Lo scorso 8
ottobre l’inaugurazione dell’anno accademico dell’Università per Stranieri di
Siena ha visto l’insediamento come rettore di Tomaso Montanari. Il suo discorso
di insediamento, inusuale in una Università (come l’intera cerimonia, visibile
al link https://www.youtube.com/watch?v=j9lOR69hTxs), ha toccato alcuni dei
temi più caldi nella nostra società: la centralità dell’essere umani,
l’autoritarismo, il necessario antifascismo dell’Università, il senso della
cultura e di una comunità educante, il pensiero critico, le migrazioni,
l’accoglienza… È stato a pieno titolo, nell’attuale situazione del
Paese, un controcanto che, dunque, proponiamo, nella sua
interezza, come tale.
Autorità,
colleghe e colleghi docenti e non docenti, studentesse e studenti, amiche e
amici che oggi siete con noi, e caro Magnifico Rettore, caro professor Cataldi
– caro Pietro.
La prima cosa che voglio dire prima di varcare la soglia che oggi mi porta a
continuare il tuo lavoro; la prima cosa che voglio dire, parlando a nome della
nostra collettività, è: grazie, Pietro! Grazie per la misura, la grazia, l’equilibrio,
la dedizione, la determinazione, e vorrei dire l’amore con cui ti sei preso
cura di questa comunità, nella buona e nella cattiva sorte. Grazie per la
prosperità, la crescita, l’autorevolezza che hai saputo garantire alla
Stranieri. Grazie per la guida sicura nel buio della pandemia. Grazie
soprattutto per una cosa, che mi colpì fin dal primo momento che ci conoscemmo:
grazie perché non ti sei mai vergognato della tua umanità. Ricordo che pensai
che se un rettore di una università italiana era ancora visibilmente un essere
umano, allora forse c’era qualche speranza. Da allora ho imparato a conoscerti,
e negli ultimi mesi sei stato per me non solo un mentore incredibilmente
paziente e uno straordinario didatta, ma anche un amico vero. E, lo sai, da
domani ti troverai ad avere ancora più pazienza. E questo grazie, pubblico e
solenne, è anche per tutto quello che ancora ti chiederò. Hai chiuso il tuo
discorso ricordandoci che «il nostro lavoro è tenere insieme lo spazio definito
di questa città tanto identitaria e le quinte sconfinate del mondo, il nostro
lavoro – hai detto – è la fatica e la felicità dell’attraversamento».
Il nostro
lavoro. Fermiamoci su queste due cose: noi, la nostra comunità accademica; e il
lavoro che facciamo. Il mio impegno per i prossimi sei anni è che continuiamo
ad essere, e diventiamo ancor più, un noi. «Salvarsi da soli è avarizia,
salvarsi insieme è politica», diceva don Lorenzo Milani (e lo ripeterà tra poco
il ministro Roberto Speranza, che ringrazio per aver voluto essere,
virtualmente, con noi): e la nostra politica è quella di pensare non come una
somma di egoismi, ma come una comunità.
Ho provato a spiegare, nel programma di mandato, cosa questo vuol dire, in
concreto e a partire dal ruolo del rettore. Primo. Un governo
plurale e paritario, di prorettrici e prorettori, delegate e delegati. Perché
l’unico modo di far sì che il potere diventi servizio, non solo nella retorica,
è suddividerlo, assumerlo insieme, renderlo largo, trasparente,
responsabile. Secondo. Una comunità di eguali fondata sulle
diversità. Il che vuol dire: comportarsi ogni volta che sia possibile, e
tendenzialmente sempre, come se esistesse un ruolo unico della docenza (e
lottare perché esista presto), e abolire ogni odioso segno di gerarchia tra docenti,
non docenti e studenti. Siamo persone: rimaniamo persone! E vuol dire anche
abbandonare, progressivamente e sostenibilmente, ogni forma di precarietà, cioè
di sfruttamento. Tra i docenti, tra i non docenti, tra le persone che
assicurano ogni giorno la pulizia e l’accessibilità degli edifici in cui si
svolge la nostra vita. E riconoscere, valorizzare, celebrare (in parole e
opere) le diversità: quelle dell’orientamento sessuale e dell’identità di
genere, quelle delle lingue e delle culture, quelle delle età e dei talenti.
Perché «siamo differenti, inteso “differenza” nel senso di diversità delle
identità personali» e perché «siamo disuguali, inteso “disuguaglianza” nel
senso di diversità nelle condizioni di vita materiali». E l’eguaglianza –
questo il punto centrale – si deve realizzare «a tutela delle differenze e in
opposizione alle disuguaglianze». Siamo una comunità dalla parte dei più
deboli. Delle donne, di chi è o si sente diverso, di chi è povero culturalmente
e materialmente, di chi è marginale e periferico. Siamo una comunità
antifascista.
Ha un prezzo questo? Sì, lo ha.
Nelle scorse settimane, per aver espresso un punto di vista culturale, per aver
ammonito sulle conseguenze della manipolazione politica della storia, per aver
denunciato la strumentalizzazione politica delle vittime delle Foibe, ho dovuto
subire un accanito linciaggio mediatico. E voi con me: e ve ne domando scusa.
Penso, tuttavia, che ne valga la pena. Nel programma di mandato mi sono
impegnato a dedicare dodici aule ai soli dodici professori universitari che non
giurarono fedeltà al fascismo, nel 1931: ho capito a mie spese quanto
quell’idea fosse attuale. Se guardiamo a quella generazione, la resistenza che
ci è richiesta, è ben poca cosa: non farla – per convenienza, viltà, malinteso
amore di pace – sarebbe una vergogna imperdonabile.
Del resto, da storico dell’arte credo profondamente nella forza dei luoghi,
nelle storie e nei destini che nei nomi dei luoghi sono iscritti.
Ebbene, la vita della nostra piccola università si muove tra due poli
principali: “Rosselli” (questo plesso) e “Amendola” (il rettorato). Il nostro
“noi” è piantato nel cuore della toponomastica antifascista: quelle vite,
quegli ideali, quelle voci ci accolgono e vegliano su di noi.
Carlo Rosselli, a cui è intitolato il piazzale che tutti abbiamo appena
attraversato arrivando qua, è una figura altissima di professore, di
intellettuale, di antifascista – di martire dell’antifascismo, ucciso insieme a
suo fratello Nello in Francia nel 1937, per ordine di Mussolini. Tra le tante
pagine che, negli articoli di Carlo Rosselli, sembrano scritte per noi ce n’è
una (del 1934) che spiega a fondo cosa significhi essere antifascisti oggi (nel
2021), e cosa significhi esserlo da umanisti, e in una università per Stranieri:
«Siamo antifascisti non tanto e non solo perché siamo contro quel complesso di
fenomeni che chiamiamo fascismo; ma perché siamo per qualche cosa che il
fascismo nega ed offende, e violentemente impedisce di conseguire. Siamo
antifascisti perché in questa epoca di feroce oppressione di classe e di
oscuramento dei valori umani, ci ostiniamo a volere una società libera e
giusta, una società umana che distrugga le divisioni di classe e di razza e
metta la ricchezza, accentrata nelle mani di pochi, al servizio di tutti. Siamo
antifascisti perché nell’uomo riconosciamo il valore supremo, la ragione e la
misura di tutte le cose, e non tolleriamo che lo si umilii a strumento di
Stati, di Chiese, di Sette, fosse pure allo scopo di farlo un giorno più ricco
e felice. Siamo antifascisti perché la nostra patria non si misura a frontiere
e cannoni, ma coincide col nostro mondo morale e con la patria di tutti gli
uomini liberi». La nostra patria è il mondo, e la nostra piccola comunità si
autodetermina declinando questi valori altissimi nella gioia e nella fatica del
lavoro di ogni giorno.
Nel Senato accademico (che si riunirà, nella sua nuova composizione, già il
prossimo 19), nel Consiglio di Amministrazione, nel Consiglio di Dipartimento
decideremo insieme come attuare tutte queste cose, esposte in dettaglio nel
Programma di mandato e nel discorso con cui, l’8 giugno scorso, ho chiesto la
vostra fiducia.
Ma, in
questo giorno fausto, abbiamo qua molti ospiti e amici, e dunque nei prossimi
minuti non vorrei parlare ancora di noi, bensì del nostro lavoro, continuando a
riflettere sulle ultime parole del discorso di Pietro. Qual è, dunque, questo
nostro lavoro?
È lo stesso della scuola: perché l’università, non mi stancherò di ripeterlo, è
parte della scuola – è scuola. E quel lavoro è formare cittadini, e prima
ancora persone: persone umane. Tutta l’università esiste per formare umani,
anche Legge o Ingegneria non sfornano solo avvocati o ingegneri, ma formano o
non formano esseri umani. Noi, poi, come umanisti siamo capaci solo di fare
quello: se non lo facciamo più, siamo come il sale quando perde il suo sapore.
Ma non possiamo farlo, questo lavoro, se non siamo umani noi stessi.
Un singolare paradosso – confessiamocelo. Se passiamo la vita a studiare humanities,
e non riusciamo a diventare un poco umani, a cosa davvero abbiamo dedicato la
vita? Per questo non si può separare ricerca e didattica, studio e
insegnamento, biblioteca e aula: perché se ci separiamo dalla sorgente, siamo
fontane aride. E per questo il governo dell’università, la sua organizzazione,
non può mai diventare impersonale, spersonalizzata, astratta, burocratica. Non
è un’azienda, non si ciba di numeri. Siamo una comunità di persone, in cui le
persone vengono prima di ogni altra cosa. Siamo come l’orco della favola a cui
Marc Bloch paragona lo storico: «Egli sa che là dove fiuta carne umana, là è la
sua preda». Solo che non vogliamo mangiarla, la nostra preda: la vogliamo far
vivere più intensamente. Più umanamente.
La prima cosa che dunque abita le nostre aule è il dubbio, il pensiero critico,
la contestazione di ogni dogma, di ogni autorità – a partire dalla nostra. A
partire da quella del rettore. La nostra deve essere un’università ribollente
di letture tendenziose. È il titolo delle «parole dette [da Franco
Antonicelli] per l’inaugurazione della Biblioteca dei portuali di Livorno», il
15 ottobre del 1967. Già, perché gli scaricatori di porto avevano voluto una
loro biblioteca: strumento di riscatto e di liberazione. E Antonicelli, questo
intellettuale singolarissimo e libero, quel giorno memorabile consigliò loro
ciò che oggi vorrei consigliare alle studentesse e agli studenti della
Stranieri: «Cercate sempre i libri che vi tormentano, cioè che vi conducono
avanti, i libri che vi gettano lo scrupolo di coscienza: questi sono i libri, i
libri non di fede accertata, ma di fede incerta. Questi sono i libri che un
cittadino, un portuale che diventa, che è, che vuol essere più cittadino deve
leggere».
Dobbiamo costantemente ricordare che la nostra ispirazione è questa fede
incerta, piena di dubbi. Consapevole che abbiamo scelto questa vita e questa
via, non perché pensiamo di sapere molto. Al contrario, l’abbiamo scelta perché
sappiamo di non sapere. Ha detto la poetessa polacca Wislawa Szymborska, nel
discorso di accettazione del Premio Nobel, nel 1996:
Ispirazione
non è un privilegio esclusivo dei poeti o degli artisti in genere. C’è, c’è
stato e sempre ci sarà un gruppo di individui visitati dall’ispirazione. Sono
tutti quelli che coscientemente si scelgono un lavoro e lo svolgono con
passione e fantasia. Ci sono medici siffatti, ci sono pedagoghi siffatti, ci
sono giardinieri siffatti e ancora un centinaio di altre professioni. Il loro
lavoro può costituire un’incessante avventura, se solo sanno scorgere in esso
sfide sempre nuove. Malgrado le difficoltà e le sconfitte, la loro curiosità
non viene meno. Da ogni nuovo problema risolto scaturisce per loro un profluvio
di nuovi interrogativi. L’ispirazione, qualunque cosa sia, nasce da un
incessante “non so” … A questo punto possono sorgere dei dubbi in chi mi
ascolta. Allora anche carnefici, dittatori, fanatici, demagoghi in lotta per il
potere con l’aiuto di qualche slogan, purché gridato forte, amano il proprio
lavoro e lo svolgono altresì con zelante inventiva. D’accordo, loro “sanno”.
Sanno, e ciò che sanno gli basta una volta per tutte. Non provano curiosità per
nient’altro, perché ciò potrebbe indebolire la forza dei loro argomenti. E ogni
sapere da cui non scaturiscono nuove domande, diventa in breve morto, perde la
temperatura che favorisce la vita. Nei casi più estremi, come ben ci insegna la
storia antica e contemporanea, può addirittura essere un pericolo mortale per
la società. Per questo apprezzo tanto due piccole paroline: “non so”. Piccole,
ma alate. Parole che estendono la nostra vita in territori che si trovano in
noi stessi e in territori in cui è sospesa la nostra minuta Terra. Se Isaak
Newton non si fosse detto “non so”, le mele nel giardino sarebbero potute
cadere davanti ai suoi occhi come grandine e lui, nel migliore dei casi, si
sarebbe chinato a raccoglierle, mangiandole con gusto. Se la mia connazionale
Maria Sklodowska Curie non si fosse detta “non so”, sarebbe sicuramente
diventata insegnante di chimica per un convitto di signorine di buona famiglia,
e avrebbe trascorso la vita svolgendo questa attività, peraltro onesta. Ma si
ripeteva “non so” e proprio queste parole la condussero, e per due volte, a
Stoccolma, dove vengono insignite del premio Nobel le persone di animo inquieto
ed eternamente alla ricerca.
È per
proclamare questo «non so», è per questa fede incerta, vedete, che ho preferito
non indossare la toga: e chiedo scusa se questo gesto può aver offeso qualcuno.
Perché tra quei libri di fede incerta ne ho letti due (i Pensieri di
Blaise Pascal e le Tre Ghinee di Virginia Woolf) che mettono
in guardia dal rischio di trovare troppo certezze nelle vesti liturgiche dei
poteri maschili. Il primo ha scritto che se «i magistrati possedessero la vera
giustizia non saprebbero che farsene di quelle loro toghe rosse, dei loro
ermellini, di cui s’ammantano come gatti villosi […] se i medici sapessero la
vera arte per guarire, non avrebbero palandrane e pantofole, e berrette a
quattro pizzi». E Virginia suggeriva che le coloratissime toghe delle
università inglesi servissero a suscitare «competitività e invidia». Un
recente, luminoso discorso delle allieve e degli allievi della Scuola Normale
Superiore di Pisa, mia amata alma mater, ci ha di recente ricordato
quanto questi sentimenti siano attivi, e distruttivi, nell’università
prigioniera del mito dell’eccellenza. Dunque, non rifugiamoci nelle insegne che
proclamano al mondo che siamo quelli che sanno. Preferiamo l’umiltà – cioè
l’amorevole, francescana vicinanza alla terra – di chi sceglie come sua insegna
il «non so».
Agli abiti, ai gesti, ai riti, ai pensieri che disegnano l’università come un
clero separato dal mondo, preferiamo tutto ciò che ci restituisce al mondo, e
al nostro lavoro per cambiarlo. Per questo accogliamo con gioia e gratitudine
le bandiere delle diciassette contrade, il gonfalone della Regione Toscana e
quello della Provincia: perché l’università si sente parte di una comunità
civile, della sua storia, del suo desiderio di futuro. Siamo profondamente
legati all’amatissima città di Siena, e alle sue istituzioni: qua oggi tra noi
rappresentate dalla Balzana, il gonfalone civico che salutiamo con deferenza e
con affetto. E desidero inviare il saluto più rispettoso e amichevole al
Sindaco di Siena, che ha scelto di non essere presente tra noi.
Abitare il
mondo significa – ce lo insegnano le nostre studentesse e i nostri studenti
– aver voglia di cambiarlo dalle fondamenta. E la lezione inaugurale, che tra
poco ascolteremo, serve a non lasciare dubbi sulla direzione in cui vogliamo
cambiarlo, il mondo.
Pietro ed io abbiamo chiesto a Cecilia Strada di aprire questo anno accademico,
perché ci pare che Resq, «la nave degli italiani» che solca il Mediterraneo per
salvare «esseri umani, leggi e diritti», della quale Cecilia è portavoce, sia
tra le luci accese nell’eterna notte della Repubblica. Italiani che accolgono
stranieri: e che per accoglierli li strappano al mare, perché non siano
riconsegnati alle carceri libiche – a torture pagate con i soldi delle nostre
tasse. Resq salva la nostra stessa identità: «Profugo … povero, ignoto, io vago
fra i luoghi deserti di Libia / dall’Europa … respinto»: sono parole del primo
canto dell’Eneide, a parlare è Enea. «Profugo … povero, ignoto, io vago fra i
luoghi deserti di Libia / dall’Europa … respinto»: se questo è il mito
fondativo di Roma, come potremmo essere più fedeli alla traditio,
al passaggio di mano della cultura, se non con la presenza, la testimonianza,
la parola di Cecilia Strada? Siamo stranieri in Italia: da sempre meticci,
fusi, diversi, sangue misto, bastardi. Questa la nostra storia: questo il
nostro progetto per il futuro. Questo, in una università in cui si impara a
diventare stranieri, è davvero il nostro lavoro di ogni giorno.
La nave Resq dice di sé, lo abbiamo sentito, che salva non solo i corpi, ma
anche le leggi. Già, le leggi. Oggi vorrei ricordare che costruendo le basi
culturali per aprirci agli stranieri, la nostra università è dalla parte della
legge, dell’ordine. È bene ricordarlo, in un’Italia in cui legge e ordine
sembrano essere diventate bandiere di chi i migranti li sequestra sulle navi, o
li vorrebbe affondare sui barconi.
Nadia Fusini – che oggi ci onora della sua presenza – mi ha regalato l’ancora
inedita traduzione di un brano del Thomas More, questo dramma
scritto nell’Inghilterra del primo Seicento da un collettivo di autori, uno dei
quali fu nientemeno che William Shakespeare. E proprio in uno dei brani così
evidentemente suoi, leggiamo parole che sembrano scritte per oggi. Tomaso Moro,
cancelliere del regno, è chiamato a sedare il tumulto del popolo che vorrebbe
cacciare gli stranieri che rubano il lavoro agli inglesi. Così si rivolge loro:
Diciamo che
sono espulsi, e diciamo che questa vostra protesta
Giunga a ledere la maestosa dignità dell’Inghilterra.
Immaginate di vedere gli stranieri disgraziati,
Coi bambini sulle spalle, i loro miseri bagagli,
Arrancare verso i porti e le coste per imbarcarsi,
E voi assisi in trono, padroni ora dei vostri desideri,
L’autorità soffocata dalle vostre risse,
Voi, agghindati delle vostre opinioni,
Che avrete ottenuto? Ve lo dico io: avrete insegnato
A far prevalere l’insolenza e il pugno forte,
E come si annienta l’ordine. Ma secondo questo schema
Nessuno di voi arriverà alla vecchiaia:
Ché altri furfanti, in balìa delle loro fantasie,
Con quello stesso pugno, con le stesse ragioni, e lo stesso diritto,
Come squali vi attaccheranno, e gli uomini, pesci famelici,
Si ciberanno gli uni degli altri. […]
Volete calpestare gli stranieri,
Ucciderli, sgozzarli, impadronirvi delle loro case,
Mettere il guinzaglio alla maestà della legge
Per aizzarla poi come un cagnaccio. Ahimè! Diciamo che il Re,
Clemente col traditore pentito, rispondesse
In modo non commisurato alla vostra grande colpa,
Mettendovi al bando: dove ve ne andrete?
Quale paese, vista la natura del vostro errore,
Vi darà asilo? Che andiate in Francia o
Nelle Fiandre, in qualsiasi provincia germanica,
In Spagna o in Portogallo,
In qualunque luogo che non sia amico dell’Inghilterra:
Ebbene, lì sareste per forza stranieri. Vi piacerebbe forse
Trovare una nazione di temperamento così barbaro
Che scatenandosi con violenza inaudita,
Vi negasse rifugio sulla terra, anzi
Affilasse detestabili coltelli per le vostre gole,
Scacciandovi come cani, come se non fosse Dio
Che v’ha fatto e creato, come se gli elementi naturali
Non servissero anche ai vostri bisogni
Ma dovessero essere riservati a loro? Cosa pensereste
Di un simile trattamento? Questo è il caso degli stranieri,
Questa la vostra montagnosa disumanità.
Chi caccia
lo straniero, chi lo perseguita, chi lo insulta distrugge la legge e l’unico
ordine possibile, quello umano. Le parole di Shakespeare sono ancora più vere
nell’Italia di oggi, retta da una legge fondamentale, la Costituzione del 1948,
che fa del nostro comune essere persone umane il fondamento stesso di ogni
legge. E, come vedete, dallo studio della storia e delle lingue, dalla
filologia, dalla traduzione estraiamo continuamente, come da un tesoro, cose
nuove e cose antiche.
Ecco, dunque, il nostro lavoro: tenere in tensione queste cose. L’antico e il
nuovo, il passato e il presente: quella tradizione umanistica che ancora può
renderci umani. «La nostra patria – ci ha ricordato Carlo Rosselli – non si
misura a frontiere e cannoni, ma coincide col nostro mondo morale e con la
patria di tutti gli uomini liberi». È un forte, fortissimo invito alla
presenza. Ad essere presenti, contro ogni forma di indifferentismo.
Oggi siamo
felici anche perché finalmente possiamo essere qua in presenza –
pur conservando, come è doveroso, distanziamenti, mascherine, porte aperte e
prudenza. Il nostro impegno è che questa presenza fisica sia segno e annuncio
di una presenza morale, culturale, umana dell’Università per Stranieri: nella
città di Siena, in Italia e in un mondo che, anche per noi, coincide con la
patria di tutte le donne e di tutti gli uomini liberi.
Buon lavoro
a tutte, e a tutti!
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