La vanità della giustizia dietro l’assurda sentenza (suicida, o peggio) sull'ex sindaco di Riace
Che sciocchezze si dicono sulle sentenze.
“Non si commentano!” – figurarsi. Poi succede davvero che paiano
incommentabili, che lascino, a tutta prima, senza parole. Bastonate fra capo e
collo, da tramortire. Forse, ci si dice, bisogna smettere con la pretesa di
capire. Forse sforzarsi di capire è un cedimento all’assurdo, gli restituisce
una razionalità. Eravamo stati sbalorditi dall’oltranza di una pubblica accusa che aveva preteso
per Mimmo Lucano una condanna a 7 anni e 11 mesi – 8
anni, insomma, addolciti come i prezzi al mercato: 7 euro e 99 centesimi. Poi
il presidente ha letto, prima le singole tariffe, poi il totale: 13 anni e 2 mesi.
Poco dopo era già su YouTube, guardavo l’uomo che leggeva, chissà che la fisionomia, il taglio dei
capelli, desse qualche indizio. Guardavo la giudice donna e quello uomo, gli
altri due del collegio giudicante, speravo di rintracciare dei sentimenti a
latere: si erano trattenuti quattro giorni in camera di consiglio, avranno
almeno avuto dissensi, aspri magari, dopotutto avevano alle spalle non solo
un’opinione pubblica commossa e turbata ma pronunciamenti giudiziari i più
diversi e contrastanti, misure gravi prese e revocate.
Ma i giudici a latere stanno in silenzio
alla lettura della sentenza, e hanno la mascherina, così non traspariva almeno
dalle loro facce un’amarezza, un disappunto – si trattava della vita di un uomo
e delle altre 26 persone giudicate con lui. Mi è balenato un pensiero
risolutivo: è una sentenza suicida. Il diritto ha infatti escogitato
stratagemmi capaci di capovolgerne l’assurdità. Possibile? No, purtroppo no:
dev’essere ancora peggio di così.
Io (e anche voi che non avete termini di paragone strettamente personali) non
fatico affatto a capire, a sentire, che cosa abbia provato Mimmo Lucano mentre gli
leggevano la sentenza, capo d’imputazione dietro capo d’imputazione (otto ne
aveva addosso, un campione di sollevamento pesi: associazione per delinquere,
abuso d’ufficio, truffa, concussione, peculato, turbativa d’asta, falsità
ideologica e favoreggiamento dell’immigrazione clandestina). Lo capisco Mimmo,
lo sento, gli sto a fianco, per quel che vale: un po’ vale. Non è su di lui che
mi interrogo, l’ho già fatto da quando questa burrasca si è alzata e l’ha
scaraventato giù dal prestigio che si era meritato con la frazione alta del suo
paesello, e aveva roso d’invidia e di livore i tanti umani troppo umani dai
pomeriggi grigi, offesi dalle classifiche che facevano di Mimmo un eroe in
carne e ossa, e di Riace, il giacimento degli eroi di bronzo, il suo regno. Se
mi propongo nonostante tutto di provare a capire, è sul giudice che devo
interrogarmi, quello che ha letto la sentenza, quello che è stato attento
a raddoppiare la richiesta esosa della pubblica accusa,
ma non esattamente, che sarebbe stato grossolano, 15 anni e 10 mesi, no: 13
anni e 2 mesi, la piccola asimmetria è condizione di grazia.
Si chiama Fulvio Accurso, e io sono un topo di Google, miniera che non
tradisce. Ha 58 anni, è nato a Reggio Calabria, è stato pubblico ministero a
Reggio, giudice e poi presidente della sezione penale a Locri, poi presidente
facente funzione del tribunale fino a febbraio 2021. Allora, dopo una vacanza
di quasi un anno (il precedente era stato promosso a Catanzaro) il Csm vota
all’unanimità per il successore: la giudice Gabriella Reillo, del tribunale di
Catanzaro. Voci locali si levano a denunciare indignate che non un solo voto
sia andato al giudice Accurso, candidato naturale all’incarico che già ricopre
di fatto. La nominata Reillo (altra voce locale) “rinuncia all’incarico,
dimostrando un’enorme sensibilità per la situazione che si stava venendo a
creare, e il Consiglio superiore della magistratura è tornato sui suoi passi
chiudendo questa situazione incresciosa nell’unico modo possibile: quello
giusto”. A maggio Accurso, con la controfirma di Cartabia, è presidente
effettivo del tribunale, nel quale sta guidando da tempo il processo a Lucano
Domenico, ex sindaco di Riace. Le cronache nazionali, intermittenti come
sempre, segnalano una mossa falsa del pm, Michele Permunian, che denuncia in
aula la candidatura di Lucano alle elezioni regionali, a conferma del suo
disegno di sfruttare le supposte malversazioni per la propria ambizione
elettorale (Mimmo Lucano, fuori dal breve confine di Riace, aveva sempre rifiutato
candidature appetitose, compresa quella all’Europarlamento). Qui non si fa
politica, si fa un processo, tagliò corto Accurso, e fece ben sperare.
Ma lasciatemi procedere nell’improvvisato bottino di notizie sull’autore primo
della sentenza che ieri ha tramortito gli italiani (e gli stranieri) non
incattiviti. Nel dicembre 2017 gli studenti del Liceo “Mazzini” di Locri
incontrano nel loro auditorium “il dott. Fulvio Accurso, che ci ha fatto
emozionare, raccontandoci del progetto ‘I colori della Legalità’”. Accurso li
ammonisce a non pensare ai detenuti come a un “noi e voi”, ragazze e ragazzi
visiteranno il carcere e pubblicheranno un giornalino, “Oltre le sbarre”.
L’antefatto, riferisce un conoscente di Accurso, coach di professione, è che
lui “è un uomo di legge, ma anche un artista. Ama dipingere e circondarsi di
musica, colori e bellezza. Il giorno in cui si è insediato ha capito che era
inaccettabile per lui lavorare in locali fatiscenti e degradati, come le
strutture a cui siamo abituati. Nel giro di poche ore Fulvio ha cominciato a
far fiorire le sue idee, proponendo un restauro a ‘costo zero’ per lo stato.
L’idea è stata accolta con entusiasmo dal presidente del tribunale e hanno
aderito con lo stesso fervore il direttore delle carceri di Locri, l’ordine
degli avvocati, l’amministrazione comunale, una compagnia di assicurazioni e
tutto il personale del tribunale. Un’idea geniale, una colletta tra magistrati,
un contributo degli avvocati per i materiali, l’assicurazione che ha coperto i
rischi, il tifo del personale del tribunale e l’opera di quattro giovani
detenuti, tutti a fine pena e su base volontaria, hanno dato vita al progetto
‘I colori della legalità’. Il tribunale di Locri, a seguito di questo progetto,
è stato inserito quale ‘primo tribunale d’Italia tra le best practices del Csm’
per operazioni di tal genere”. Per parte sua, il giudice Accurso testimonia:
“Ho chiesto ai quattro uomini: siete felici?”. “Siamo felicissimi dottore!” (e
il Csm, poi, avrebbe votato all’unanimità l’altra candidata: com’è ingiusta la
vita!).
Sto mettendo in buona luce il giudice Fulvio Accurso? Me ne guardo. E tanto
meno sto ripetendo la cantilena della vita che è chiara e scura. Casomai, nel
nostro caso, si mostrerebbe bianca e nera. Nerissima è la pagina che il
collegio di Locri ha appena firmato sulla pelle del bravo sindaco (e dei
coimputati, troppo trascurati dalle cronache: la compagna di Lucano, Lemlem
Tesfahun, 4 anni e 10 mesi; Cosimina Ierinò, segretaria dell’associazione Città
Futura, 8 anni e 10 mesi; Annamaria Maiolo, presidentessa di Oltre Lampedusa, 6
anni, come Salvatore Romeo e Jerry Tornese, e così via).
La condanna sarebbe stata penosa, salvo che si fosse ridotta al riconoscimento
simbolico che, nell’intento di far bene e supplire all’incapacità di
accoglienza pubblica, Lucano e la sua gente avevano trasgredito regolamenti e
pastoie: come nella vicenda delle cooperative per i rifiuti e i loro favolosi
asinelli. Sarebbe suonata odiosa, perché inutilmente crudele ed esemplare, se
avesse accolto la richiesta della pubblica accusa. Ma la condanna pressoché
raddoppiata non è solo il ripudio del buon senso confrontato con la lettera
della legge, né la severità feroce che respinge come intrusa umanità e buon
senso: è una bravata. Per far riuscire il calcolo, ha dovuto negare agli
imputati, incensurati, le stesse attenuanti generiche, e negare la ovvia
continuazione del reato. Perché? Bisognerà che lo spieghi lui, il giudice, e
immagino che vorrà tenere per sé la stesura delle motivazioni, dopotutto è la
gran festa della sua vita. Ma le motivazioni non basteranno. Dev’esserci
qualcosa d’altro in una simile messinscena della giustizia, in una simile
rivalsa sul suo pubblico tramonto. Sapete che cos’è una sentenza suicida. E’
una sentenza deliberatamente assurda, e assurdamente motivata, per garantirsi
l’annullamento nei gradi successivi. Un inganno vergognoso, di solito
perpetrato per rivalersi da giudici togati e soprattutto dai giudici popolari
dell’assise che abbiano imposto un’assoluzione non voluta dal presidente. Qui,
dove tutto sembra ribaltato, la sentenza sfida l’assurdità a vantaggio
dell’oltranza. Fama del piccolo sindaco, popolarità nazionale, classifiche
internazionali che lo mettono al secondo posto fra i sindaci del pianeta, al
quarantesimo dei cento personaggi più influenti, alla candidatura al Nobel: una
carriera che va schiacciata col doppio della tracotanza. Ha creduto di
“dominare” Riace (così l’accusa) rendendola extraterritoriale, facendosi la sua
propria legge, procurando matrimoni di donne straniere e facendo ripulire il
paese coi somari, fottendosene dello stato. E lo stato gli ha dato
ripetutamente ragione; un gip (nessun lucro, solo superficialità e malcostume),
una volta su due una prefettura (autorità che quando non sapevano dove sbattere
la testa gli mandavano migranti cui provvedere con tanto di ringraziamenti ed
elogi), una volta la Cassazione (che l’ha fatto tornare a Riace), ma quello è
uno stato che periclita. Lo stato sono io, 13 anni e 2 mesi, tredici anni e due
mesi. E lui è Mimmo Lucano, piccolo, percosso, attonito. Non ha intascato un
solo denaro per sé, in tutta questa vicenda, hanno dovuto ammettere. Ma ha
lucrato per la reputazione, per la vanità… Oggi, di sé, dice di sentirsi
finito. Finito Mimmo, è il momento malinconico di interrogarsi sulla
reputazione, sulla vanità, di un giudice, di un collegio di giudici. E il
famoso prepotere delle procure ha avuto anche lui la sua lezione: doppiato,
anche lui.
Riace non c’è più. Il successore di Lucano era ineleggibile, restò appena il
tempo di cancellare un’intitolazione a Peppino Impastato. “Xenia”, hanno
chiamato in procura l’operazione di pulizia etica di Riace. Un fatuo ricordo di
Magna Grecia, di Locri Epizefiri. Disambiguazione: c’è una marca di bibite e
cracker, una nave, un’auto, dei villaggi anglosassoni, un film, una
termoplastica, un nome proprio, un asteroide, una raccolta di epigrammi di
Marziale, una di Montale. “Xenia” erano i cibi che si mettevano nelle stanze
degli ospiti dopo il primo giorno di accoglienza, perché si sentissero come a
casa loro. Pollame, uova, verdura, frutta e altri prodotti della campagna. E
dipinti, che ornassero le domuncolae o le dispense degli ospitati. E’ Vitruvio,
sembra la descrizione di Riace com’era. Come non sarà più. Fiat iustitia et
pereat mundus. Sia fatta giustizia, vada in malora il mondo.
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