Apparentemente la discussione attorno al Green Pass e la vergognosa condanna di Mimmo Lucano non hanno molto a che fare se non per la concomitanza nei tempi della cronaca. Oppure potrebbero venire messi in relazione, da taluni, nella misura in cui si giudichino entrambi i fatti come espressione di antidemocratica sorveglianza e punizione nei confronti di coloro che deviano dalla retta via della narrazione dominante e dalle regole che ne mantengono lo status quo. Forse però c’è anche un’altra spiegazione, o meglio, una relazione diversa, meno immediata, più complessa frutto di un processo tutt’altro che di breve durata. Per semplificare tutto ciò si potrebbe raccontare una storia, piuttosto verosimile.
Immaginiamo di essere in una fabbrica oppure un ufficio, in generale un
luogo di lavoro con un discreto numero di dipendenti. L’azienda in questione
chiede ai propri lavoratori il Green Pass e, allo stato attuale, sappiamo che
non possederlo provoca conseguenze e disagi di non poco conto. Immaginiamo
anche che quell’azienda sia proprio una di quelle che nella prima fase del
lockdown, quando non si vedeva nessun vaccino all’orizzonte, non ha mai voluto
chiudere, anzi, sia stata disposta a fare carte false per trovare il giusto
codice ATECO che le garantisse la continuità di apertura. È normale immaginare
che, in tale situazione, si creino le condizioni per sviluppare un risentimento
e un conflitto in direzione verticale, dal basso verso l’alto, da parte di
alcuni lavoratori. Immaginiamo, però, che questo luogo di lavoro sia stato
danneggiato in maniera diretta dal Covid sin dalla prima fase, immaginiamolo
magari nella Bergamasca, in Val Seriana, nella quale i lavoratori sono stati
duramente colpiti di persona, che hanno perso uno o, come frequentemente è
accaduto, più di un famigliare stretto. È abbastanza facile immaginare che
perpendicolarmente alla linea verticale lungo la quale si sviluppava il primo
conflitto se ne svilupperà un’altra ma orizzontale, che avrà come conseguenza
principale quella di portare il conflitto all’interno, tra i lavoratori, tra
coloro che reputano il Green Pass una presa in giro e una limitazione della
propria libertà e quelli che invece lo reputano il minimo indispensabile o
addirittura ancora insufficiente per limitare il contagio. Il risultato è, in
ogni caso, il depotenziamento del primo conflitto, quello verso l’altro e la
frantumazione dell’unità dei lavoratori. Il rischio è che la traiettoria del
conflitto venga letteralmente deviata di 90°concedendo sonni tranquilli agli
imprenditori dopo aver ringraziato il loro personale Santo ATECO e un Governo
che, anche in questo ennesimo caso, gli ha tolto le castagne dal fuoco.
Se c’è infatti una novità sostanziale nella questione Green Pass è proprio
questa: vi è stata una esplicita decisione governativa attraverso la
quale è stato deviato verso il basso il conflitto, depotenziata la linea
di frattura tra società e istituzioni, inclinandola nella direzione di un conflitto
prevalentemente interno alla società medesima. Il meccanismo con il quale
questo è avvenuto è stato già stato ben sviluppato in un recente editoriale di
DINAMOpress (Il
Grande Reset), nell’ottica di quel Grande Reset, quella trappola che
ci fa discutere di cose sopravvalutate, tralasciandone altre, quella cosa che
consente di convogliare energie e dirigere il conflitto tutto all’interno della
società lasciando in pace i manovratori.
Si potrebbe obiettare che il governo avrebbe potuto fare un’altra scelta:
al di là di qualsiasi giudizio se ne possa dare, avrebbe potuto imporre la
vaccinazione obbligatoria, regolamentarla con tutte le esenzioni necessarie e
stabilite da specifiche commissioni mediche. Molti obiettano che il governo
abbia temuto una sollevazione popolare contro una simile decisione e non si sia
arrischiato a prenderla, ma la realtà è ben diversa: in primo luogo anche i
flop delle ultime iniziative mostrano che i NO Green Pass rimangono comunque
una minoranza risibile nonostante gli sforzi da parte dell’apparato mediatico
di dar loro visibilità e, in secondo luogo, non è immaginabile che questo
governo in particolare possa essere spaventato da così poco dopo aver concesso
lo sblocco dei licenziamenti, assicurato la libertà d’impresa, riducendo a tabù
qualsiasi discorso sulla patrimoniale, sul salario minimo, dato il via al
ritorno delle grandi e dannose opere alla faccia della transizione ecologica,
tenuto a bada molto facilmente qualsiasi forma di opposizione interna al
governo e della sedicente – ma non credibile – opposizione parlamentare.
Realisticamente il governo di Supermario, oggi, è nella posizione di non temere
nessuno, fa e disfa come meglio crede, il Green Pass è un’arma di distrazione
di massa gettata in pasto all’opinione pubblica e, soprattutto, la forma ideale
nella quale determinare e gestire dall’alto agenda e direzione del conflitto.
Apparentemente tale situazione non costituirebbe in sé una novità: è legata
alle forme della propaganda e al news management, cioè quell’attività mediatica
che non si propone di nascondere i fatti, bensì di produrli e di produrli in
massa; produrre eventi capaci di fare notizia a prescindere dal fatto che siano
veri o falsi. Provocare, quindi, una manipolazione attraverso un’inondazione di
notizie. La tecnica della propaganda ha ormai una storia secolare e quella del
news management almeno di parecchi decenni ma ci sono almeno alcune riflessioni
che andrebbero fatte, relative ai diversi contesti storici nei quali tali
tecniche sono state inserite e i cambiamenti intervenuti almeno negli ultimi
due decenni che ne hanno fatto crescere l’efficacia in termini esponenziali.
La storia del cosiddetto neoliberismo non è semplicemente una storia fatta
di economia e di controffensiva sul piano sociale ma, in linea generale, la
storia di una minuziosa controriforma culturale destinata a durare nel tempo e
ad invadere ogni spazio della vita quotidiana e materiale delle persone. Se non
si ha esattamente questa percezione è pressoché impossibile individuarne
l’inizio: l’inizio di questa controffensiva non nasce con la fine del
socialismo reale nell’89 e, forse, nemmeno con la prima elezione della Thatcher
nel 1979 ma qualche anno prima. Una controffensiva culturale che ha impegnato
politica, mass media, persino il cinema: come aveva ben rilevato già alcuni
anni fa Massimiliano Panarari, docente di Campaigning e Organizzazione del
consenso alla Luiss di Roma, “La Febbre del Sabato Sera” col suo protagonista
Tony Manero, con i suoi messaggi subliminali e diretti, con il suo richiamo ad
un riscatto individuale costruito totalmente al di fuori del mondo del lavoro
può essere considerato l’esempio più efficace di come e quando questa
controffensiva sia iniziata. Persino l’apolitico medio-man Mike Bongiorno nel
presentare il Festival di Sanremo nel 1979 affermò che si stava tornando a quei
valori e a quegli affetti che i ragazzi avevano dimenticato e che i ragazzi
volevano ballare e divertirsi come John Travolta (se qualcuno ancora oggi non
capisce perché Mike Bongiorno ebbe funerali di stato forse dovrebbe
riconsiderare le sue capacità di preveggenza). Vale appena la pena di accennare
a film come “Grease” o la popolarissima serie televisiva “Happy Days” tanto
amata anche dai centrosinistri veltroniani che aveva il grande merito di
eliminare in un sol colpo quei due maledetti decenni degli anni ’60 e ’70.
Il discorso sarebbe lungo e non è possibile svilupparlo pienamente in
queste poche righe ma è essenziale capire l’origine e le forti radici
pluridecennali della manipolazione del consenso e costruzione della narrazione
da parte degli “Happy Days” della fine della storia. Certamente ci sono stati
punti di rottura negli anni ’90: l’Europa libera dalla guerra fredda poteva
riscoprire il suo passato di guerra calda e ne fecero le spese Jugoslavia e
Medio Oriente ma il punto di rottura più importante, ai fini dell’attacco
diretto all’intero impianto narrativo costruito con pazienza e cura nei suoi
primi due decenni, fu il movimento altermondialista della fine degli anni ’90.
Per la Controriforma fu particolarmente pericoloso perché aveva almeno alcuni
punti in comune con ciò che era accaduto una trentina di anni prima nel 1968:
come il ’68 era un movimento globale che si esprimeva in tutto il mondo (e
proprio per celare e contrastare questa caratteristica fu giornalisticamente
coniato il termine NO Global), era eterogeneo e coinvolgeva dalle giovani
generazioni occidentali a quelle indigene della foresta amazzonica (così come
il ’68 fu a Parigi quanto Praga, Tokio o Città del Messico), era come il 1968
un movimento di critica antisistemica. Negli Happy Days degli anni ’90 che
ormai inevitabilmente scricchiolavano, tra guerre e crisi economiche ricorrenti
(quella del sud-est asiatico del 1997 è forse la più importante in quel
contesto) non si poteva permettere una nuova situazione nello stile 1968: in
entrambi i casi i movimenti antisistemici erano ben lungi dall’essere un
pericolo in grado di sovvertire l’intero sistema in termini strutturali ma, in
quel delicato momento, il ribaltamento narrativo che trasformava “la fine della
storia” in una potenziale “storia della fine” non poteva essere accettato.
Come sempre, nel momento in cui il re è nudo e la narrazione non funziona
più, tornano i sicuri e sperimentati metodi della repressione. Questa volta,
però, non si trattava di reprimere un fenomeno di natura locale, bensì globale
e la repressione doveva essere durissima ed esemplare. Fu Genova a pagarne le
spese attraverso un’operazione militare accurata e a lungo preparata, per dirla
con Amnesty International, con la più grande sospensione dei diritti
democratici nella storia occidentale dalla fine del secondo conflitto mondiale.
In un certo senso, però, si potrebbe affermare che il millennio finisca con
Genova e il nuovo arrivi solo un paio di mesi dopo con l’abbattimento delle
Torri Gemelle.
Vi fu un cambiamento e anche una lenta evoluzione nella gestione dei conflitti
anche da parte delle istituzioni. Il movimento pacifista era cresciuto a
dismisura e nel febbraio del 2003 ci fu la più grande manifestazione globale
della storia dell’umanità contro la guerra. La piazza di Roma fu quella
principale con 3 milioni di persone, circa 10 volte quelle di Genova nel 2001.
Non ci fu alcun incidente né violenza perché la repressione non sarebbe servita
in quel caso, nessuna strategia fu attuata per provocarla artificialmente, la
strategia era cambiata, la manifestazione fu un successo di partecipazione e
nello stesso tempo la peggiore mortificazione della partecipazione stessa
perché non si ritardò di un solo minuto l’inizio della guerra. Partecipazione e
conflitto erano stati depotenziati. Come poté avvenire questo? Il cambiamento
epocale dell’attentato alle Torri Gemelle fu quello di spostare completamente
il piano del conflitto in termini spaziali, nell’alveo della lotta al
terrorismo, e nei termini dell’inserimento di un terzo elemento, un nuovo
nemico, il terrorismo internazionale, nella partita. Non si è mai riflettuto
abbastanza sull’evoluzione della tecnica della gestione del conflitto interno
da parte delle istituzioni, di come, a partire da quel periodo, le cose
cambiarono. La storia però non finisce qui e per comprendere le ultime
evoluzioni, quelle nelle quali stiamo vivendo, bisogna partire dal periodo del
2007/2008, quello della grande crisi economica e della tuttora irrisolta crisi
sistemica. In termini di creazione del consenso è a partire da quel periodo che
prendono piede i social network, per molti causa apparente di tutti i mali ma,
in realtà, semplici esponenziali amplificatori di una narrazione manipolativa
che, seppur mutata e adeguata al contesto dura da oltre 40 anni. Quello che
muta in questi termini è un maggiore ed efficace lavoro sulle tecniche di
percezione. Non è più semplicemente il vecchio news management che inonda la
vita quotidiana di notizie (vere o false che siano poco importa), bensì un
accurato lavoro sulla costruzione della percezione e della reputazione
direttamente mutuato dalle nuove tecniche di marketing che hanno acquisito
grande efficacia attraverso i social stessi. Le tecniche della gestione del
conflitto non potevano che sfruttare le nuove tecnologie soprattutto in un
momento in cui la crisi del 2008 poteva far saltare nuovamente in aria la
narrazione ufficiale. Ancora una volta nella gestione del conflitto appaiono
altri elementi di novità. Anche questa volta il pericolo viene da uno spazio
esterno ma arriva direttamente in casa: l’immigrato, lo straniero è il
pericolo, l’untore, la causa di tutti i mali e malesseri proposta per spiegare
e celare i reali motivi della crisi. La percezione e la reputazione (ovviamente
negativa in questo caso) dell’immigrato è la principale costruzione narrativa
operata, in Europa e in Occidente per depotenziare e deviare le traiettorie di
un conflitto che altrimenti sarebbe potuto scatenarsi tutto all’interno. Nello
stesso tempo la costruzione di una percezione e di una reputazione (positiva in
questo caso) di personaggi politici che si contrapponevano al nuovo nemico e
capro espiatorio è andata di pari passo. Questo passaggio è abbondantemente
sottovalutato per le sue implicazioni storiche e geopolitiche: la xenofobia,
l’invenzione di un’inesistente invasione da parte degli stranieri sono stati
determinanti per la vittoria del “leave” nel referendum del Regno Unito.
Proprio quel popolo che forse più di qualsiasi altro al mondo ha accumulato
ricchezze nella storia attraverso l’occupazione coloniale, il neocolonialismo e
sfruttando la manodopera straniera anche in patria è stato indotto a temere
un’invasione inesistente. È quasi superfluo sottolineare come la Brexit abbia
cambiato gli scenari geopolitici a livello europeo e planetario.
Se non riusciamo a capire la forza di questo processo di costruzione
mediatica nella percezione ormai condizionata in ogni attimo della vita
quotidiana delle persone, non riusciamo a capire neppure il successo di nullità
e personaggi da operetta come Salvini e Trump, saremmo costretti a pensare di
vivere in un mondo nel quale una buona fetta della popolazione sia composta da
poveretti decerebrati. Ma non è così: il disastro culturale ha radici profonde
perché nasce lontano nel tempo e ha saputo evolversi incontrastato con pazienza
e metodo.
Ancora una volta, però, quando la narrazione non funziona, viene messa in
discussione con messaggi vincenti e opposti, la repressione torna ad essere
molto pesante: la sentenza nei confronti di Mimmo Lucano ha questo significato
e questo preciso scopo politico lasciando in pasto all’opinione pubblica
l’oziosa e inutile dissertazione circa le motivazioni giuridiche che hanno
portato a tale condanna, deviando ancora una volta le vere ragioni del
contendere.
La pandemia da Covid-19, infine, ha fatto fare un altro balzo in avanti in
termini tattici e strategici nella gestione e nella deviazione delle
traiettorie del conflitto.
Il lockdown si è rivelata come la migliore situazione nella quale favorire
e direzionare una determinata narrazione: la conoscenza e la percezione del
mondo, soprattutto nel primo lockdown, sono stati totalmente mediati perché non
era possibile una conoscenza esperienziale diretta. Di questo fatto in molti se
ne sono accorti, ma d’altro canto, questo ha anche favorito il sorgere o
l’amplificarsi di teorie complottiste di ogni genere.
Il Covid-19 ha cambiato il mondo, un mondo che non si era ripreso affatto
da una crisi cronica e che rischia oggi di crollare velocemente in una crisi
sistemica che distrugge tutti e tre i tradizionali ambiti nei quali viene
definita la sostenibilità: quella economica, quella sociale e quella
ambientale.
Di fronte ad una crisi globalizzata da un virus che non conosce frontiere
diventava difficile selezionare un nuovo nemico esterno al sistema perché
appare sempre più chiaro che questo “esterno” non può esistere, diventerebbe
via via sempre meno credibile. Come sottolineato all’inizio il depotenziamento
del conflitto passa, quindi, attraverso l’individuazione e l’ampliamento delle
faglie che consentono un conflitto tutto interno e trasversale nella società.
La questione Green Pass va letta all’interno di questa cornice. Gli
intellettuali che vedono nel Green Pass come una forma di limitazione di
democrazia e controllo sociale sembrano vissuti su Marte e rimasti ibernati
negli ultimi 40 anni: non si sono affatto resi conto di cosa sia realmente
cambiato nel tempo e questo è molto grave. È grave perché il Green Pass è solo
una, l’ultima ricetta per determinare le traiettorie del conflitto e, di più ,
stabilirne l’agenda dall’alto. La visibilità mediatica data da questa
contrapposizione è stata enorme, mentre altre questioni sono passate in secondo
piano se non addirittura celate. È grave perché non si comprende che quel
fenomeno che noi chiamiamo “complottismo” è coerente, complementare e
funzionale alla frantumazione interna dei blocchi sociali. È grave anche perché
la questione della pandemia e la gestione di queste forme di manipolazione
durerà per lungo tempo. Infatti, al contrario di quanti sostengono che sia il
vaccino il vero affare delle case farmaceutiche la realtà è un po’ diversa
perlomeno se si pensa ad un vaccino veramente risolutivo della pandemia. I
vaccini risolutivi, anche in presenza di tutela di brevetto consentono un profitto
una tantum, se la malattia viene debellata quel profitto viene a mancare. Se
accanto alla tutela dei brevetti continueremo ad avere una ampia fetta di
umanità non vaccinata, addirittura alcuni continenti, come l’Africa, quasi
completamente esclusi, dalla vaccinazione, se il virus continuerà a circolare
con le sue varie mutazioni, la gestione della malattia si trasformerà davvero
nell’affare che tutte le case farmaceutiche private sperano di gestire: una
malattia cronica, richiami continui di vaccino, modifiche del vaccino stesso a
fronte delle varianti scoperte e tutto ciò potrebbe durare per un lungo
periodo. Come già ha dimostrato il disastro della sanità privata lombarda di
fronte alla pandemia, quasi esclusivamente strutturata per la gestione delle
lucrose cronicità e totalmente impreparata nella prevenzione, il cosiddetto Big
Pharma non opera sono in termini di profitto bensì è composto da veri e
propri rentiers che guadagnano dalla cronicità della malattia.
La centralità mediatica del Green Pass serve, tra l’altro, a non focalizzare
questo problema come problema centrale la cui soluzione è infinitamente più
importante di tutti i Green Pass e altre alchimie che seguiranno per assicurare
la continuità del conflitto nella frammentazione sociale, quella della
continuità del potere nella gestione delle istituzioni politiche e di profitti
per le grandi multinazionali.
Cosa fare di fronte a tutto ciò è quasi facile da dire ed estremamente
difficile da realizzare: accanto alla conquista dei mezzi di produzione ci
sarebbe da considerare anche quello nei confronti dei mezzi di produzione del
consenso, della manipolazione delle menti e della creazione dell’errata
percezione del mondo. In parte discorso vecchio ma non certo in termini
qualitativi e di potere effettivo nella costruzione dell’immaginario collettivo
di oggi. Una buona parte dell’assalto ad un contemporaneo Palazzo d’Inverno va
fatto lì e dobbiamo prendere coscienza al più presto possibile di questa
necessità, non farci dettare da alcuno le agende e le traiettorie del conflitto
ma trovare il modo di svelare l’inganno e condividere in maniera più ampia
possibile tale coscienza, riscrivere l’agenda di un conflitto connesso con la
realtà e la materialità dell’esistenza.
Missione apparentemente impossibile oggi ma una nota di speranza c’è. Per
diversi giorni a margine della conferenza Youth4Climate organizzata dal
governo a Milano, mass media e social sono stati molto impegnati nello
screditare, come sempre, la figura di Greta Thunberg, un’operazione che va
avanti da anni nonostante si tratti di una ragazza di appena 18 anni, perché
l’importante è far sì che la gente percepisca una sua presunta antipatia e
arroganza, creare artificialmente una fastidiosa reputazione; l’importante è
che l’opinione pubblica non si soffermi sul fatto che, ad esempio, l’Italia può
contare oltre 65.000 morti all’anno da inquinamento atmosferico, così come è
più importante far passare per viziati e redarguire in maniera paternalistica i
giovani che non dovrebbero scendere a protestare come se proprio quelle
generazioni che li redarguiscono, negli ultimi 50 anni, non siano state la vera
causa del disastro ambientale e del baratro nel quale rischiamo tutti di
precipitare (e di conseguenza a questi giovani non hanno proprio un bel niente
da insegnare!).
La risposta a questi tentativi manipolatori sono stati i 50.000 giovani che
hanno sfilato nella manifestazione di venerdì 1 ottobre a Milano, la più grande
manifestazione nel paese dall’inizio della pandemia.
Ripartiamo da lì e se dovrà esserci conflitto reale ci sia: la storia
passata ci insegna, però, che quando la narrazione fallisce la repressione è
spietata e senza scrupoli: con molta umiltà vediamo di dare loro una mano, non
lasciamoli soli.
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