Mimmo
Lucano, già sindaco di Riace, è stato condannato dal Tribunale di Locri alla
pena di 13 anni e 2 mesi di reclusione per una serie impressionante di delitti
(associazione a delinquere, abuso d’ufficio, truffa in danno dello Stato,
peculato, falsità ideologica, favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e
chi più ne ha più ne metta). Risuonano forti le parole di Piero Calamandrei,
pronunciate davanti al Tribunale di Palermo il 30 marzo 1956 in difesa di
Danilo Dolci, arrestato mentre guidava un gruppo di braccianti a lavorare in
una strada di Partinico abbandonata all’incuria: «Questa è la maledizione
secolare che grava sull’Italia: il popolo […] ha sempre sentito lo Stato come
un nemico. Lo Stato rappresenta agli occhi della povera gente la dominazione.
Può cambiare il signore che domina, ma la signoria resta: dello straniero,
della nobiltà, dei grandi capitalisti, della burocrazia. Finora lo Stato non è
mai apparso alla povera gente come lo Stato del popolo». Sono passati, da
allora, 65 anni ma la condanna di Mimmo Lucano mostra che, sul punto, assai
poco è cambiato. Ancora una volta – come spesso mi accade ‒ è una “giustizia”
in cui non mi riconosco.
Le sentenze
non si valutano in base all’utilità contingente o al gradimento soggettivo ma
alla luce della loro conformità ai principi costituzionali, alle regole del
diritto e alle risultanze processuali. Ed è proprio questa conformità che manca
nel caso di specie, in cui c’è l’amaro gusto di una sentenza già scritta sin
dalle prime battute.
Nell’organizzare
l’accoglienza dei migranti a Riace, Lucano ha reagito ai ritardi e alle
inadempienze dell’Amministrazione dell’interno con numerose e ripetute
forzature amministrative. Lo ha fatto alla luce del sole e rivendicato in mille
interventi e interviste. Ci sono in ciò dei reati? Io non lo credo ma la cosa è
possibile e non sarebbe uno scandalo accertarlo in un processo. Non è stato
questo, peraltro, l’oggetto del processo di Locri in cui l’accusa fondamentale
mossa a Lucano e su cui si è articolata l’intera istruttoria dibattimentale è
stata quella di avere costituito, con i suoi più stretti collaboratori,
un’associazione «allo scopo di commettere un numero indeterminato di delitti
(contro la pubblica amministrazione, la fede pubblica e il patrimonio)» orientando
i progetti di accoglienza finanziati dallo Stato «verso il soddisfacimento di
indebiti e illeciti interessi patrimoniali privati». È questa la chiave di
volta dell’intera vicenda giudiziaria. In essa l’imputato, a ben guardare, non
è Mimmo Lucano ma il modello Riace, trasformato da sistema di salvataggio e
accoglienza (https://comune-info.net/a-tutte-le-ore-del-giorno/) in organizzazione criminale. È il
mondo all’incontrario (https://volerelaluna.it/commenti/2018/10/02/larresto-di-mimmo-lucano-il-mondo-al-contrario/) in cui la solidarietà e l’umanità
sono degli optional e il modello è l’ottusità burocratica: l’importante non è
accogliere, inserire, dare dignità alle persone ma avere i registri formalmente
in regola. Il mondo della solidarietà e dei diritti disegnato nella
Costituzione e quello dei giudici di Locri stanno agli antipodi e sono
destinati a non incontrarsi. Di più. Il teorema di fondo sotteso al processo,
non scalfito dai mancati riscontri probatori, esclude finanche che possano
trovare applicazione istituti, come lo stato di necessità, previsti dal sistema
penale per consentire l’integrazione tra legalità formale e giustizia.
L’intera
conduzione del processo da parte della magistratura calabra ha seguito il filo
rosso del pre-giudizio colpevolista. Lucano è stato arrestato, sottoposto per
quasi un anno a misure cautelari (dapprima gli arresti domiciliari, poi il
divieto di tornare a Riace), sospeso dalla carica di sindaco, rinviato a
giudizio e condannato con forzature evidenti. Alcuni esempi per tutti.
L’attività del sindaco di Riace è stata monitorata e scandagliata dalla Procura
di Locri e dalla Guardia di finanza per anni e facendo ricorso a prolungate
intercettazioni telefoniche: in terra di ‘ndrangheta, in una
regione in cui le condanne per corruzione si contano sulle dita di una o due
mani e la distruzione dell’ambiente è la regola, questa vicenda meritava il
primo posto (o quasi) nelle priorità dell’ufficio? Il giudice per le indagini
preliminare, che pure ha respinto la richiesta di custodia cautelare avanzata
dal pubblico ministero per i reati più gravi (ritenuti non sorretti da prove
adeguate), ha motivato l’arresto di Lucano per due reati minori evocando il
rischio, ictu oculi inesistente a processo iniziato, di
commissione di nuovi delitti collegati al ruolo di sindaco, non ha spiegato
perché quel rischio non poteva essere fronteggiato con una misura meno
afflittiva e ha concluso affermando, contro ogni evidenza, che può
«tranquillamente escludersi», in caso di condanna, la concessione della
sospensione condizionale della pena (https://volerelaluna.it/commenti/2018/10/02/larresto-di-mimmo-lucano-il-mondo-al-contrario/). Pur dopo la sentenza 26 febbraio
2019 della Corte di cassazione che, nell’annullare con rinvio la misura
cautelare in corso, ha letteralmente demolito l’impianto accusatorio (https://volerelaluna.it/commenti/2019/04/29/domenico-lucano-litalia-la-giustizia/), il giudice per le indagini
preliminari di Locri e il tribunale del riesame hanno continuato, come se nulla
fosse, a respingere le istanze di revoca della misura, incredibilmente
ignorando le argomentazione del giudice di legittimità.
La sentenza
di condanna e la pena inflitta sono il coronamento di tutto ciò. L’entità della
pena, in particolare, è la sintesi di questo pre-giudizio e svela
l’infondatezza del principio che ha aleggiato, anche sulla stampa, intorno al
processo: Lucano ha sbagliato, magari a fin di bene, ma ha violato la legge e
dunque deve essere condannato. Non è questo il caso. L’intervento giudiziario
presenta sempre ampi margini di discrezionalità, cioè di scelta. Le
pene previste per i reati variano da un minimo a un massimo, spesso con una
forbice assai ampia, e la loro determinazione va effettuata dal giudice tenendo
conto della gravità del fatto e delle caratteristiche del condannato; non solo,
esistono attenuanti e cause di esclusione della punibilità legate a giudizi che
è il giudice a dover formulare interpretando i princìpi fondamentali
dell’ordinamento. La stessa interpretazione delle norme, lungi dall’essere un
sillogismo formalistico simile a un gioco enigmistico, è un’operazione che
implica giudizi di valore, bilanciamento di princìpi, opzioni culturali. Il
riferimento alla discrezionalità sta a significare che, al di là dei (limitati)
casi di patologie, ciò che viene in discussione allorché si
valutano i provvedimenti giudiziari non è la loro legittimità formale ma la
congruità delle interpretazioni adottate e delle scelte operate nell’ambito di
una pluralità di opzioni possibili. Orbene, la pena scelta dai
giudici per Lucano è quasi doppia rispetto a quella, già abnorme, richiesta dal
pubblico ministero e superiore a quelle inflitte ai responsabili di “mafia
capitale” e a Luca Traini per il raid razzista Macerata del 3 febbraio 2018,
pur qualificato come strage: https://volerelaluna.it/controcanto/2018/02/04/buio-mezzogiorno-terrorismo-macerata/). Difficile negare che vi sia in
ciò un che di eccessivo, inadeguato, vessatorio.
Resta da
chiedersi il perché di tutto questo. La risposta è, in realtà, agevole. Riace è
stata, nel panorama nazionale, un unicum. Altri paesi e altre città
hanno accolto migranti, anche in misura maggiore e con risultati altrettanto
positivi. Ma Riace non si è limitata ad accogliere e a integrare. L’accoglienza
è diventata il cuore di un progetto comprensivo di molti elementi profondamente
innovativi: la pratica di una solidarietà gratuita, l’impegno
concreto contro la ‘ndrangheta, un modo di gestire le istituzioni
vicino alle persone e da esse compreso, il rilancio di uno dei tanti luoghi destinati
all’abbandono e a un declino inarrestabile. Incredibilmente, quel progetto, pur
tra molte difficoltà, è riuscito. La forza di Riace è stata la sua anomalia.
La capacità di rompere con gli schemi formali e le ottusità burocratiche. Il
trovare soluzioni ai problemi delle persone anche nella latitanza o nel
boicottaggio di altre istituzioni. E poi, l’elezione di Lucano per tre mandati
consecutivi è stata la dimostrazione che l’accoglienza può generare consenso,
che si possono tenere insieme gli ultimi e i penultimi, che c’è un’alternativa
allo status quo. Tutto questo non poteva essere tollerato
nell’Italia dei predicatori di odio, degli sprechi, della corruzione,
dell’arrivismo politico, della convivenza con le mafie,
dell’egoismo localistico, del rifiuto del diverso. Da qui la reazione dell’establishment,
le ispezioni e il taglio dei fondi, la delegittimazione e l’invocazione (a
sproposito) della legalità, il processo e l’arresto di Lucano e, infine, la sua
condanna.
In questo
intervento normalizzatore la magistratura ha avuto un ruolo decisivo. Non è la
prima volta che accade. È avvenuto e avviene, con riferimento a comportamenti e
movimenti che si discostano dai desiderata del pensiero
dominante, con preoccupante frequenza, da Torino a Catania, da Trieste a Reggio
Emilia (https://volerelaluna.it/controcanto/2021/04/07/la-democrazia-autoritaria-che-e-dietro-langolo/), ma la cosa, lungi dall’essere una
giustificazione, rende ancor più necessaria una presa di distanza critica. Nei
momenti di crisi sociale ed economica – come quello che attraversiamo – la
tendenza dei magistrati ad allinearsi alle politiche d’ordine è
fortissima. Talora inarrestabile, nonostante le eccezioni e le resistenze,
anche interne al corpo giudiziario. È in questa cultura che si colloca la
vicenda giudiziaria di Domenico Lucano, spia di una deriva di cui dovrebbe
occuparsi chi si preoccupa dello stato della giustizia, troppo spesso immerso
nelle distrazioni di massa veicolate dai vari Palamara e dai loro epigoni.
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