutritivi naturali, se non dannosi. Perché non la si transita
verso un’agricoltura naturale, diffusa, su piccola scala, senza alcuna chimica,
ben più sana, efficiente, sostenibile? Molte famiglie scapperebbero oggi stesso
dalle città invivibili che le ospitano verso la vita nei borghi rurali, se
fossero sostenute da vere politiche di transizione sociale ed economica
sostenibili, per cambiare stili di vita e attività; gli orti urbani e le
piccole coltivazioni elementari stanno prendendo piede, ma solo come movimenti
dal basso, tra le persone più sensibili e accorte, non progettati dalla
politica. Perché non si mettono i soldi su una trasformazione profonda della
società verso la vera sostenibilità e resilienza?
Come uscire
da questo mortale circolo vizioso, dove il mondo pare una locomotiva impazzita
che va a schiantarsi contro un muro, ma il cui macchinista invece che frenare
come sarebbe logico, continua ad accelerare?
Le ricette
date sopra ad esempio sarebbero convenienti per i cittadini e e l’ecosistema,
ma troppo semplici, economiche e non convenienti per il mondo della politica,
della finanza e dell’industria, secondo la cui mentalità è molto meglio un
automobilista che scarica a terra centinaia di kilowatt su un costoso e
fiammante SUV (magari elettrico, alimentato da una centrale termoelettrica
chissà dove) rispetto a un ciclista che percorre lo stesso tragitto in bici
senza inquinare, perché quest’ultimo non crea incidenti, né malati da
inquinamento che poi il sistema sanitario deve curare, non si assicura, resta
in salute, insomma, non genera profitto né PIL: ciò che a questa classe
politica proprio non piace è innescare una rivoluzione davvero
sostenibile e consapevole, smettere di crescere, fermare lo sviluppo
verso l’ignoto, investire meno ma meglio, arrestarsi se necessario, ridurre
drasticamente le produzioni e gli scambi globali di merci, cancellare i mega
accordi commerciali transcontinentali, riusare e riciclare tutto più
localmente. Un corpo bulimico che da decenni ha mangiato troppo fin quasi a
scoppiare non lo si salva rimpinzandolo di altro cibo, con altro sviluppo
(sostenibile), ma mettendolo a dieta ferrea e cambiandogli drasticamente regime
di vita.
Altro
ingrediente importante di una vera rivoluzione sostenibile sarebbe il
livellamento e la distribuzione equa di stili di vita decenti e di ben-essere
(non finanziario) nella popolazione, eliminando sia accumuli insensati di
ricchezza nelle mani di poche nazioni a discapito di altre, sia stati di
eccessiva e diffusa povertà, il che risolverebbe anche il problema della
sovrappopolazione; gli stessi autori del rapporto sui limiti della crescita
notano infatti che di norma la pianificazione familiare spontanea viene
praticata dove si può godere di un’adeguata sicurezza, mentre i tassi di
natalità sono alti quando le condizioni di vita sono difficili. Una società
sostenibile, dicono, deve anche essere una società solidale e con
diseguaglianze contenute: ricchezze eccessive inducono comunque un consumo
sostenuto delle risorse naturali ed un crescente inquinamento, mentre una
povertà diffusa esporrebbe il pianeta al peso insostenibile di una crescita
esponenziale della popolazione, che è proprio quello che sta accadendo da
decenni e che invece andrebbe evitato con ogni mezzo.
Certamente,
le strategie neoliberiste, del laisser faire e
del libero mercato come auto regolatore di ogni cosa, insieme alla visione
fideista e salvifica della tecnologia (ma senza una visione e un obiettivo più
alti a monte), hanno miseramente fallito ad evitare il collasso del sistema e
le diseguaglianze sociali, eppure sono ancora quelle le inviolabili visioni
dogmatiche di chi ci governa verso il baratro. Viene in questo proposito molto
bene l’esempio della pesca: lo sfruttamento sempre più intenso di una risorsa
naturale di per sé rinnovabile ha condotto al depauperamento della fauna
ittica, al punto che le riserve ittiche sono oggi ridotte al lumicino. La
tecnologia ha reso la pesca sempre più aggressiva (sonar, individuazione di
branchi tramite satelliti, ecc.), il mercato ha reagito alla scarsità
aumentando il prezzo, trasformando così un alimento per poveri in un alimento
per ricchi. Ma questo, in particolare in un mondo dove il benessere è sempre
più diffuso, non funziona, e oggi le specie ittiche estinte o sull’orlo di
farlo, sono centinaia, né gli allevamenti di pesce sono sostenibili, per i noti
devastanti problemi ambientali ed etici.
Chissà se ai
premi nobel, economisti, politici e governatori delle banche centrali che ci
governano verranno mai in mente, ogni tanto, questi semplici principi. Ma
potrebbe essere allora troppo tardi.
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