Domenico
Lucano, il fuorilegge crocefisso - Maurizio Del
Bufalo
Con la
pubblicazione della sentenza di primo grado a carico di Domenico Lucano, ex
Sindaco di Riace, stiamo vivendo in questi giorni in Italia, un momento di
grande emozione collettiva, come non accadeva da tempo. L’esito di questa
vicenda ha diviso in due un Paese già provato dalla pandemia e dalla crisi
economica. Un Paese che non ha più fiducia nelle sue istituzioni e nella
giustizia, purtroppo seriamente malate, nella cui storia riaffiorano
continuamente fantasmi del passato peggiore.
Come nella
vicenda delle stragi degli anni 70, una vicenda di formale legalità fa da
schermo a quello che sta realmente accadendo nelle viscere del Paese dove,
spesso, l’accoglienza dei migranti è diventata un business.
Lucano,
bersaglio eccellente, leader e icona della sinistra, profondamente amato dalla
gente, era da alcuni anni nel mirino di Prefetture e Procure calabresi e la
sentenza di primo grado del 30 settembre scorso (colpevolezza punita con 13
anni e 2 mesi di reclusione) appare come un colpo profondo alla sinistra
italiana.
Non è
eccessivo definire Lucano un leader politico. E’ innegabile che egli abbia
conquistato negli ultimi tre anni il ruolo di riferimento assoluto per tutti
quelli che chiedono un cambiamento dal basso, cioè un’azione rivoluzionaria
che, in alcuni punti d’Italia e d’Europa, si sta già conducendo contro il
sistema di sviluppo industriale e finanziario che sta strangolando il pianeta.
Nessuno in Italia ha finora raccolto tanta attenzione ed è arrivato al punto di
sperimentare nuovi equilibri possibili come quelli di Riace. Questo dà la prova
della gravità di quanto successo l’altro ieri a Locri.
Che Domenico
sia il leader simbolico di tutta la sinistra italiana, lo provano le centinaia
di interviste, articoli, conferenze e riconoscimenti che gli sono stati
tributati in tutto il mondo, dall’Europa all’America; la sua intuizione, e
anche la sua prassi, sono state apprezzate ovunque e sono un fattore di vera
novità nel panorama del pensiero unico mondiale, un po’ come le dichiarazioni
di Greta Thurnberg. Basti pensare alle parole di Wim Wenders, alla lettera del
Papa e alle classifiche di Fortune, fino all’attenzione riscossa nelle più
grandi Università italiane e straniere, per rendersi conto che non si tratta di
un’esagerazione, ma di un primato morale, di un vero soffio d’aria nuova che ha
attraversato la nostra società, affascinando giovani e meno giovani.
Lucano è
dunque il simbolo più amato di quello che resta della sinistra italiana, in
sintonia perfetta con le avanguardie tedesche e francesi, e le manifestazioni
di protesta e indignazione che sono scattate in tutt’Italia confermano questo
dato di fatto. Proprio per questo la nostra riflessione non vuole e non deve
fermarsi alla mera speculazione processuale, ma partendo dalla gravità della
pena inflitta, cercherà di capire il perché di un accanimento che dura da
alcuni anni e che ha evidenti riscontri nell’agire ostinato delle Prefetture
calabresi. E’ chiaro che colpendo Lucano si colpisce molto più in alto di Riace
e del suo piccolo Villaggio Globale.
Mirare al bersaglio grosso
Lucano è un
leader. Lo dicono scrittori, poeti, musicisti, missionari, filosofi, uomini
politici e pensatori, saggisti, registi e attivisti dei Diritti Umani che gli
hanno reso omaggio, sedendosi con lui sulle scale della taverna Donna Rosa, il
suo quartier generale di Riace, dove fino a pochi mesi fa erano visibili i
segni lasciati dai pallettoni della ndrangheta sparati contro le finestre del
suo ufficio, per capire da dove venisse fuori tanta energia da sfidare il sistema
politico europeo. Tutti hanno trovato un uomo semplice che raccoglie, nella sua
storia personale, gli insegnamenti di molte generazioni e tanti sogni negati
del suo popolo.
Eppure
Domenico Lucano ha rifiutato di svolgere la parte dell’eroe che dispensa ricette,
del padre nobile che prepara la successione e lascia un testamento di regole a
cui attenersi; ha solo accettato di parlare con tutti e spiegare qual era il
motore che lo muoveva e quanto bisogna rischiare in proprio per “restare
umani”, come affermava Vittorio Arrigoni, altra figura profetica che voleva
addirittura seminare la pace in Palestina.
I suoi miti
sono stati uomini semplici del Sud d’Italia, martoriato dalle mafie: Peppino
Impastato, Giuseppe Lavorato, Peppe Valarioti e poi don Natale Bianchi, il
vescovo Giancarlo Bregantini, padre Alex Zanotelli. Preti e comunisti, come
nella migliore tradizione della teologia della liberazione che ha impregnato
quell’America Latina cui i calabresi sono legatissimi, per via di storie di
emigrazione che affondano le radici nel Novecento. Già… l’emigrazione, tutto si
tiene lungo il filo di memoria che Domenico tesse da anni e che lo ha spinto a
cercare i suoi conterranei in tanti Paesi stranieri e poi lo ha portato sulle
rive dello Ionio, dove, nel 1998, il vento spinse una nave di profughi curdi a
Badolato, ad un passo da Riace. E lì cominciò il suo destino, collegando la
storia dell’Oriente bruciato dalle guerre a quella del Meridione ospitale.
Ma stavolta
la partita è diversa dal passato, c’è di mezzo l’economia. Le braccia dei
migranti servono, ma non devono disturbare il circuito di interessi che si
muove attorno alla migrazione. I migranti sono utili ma non sono sempre graditi
e si preferisce pagare qualcuno che li tenga chiusi nei lager e torturarli, pensando
che questo basti a fermare un continente alla deriva. Facciamo finta di non
vedere che l’Africa e l’Asia ci stanno presentando il conto di tre secoli di
colonialismo. Non sarebbe meglio accoglierli e aiutarli a ritrovare la propria
giusta dimensione, anche nei loro Paesi d’origine?
È quello che
sostiene Domenico Lucano, che non è pazzo o missionario e neppure un
sempliciotto pasticcione come qualche giudice afferma, ma soltanto un uomo
pragmatico, che sa che questo gioco di respingimenti, oltre che inumano, non
potrà durare a lungo. Per questo, a mio avviso, chi tenta di ricondurre la
persecuzione di Lucano alla semplice critica di gestione del progetto SPRAR
ospitato nel paesino calabrese, non è sincero e finisce per chiudersi nella
misera diatriba innocente/colpevole, che oscura il senso dell’agire umano e
rivoluzionario di quest’uomo e quindi non spiega il vero motivo per cui è stato
crocefisso.
E veniamo ad
alcune delle ragioni di questa condanna mostruosa che ad alcuni può apparire
eccessiva e immotivata, ma, a guardar bene, esprime tutta la paura di chi non
vuole una vera accoglienza dello straniero.
Disobbedire per superare i limiti della legge
Ai suoi
amici più fidati, Domenico ha più volte rivelato le continue pressioni che la
Prefettura di Reggio esercitava su di lui, chiedendogli continuamente di
accogliere nuove ondate di profughi perché era noto che a Riace questi
avrebbero trovato un’accoglienza vera. Il punto è che la legge dello SPRAR
imponeva tempi di permanenza molto brevi per gli ospiti (sei mesi) nei quali è
praticamente impossibile garantire accoglienza, ospitalità e integrazione
com’era annunciato nei principi della legge. Di fatto, i gestori dei progetti
di accoglienza si sarebbero dovuti limitare a trattenere i migranti per pochi mesi,
durante i quali l’unico obiettivo possibile era quello di assicurare un tetto e
un pasto, null’altro. Ogni sei mesi si doveva scaricare la “merce” e caricarne
di nuova. Un’ipocrisia sostenuta da somme considerevoli messe a disposizione
dall’Europa per far fronte temporaneamente all’ondata migratoria, senza
affrontare veramente i problemi di questa umanità in movimento.
Domenico
Lucano non era d’accordo con questa continua movimentazione di esseri umani
perché, oltre al rifiuto per questi metodi più adatti alle merci che alle
persone, l’emergenza ha dei costi elevati e scarsi risultati, anche di
efficienza. Per questo ha trasgredito la legge, allungando quasi sempre questi
periodi di permanenza, nel tentativo di garantire ad ogni ospite un tempo
minimo di inserimento nella situazione locale.
Spesso gli
ho sentito dire che non è possibile strappare un bambino dalla scuola dove sta
frequentando l’anno scolastico perché è scaduto il semestre di assegnazione al
progetto dei suoi genitori. Non è così, diceva, che si può fare integrazione e
accoglienza; questi atteggiamenti generano altri traumi e difficoltà alla
famiglia migrante e tradiscono lo spirito della legge e della Costituzione. Per
questo e altri motivi, la divergenza di Lucano dalle richieste “a tempo” della
Prefettura è stata radicale e qui sta un primo motivo di disobbedienza. Chi ha
intravisto in questo atteggiamento un delirio di onnipotenza non conosce l’uomo
Lucano e non ha mai avuto a cuore la sorte umana, la giustizia, i Diritti
Umani, ma solo il rispetto della norma.
Non è un
caso che Riace, seguendo questa linea di umanità ad ogni costo, sia riuscita a
ospitare un numero di migranti quasi uguale a quello della popolazione locale
senza mandare le spese alle stelle, ma addirittura coinvolgendo i propri
cittadini in questa rivoluzione, fino a creare un centinaio di posti di lavoro
nuovi, tutti nel settore dell’ospitalità e dell’integrazione dei migranti. I
migranti a Riace godevano di un trattamento umano e di una prassi di
inserimento vera, partendo dal cibo e dalla casa fino al lavoro, ai corsi di
italiano, alla salute e all’avviamento al lavoro. Di questo si parla troppo
poco e spesso senza cognizione e si preferisce non fare confronti con gli altri
centri di accoglienza.
In tutto
questo, né lui né i suoi collaboratori hanno intascato nulla anche se le
procedure di assegnazione degli appalti hanno molti punti di incongruenza. Ma
qui va fatta un’altra considerazione, forse più importante.
Il valore del contesto
Oltre che
soffermarsi sui criteri di assegnazione dei contratti di appalto, sarebbe il
caso che chi ha il dovere di capire e giudicare, indagasse su quello che
accadeva ordinariamente in Calabria, nelle altre esperienze di ospitalità. Ci
sono alcuni casi di centri di accoglienza, soprattutto emergenziali come i CARA,
in cui gli appalti venivano assegnati ai “soliti noti” cioè ad imprese in odore
di mafia o controllate direttamente da mafiosi. Lo dimostrano le cronache
giudiziarie degli ultimi anni.
Se Lucano ha
ritenuto che la trafila ordinaria della concessione di appalti tramite evidenza
pubblica lo esponeva al rischio di collusione e ha deciso di optare per
l’assegnazione diretta, ha commesso un reato, ma ha anche interrotto il flusso
di finanziamenti di danaro pubblico su cui la ‘ndrangheta poteva contare, sfruttando
il fenomeno dell’accoglienza. Limitarsi quindi a reprimere e condannare questo
sistema di assegnazione diretta adottato a Riace, peraltro assolutamente privo
di interessi privati, è solo apparentemente corretto, perché ignora del tutto
che in quell’area il crimine ha consolidato una prassi nota a tutti,
specialmente alla magistratura che ne ha rilevato la presenza e l’adozione
abituale, ma di cui evidentemente non si è avvertita tutta la pericolosità.
Se così è
andata, Lucano appare come un fuorilegge che ha scelto la via della
responsabilità personale per mostrare le storture di un sistema “legale” che
finisce spesso per alimentare la mafia e da cui sarebbe ora di prendere le
distanze. E paga per essersi battuto per difendere lo spirito della legge. E di
questo tutti dobbiamo tenerne conto.
La stessa
riflessione può essere fatta, in misura diversa, per i ritardi dei pagamenti
dei fondi del progetto SPRAR. Trattandosi di cifre significative, considerato
che il numero degli accolti era di molte centinaia, un ritardo di
due-tre-quattro anni nei pagamenti avrebbe costretto il Comune di Riace a
ricorrere a prestiti bancari che avrebbero portato, a causa degli interessi
passivi, a una contrazione delle somme disponibili di circa il 30% cioè ad un
taglio alle prestazioni dell’accoglienza.
Per questo
Lucano inventò la “moneta di Riace”, ovvero delle banconote con l’effige di Che
Guevara e altri, che servivano come garanzia ai fornitori locali e consentivano
al Comune di fruire dei servizi, e ai migranti di spendere la loro “paga”,
senza incorrere nel rifiuto dei commercianti. Anche su questo nessuna indagine
ha riscontrato interessi privati o appropriazioni indebite, ma solo l’ovvio
reato di “battere moneta” alternativa a quella in corso. Un reato talmente
dichiarato e noto a tutti che stupisce lo stupore con cui è stato svelato.
Non è il
caso di andare oltre, il concetto di fondo mi sembra chiaro.
Quindi, se
il progetto Riace ha funzionato, ha funzionato anche avvalendosi di stratagemmi
come questi, altrimenti sarebbe diventato un ostello come tanti altri sistemi
emergenziali di accoglienza, con carichi e scarichi periodici di persone, senza
la possibilità e la capacità di offrire una vera integrazione, come stabilito
dalla legge, perché le circostanze del contesto (un credito inefficiente,
ritardi burocratici, infiltrazioni della malavita nei servizi essenziali etc)
lo avrebbero impedito. E invece Riace ha indicato concretamente la strada del
riscatto dei piccoli borghi abbandonati e molti, nel mondo, lo hanno capito e
premiato.
Certamente
l’esempio di Riace ha disturbato chi aveva scoperto il business
dell’accoglienza e lo faceva funzionare rigorosamente, gonfiando costi e
tagliando prestazioni. E questo, probabilmente, ha alimentato la campagna
diffamatoria che ha accompagnato questi anni di persecuzione.
Forse
l’errore più grande di Lucano, se di errore si può parlare, è stato quello di
avere persistentemente voluto, per il suo paese, un ruolo di faro
nell’accoglienza, senza ipocrite collusioni con le mafie e senza nascondere i
punti critici del sistema SPRAR, le sue contraddizioni, ma affrontandole a viso
aperto, gettando il cuore oltre l’ostacolo, anche nell’interesse di Riace e del
suo riscatto.
Lucano ha
voluto correggere certe storture, forzandole, ispirandosi ad alcune
affermazioni costituzionali e alla profonda onestà personale. A conti fatti
credo che la sua determinazione ci abbia illustrato la verità sottesa da certe
leggi, l’ipocrisia nascosta in certe affermazioni ufficiali; una disobbedienza
che Don Milani aveva benedetto come il coraggio degli umili.
Riflessioni conclusive
Pochi fanno
notare che il progetto Riace ha mostrato che con le stesse somme stanziate
dallo SPRAR e da altri progetti nazionali ed europei, si poteva ottenere molto
di più e servire lo Stato e i migranti nel modo migliore, senza sprechi e
favori, seminando fratellanza e lavoro, opportunità e solidarietà, in questa
società malata in cui alcuni sono costretti a fuggire rischiando la vita in
mare mentre altri (noi), possono solo guardare impotenti questo diluvio
universale che si scatena attorno.
Lo scopo di
queste parole è solo quello di spiegare alcuni aspetti di questa triste
vicenda, sono solo riflessioni personali, ma sicuramente l’avere vissuto a
fianco di Domenico Lucano alcuni momenti della mia vita, mi porta a riflettere
sul senso della sua esperienza, sui rischi che si è accollato per poterci
raccontare il suo punto di vista.
La sua è
stata la scelta di un calabrese forte e autentico che è stanco di vedere
emigrare la sua gente e riconosce nella forza dello Stato l’opportunità per
risolvere antiche contraddizioni presenti nella sua terra; Domenico ha visto
una luce in fondo al tunnel e ha pensato finalmente di fare vera solidarietà,
di applicare i Diritti universali e costituzionali, senza però sprecare tempo e
danaro in inutili giri burocratici. Lucano ha creduto veramente nello Stato e
nella sua funzione unificante, di questo sono più che sicuro, ma non ha fatto
bene i conti con altre categorie di istituzioni che forse hanno meno a cuore di
lui i Diritti Umani ed universali.
Credo che in
questo consista la sua colpa maggiore, nell’aver creduto nello Stato così come
descritto nella Costituzione, negli uomini come descritti dal Vangelo,
nell’avere contrastato la guerra e l’odio, nell’essersi battuto per
l’uguaglianza di ogni essere umano. E non a chiacchiere, ma coi fatti. E senza
protezioni di lobby e di partiti. Sostenuto dalla sua coscienza di uomo solo e
libero. Per questo lo hanno punito, perché ha mostrato che si doveva fare diversamente
e meglio.
Non so se ne
è valsa la pena, dovrà dirlo lui e non so quanti altri possono vantare questo
coraggio e tanta onesta determinazione. Ce lo diranno i prossimi anni in cui
misureremo se questi messaggi, con tutti i loro limiti, sono arrivati al cuore
e alla mente degli Italiani e dei legislatori. Tocca a noi, ora, agire perché
Riace non muoia.
Personalmente,
preferisco quella giustizia che non ignora il contesto in cui accadono certi
reati e che non commina pene spropositate, sommando le violazioni e sottraendo
i principi, ma considera attentamente le circostanze in cui i fatti sono
avvenuti. Un innovatore, purtroppo, paga il peso della sua solitudine, ma il
giudice ha facoltà di valutare tutto questo, anzi è questo il suo vero compito.
Io sto con
Mimmo Lucano.
https://serenoregis.org/2021/10/05/domenico-lucano-il-fuorilegge-crocefisso/
Un cittadino esemplare - Donatella Di Cesare
Ci sono sentenze che, oltre a essere ingiuste, e perciò più che
discutibili, sfidano apertamente la giustizia e il senso di ciò che è equo,
retto, dovuto. Il verdetto dei giudici di Locri non è emesso in nome del popolo
italiano, che oggi in gran parte è scioccato e profondamente indignato.
Piuttosto appare la condanna ignobile decisa da uno Stato nazionale, repressivo
e xenofobo, che all’insegna del sovranismo e dei confini chiusi conduce ormai
da tempo una guerra non dichiarata contro i migranti. I modi di questo
conflitto sono diversi: sequestrare le navi delle Ong, respingere
indiscriminatamente, far torturare nei campi in Libia, lasciar morire in mare.
Ma anche colpire chi non accetta di essere un cittadino complice e aiuta chi
arriva qui. È in tale contesto che va letta la condanna a 13 anni e due mesi
contro Mimmo Lucano, una sentenza eminentemente politica. Non solo perché è il
doppio degli anni chiesti dalla pubblica accusa, non solo perché è pari a
quella a cui è stato condannato Traini, il fascista che contro i «neri»
sparava, o a quella inflitta a una ‘ndranghetista con parecchi delitti sulle spalle,
ma perché è un messaggio esplicito contro chiunque in futuro si azzardi a
ripeterne l’esempio. Chi accoglie è un criminale: ecco il messaggio.
E tuttavia la questione va persino al di là dell’accoglienza. Per capirlo
occorre brevemente ripartire da quel giorno d’estate, quando venne avvistato a
mare un veliero partito dalle coste turche. Portava un carico di profughi curdi
scampati alle persecuzioni. Era il luglio del 1998. D’un tratto quel paese
dimenticato, fermo al dopoguerra, svuotato quasi dall’emigrazione, assopito e
rassegnato ai dettami della mafia più potente del mondo, si svegliò a nuova
vita. Riaprì la scuola, si ripopolarono le vie del borgo, vennero restaurate le
case abbandonate, riprese la vendita nelle botteghe.
A sua volta emigrato per anni, Lucano aveva fondato al suo rientro
l’associazione Città Futura, ispirata all’utopia di Tommaso Campanella, il
filosofo nato a Stilo (solo qualche chilometro da Riace), e morto a Parigi nel
1634, dopo anni di processi e di carcere. L’idea che guidò Lucano fu il
superamento della proprietà privata. Riace diventò bene comune per stranieri e
residenti. Innumerevoli furono le iniziative prese nel segno di questa
politica. Le vecchie case del borgo vennero concesse in comodato d’uso ai
richiedenti asilo, mentre per le attività commerciali si favorì l’autogestione.
I benefici furono per tutti. Nel 2001 Riace fu il primo comune, insieme a
Trieste, a inaugurare il sistema di accoglienza diffusa. In poco tempo varcò i
confini e il «modello Riace» richiamò l’attenzione ovunque. Nel 2010 il regista
Wim Wenders lo celebrò nel cortometraggio Il volo. Non si contano i
riconoscimenti tributati ovunque a Lucano. Nel 2016 la rivista americana Fortune lo
indicò tra i cinquanta leader politici più importanti e simbolici del mondo.
Riace diventò il punto di riferimento per attivisti, intellettuali, artisti.
A partire dal 2017, mentre si alzava un minaccioso vento sovranista, tra
Minniti prima e Salvini poi, ha cominciato a prendere piede un subdolo piano di
smantellamento di tutto quel che era stato costruito. Sono stati tagliati i
finanziamenti al comune e Lucano, sindaco per tre mandati, è stato arrestato
con numerose accuse. Tra queste vanno ricordate due, le più gravi e le più
significative: aver agevolato nella raccolta dei rifiuti due cooperative che
impiegavano immigrati e aver aiutato una donna nigeriana, il cui bambino era
gravemente malato, a ricevere un permesso di soggiorno grazie a un matrimonio.
Se si parla di truffa, chi conosce Mimmo Lucano sa della sua onestà, dei suoi
enormi sacrifici, di una vita di fatica e stenti. Di più non c’è da aggiungere.
Rispetto alla denuncia di «favoreggiamento dell’immigrazione clandestina»
Lucano ha sostenuto: «Se è reato soccorrere chi è in difficoltà, mi dichiaro
colpevole».
Purtroppo le conseguenze della sentenza di Locri potrebbero essere
devastanti sia per Riace, dove molto poco resta di quel modello famoso ovunque,
sia per Mimmo Lucano che con comprensibile amarezza ha detto di essere «morto
dentro». Quei giudici nemici stanno sfidando tutti noi e il nostro senso di
giustizia. Quella condanna è una ferita inferta alla giustizia stessa, che va
ben oltre il legalismo di un diritto meschino. Mimmo Lucano non è un
fuorilegge, ma un cittadino esemplare che ha sempre agito in nome della
giustizia. Sta a noi adesso la risposta a quella condanna infame con una
mobilitazione di solidarietà con Riace e con Mimmo.
https://jacobinitalia.it/un-cittadino-esemplare/
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