È il 15 ottobre del 2011. A Roma. Una turba inferocita devasta il centro storico. Il tentativo di convogliare l’opposizione sociale alle misure di austerity sotto un cartello di compatibilità riformista va in fumo, assieme a un blindato dei carabinieri, in frantumi con la celeberrima madonnina di coccio. L’indignazione ha ceduto il passo alla rabbia. E menomale.
È un biennio movimentato, quello del
2010-2011, in mezza Europa.
Nel portare avanti lo scontro c’è una
composizione eterogenea di lavoratori, disoccupati, teppisti, occupanti di casa
e democratici arrabbiati, ma soprattutto c’è una grossa componente di
giovanissimi, a cavallo tra le scuole superiori e l’università, reduci e colpo
di coda dell’Onda studentesca che, nel loro piccolo, hanno appreso l’arte
dell’esercizio della forza in piazza, sanno come respirare in mezzo ai gas
lacrimogeni, sanno avanzare e indietreggiare, erigere una barricata e
disselciare un viale. Una componente che vive quel giorno anche come un salto
di qualità, un possibile inizio.
Invece il salto è un inciampo. Si cade a
terra tra i distinguo e i “però”, tra le dissociazioni e le dietrologie, tra le
scuse al capo dello Stato e il paternalismo forcaiolo dei salotti TV.
Un giorno è poca roba nel grande schema
delle cose, eppure quel giorno il mondo guarda Piazza San Giovanni, una festa
di fuoco e pietre che volano, i giornali sono in fibrillazione, i commentatori
tra lo scatenato e l’attonito, la politica dissimula il brivido sulla schiena
con una caterva di contumelie e intimidazioni. La Grande Minaccia, il pericolo
per la democrazia, è una gioventù che ha scritto sul suo vessillo di guerra
“non chiediamo il futuro ci prendiamo il presente!”.
Non ci si è presi nulla poi, se non
carichi pendenti. Ma son cose che capitano. Essere giovani e non essere
schedati è una contraddizione quasi biologica.
Dieci anni fa. Un secolo, un mondo fa. A
guardarsi attorno viene quasi un senso di vertigine a pensare alla distanza
incolmabile con quel ieri. Di mezzo ci
stanno le stagioni dei populismi, degli odiati tecnocrati, dei movimenti
sociali che tentano la via della rappresentanza, delle mareggiate sovraniste. È
invecchiato tutto in un batter di ciglia. Gli incendiari populisti si son fatti
tiepidi amministratori della miseria, i malefici tecnocrati sono diventati i
primi ministri del consenso unanime, il NO dei referendum alle riforme
strutturali capovolto nel NO della catena di comando, perché gli ordini si eseguono
non si discutono; i sovranisti tentano di dismettere con imbarazzo le vecchie
croci uncinate e i cappucci a punta.
In coda alla carrellata, la Pandemia: il
colpo apoplettico che fa stramazzare l’organismo ormai sfinito e manda tutto a
carte e quarantotto.
Di quella gioventù che un decennio fa
accarezzava la minaccia del rovesciamento dell’ordine delle cose è rimasta a
malapena un ombra sbiadita, l’assalto al cielo le è scivolato tra le dita,
piano, giorno per giorno, in una generosa pantomima di militanza sempre più
autoreferenziale e sconnessa dai propri soggetti di riferimento ed in una
quotidiana precarietà che ha inibito il riscatto.
Ora, dopo un decennio di anniversari di
quella giornata campale a San Giovanni, celebrati a colpi di post malinconici e
altisonanti sulle bacheche dei social, tipo veterani di una guerra di
indipendenza dimenticata dal resto del mondo, gli antagonisti si scervellano
sulle nuove mobilitazioni contro il green pass, quelle per cui questo 15
ottobre sarebbe dovuto diventare (l’ennesimo) “primo giorno della rivoluzione”.
Starci dentro, stare contro, o dentro e contro?
Ancor di più, si scannano sul dare o meno
solidarietà a un sindacato confederale attaccato da una banda di neofascisti
durante un corteo No Green Pass.
È un vecchio vizio, radicato come un
riflesso pavloviano, quello della tifoseria e della solidarietà automatica, per
cui qualunque cosa accada bisogna schierarsi dal lato di uno dei due
pretendenti, pure quando entrambe le parti ci sono egualmente nemiche, pure se
schierarci vuol dire stare dalla parte dei garanti dello status quo, soprattutto, senza mai chiedersi qual è il
nostro possibile peso nelle vicende. Questo, specialmente, quando di mezzo ci
sono i fascisti; la tara del frontismo antifascista non molla mai la presa.
E allora, quel sindacato il cui servizio
d’ordine che esattamente dieci anni fa placcava i dimostranti strappandogli il
passamontagna, consegnandoli ai gendarmi e a giorni di galera, mesi di
cautelari e anni di peripezie giudiziarie e personali; quel sindacato che (pur
andando lungamente a ritroso nel tempo) ha sempre ostacolato l’iniziativa dei
lavoratori, ha boicottato, avversato e criminalizzato qualsiasi ipotesi lo
travalicasse, che si è immancabilmente schierato dalla parte dei padroni; ora
sembra un fratello ferito, un baluardo di dignità. Solo perché si è preso due
ceffoni da un paio di gorilla neonazisti e cocainomani.
E si scomodano paragoni roboanti, a
sottolineare la misura dello scollamento dalla realtà, che verrebbe da ridere
se non scadessero nell’osceno: due vetri rotti, qualche scrivania scassata
rievocano il 1921, quando ai sindacalisti li prendevano di notte e gli
sparavano in faccia davanti alla famiglia o li appendevano ai lampioni nudi e
massacrati; tre vasi di fiori schiantati in terra e una cornicetta frantumata
equivalgono alla strage di Odessa, quella dove la sede dei sindacati è bruciata
da cima a fondo, con donne incinte strangolate col filo del telefono e
innocenti con le gambe fracassate per essersi buttati dalla finestra nel
tentativo di fuggire dal fuoco vennero finiti a bastonate sul selciato.
Landini pare un novello Di Vittorio, che
manco quando prese le manganellate con gli operai della Thyssenkrupp, la CGIL
come le truppe del maresciallo Tymoshenko alla riva del Volga.
Bisogna dargli solidarietà! Anche se li
abbiamo sempre (giustamente) considerati dei venduti, dei collaborazionisti,
dei nemici. Bisogna essere affianco a loro perché altrimenti si è
automaticamente e inequivocabilmente dalla parte dei fascisti!
Da queste pagine si è parlato a più
riprese di epidemia delle emergenze, ovvero
della produzione di emergenzialità come forma di governo e della difficoltà a
sottrarsi all’agenda stabilita dal nemico.
Sempre là stiamo. Nell’incapacità di
uscire da dicotomie imposte e problemi falsati, nel non trovare lo spazio per
fare un passo a lato e schivare il colpo: fanculo la CGIL e fanculo ai
camerati!
Semmai il punto dev’essere, perché
l’iniziativa è potuta partire da un gruppuscolo insignificante che vive di
pagliacciate mediatiche, di estetica del conflitto patriottarda, e non dalla
nostra parte?
Perché può esprimersi quella forma della
politica e non un’altra?
Senza stare a rimestare il tema della
crisi della militanza, pur sempre valido, si può cominciare guardando alle
stesse mobilitazioni cui stiamo assistendo.
Una composizione acefala ed eterogenea,
spuria, che si mobilita contro un dispositivo di controllo sociale in difesa
della propria libertà, personale e di impresa. Ci stanno lavoratori, ci stanno
imprenditori grandi e piccoli, studenti, qualche prete, qualche gruppo di matti
complottari e anche strutture politiche, Forza Nuova come anche collettivi a
noi più vicini.
Di certo interessante, se fossimo
sociologi. Se siamo animali politici, molto meno.
Questo perché in politica, come nello
sport, il tempo è fondamentale. Il timing.
La medesima piazza, la medesima
composizione, in differenti momenti può esprimere un segno completamente
opposto. Il 6 novembre è troppo presto, dice Lenin, l’8 sarà troppo tardi.
Così, le piazze datesi alla chiusura del
Lockdown potevano essere attraversate con spirito d’inchiesta, con la curiosità
verso uno spazio inedito che si stava aprendo, ma nulla se ne poteva cavare
fuori: troppa la confusione sotto il cielo, troppa l’impreparazione nostra.
Meglio le proteste dello scorso ottobre,
quelle del “Tu ci chiudi, tu ci paghi”, dove il rapporto tra spontaneità,
rivendicazione e disposizione al conflitto faceva presagire dei margini di
intervento e radicamento in quella composizione, dove le parole d’ordine erano
ancora sufficientemente ambigue e contraddittorie da permettere una loro
torsione in senso antagonista. Così non è stato, e non avrebbe senso star qui a
dire “è colpa mia, è colpa tua”. È un dato di fatto, come si è aperta quella
parentesi, così si è chiusa.
Ora, in quella chiusura si dà
l’opposizione al Green Pass, il focus si è ristretto, la parola d’ordine è
netta. Il Green Pass deve essere ritirato. Perché lede il nostro diritto a disporre del nostro corpo, perché è obbligatorio, perché mette un’ipoteca sulla
nostra libertà personale, perché sono io a decidere quello che posso o non posso fare.
Eccolo qua, il nocciolo.
Probabilmente mai, negli ultimi anni,
abbiamo assistito ad un sussulto così liberale dell’opinione pubblica. A fare
mostra di sé per le strade è il vessillo della libertà
personale: il cardine morale, culturale e antropologico di una
società incentrata sul suo ceto medio con la sua propria libertà di impresa e
la sua mentalità bottegaia elevata a spirito di popolo, all’apice di una crisi
di nervi. Io faccio il cazzo che mi pare. Questo è il vero mantra di fondo.
A chi dice che in mezzo a quei cortei non
ci si può stare perché son tutti fascisti, vorremmo sottolineare questo non
secondario aspetto, della centralità assoluta e inarginabile della libertà
personale, che ne fa la piazza perfetta per la difesa della cultura liberale di
questo paese, allattata a decenni di Democrazia Cristiana e berlusconismo.
Altro che fascismo, che legge e ordine, qua si grida “aprite le gabbie”. Poi,
certo, si potrebbe pure notare che le sortite dei camerati, in un frangente di
mobilitazioni diffuse a livello nazionale, si sono concentrate praticamente
tutte su Roma, unica città dove sussiste il nocciolo duro di una formazione
abbastanza spregiudicata da mettersi puntualmente in mostra sotto i riflettori.
Chi invece guarda ai quei dimostranti come
una massa di trogloditi creduloni, terrapiattisti, maniaci del complotto e
fuori di testa vari, dovrebbe far mente locale, tornando a quel 15 ottobre di
dieci anni fa, al seguito che avevano le stramberie sui massoni che governano
l’UE, sul “signoraggio bancario”, lo straseguito pseudo-documentario Zeitgeist. Certo i complottismi avranno pure
subito una mutazione qualitativa e quantitativa, ma la differenza fondamentale
con oggi, la faceva la presenza di una determinata parte e ipotesi politica, la
“nostra”, in grado di tenere banco. E gli altri vengono a catena. Anche la
stessa rivendicazione piccolo-borghese, a ben vedere era presente dieci anni
fa. Ma sono i rapporti di forza a stabilire il segno della parola d’ordine e
dentro quelle piazze, di forza da mettere sul piatto, ce ne stava.
Che il Green Pass sia buono oppure no, che
venga ritirato o no, lo spazio di possibilità si è già chiuso. Per noi e pure
per i camerati. Se ne sta, bello e buono, tutto dentro il campo di internità al
sistema democratico. Non è una strada, è un vicolo cieco.
E che di istanza liberale si tratta, ce lo
dimostra questo nuovo 15 ottobre, questo nuovo appuntamento con la Storia
risoltosi in un nulla di fatto. Come per tutte le fasi di questo movimento,
vige la norma della ciclotimia, per cui ad una fase di crescita, di comizi
partecipati e belle marce segue l’appello all’insurrezione, il rilancio in
grande stile, magari preceduto da qualche tafferuglio, come stavolta. Ma al
giorno dell’appello non si presentano in molti, era successo alle stazioni dei
treni, è successo stavolta. Finché si tratta di berciare, di fare teatro o di
minacciare di bastonare il sindacato e di giustiziare i giornalisti son tutti
d’accordo, quando si chiama all’adunata generale tutti fanno sì con la testa.
Poi, quando il sindacato viene bastonato, il giornalista preso a calci, quando
si tratta di affrontare la potenza dello Stato, scuotono la testa inorriditi.
La violenza, l’azione diretta, lo scontro reale sono estranei a tale
composizione che, nonostante i toni, non chiede altro che un intervento dello
Stato e dei suoi apparati, per la difesa della libertà individuale. Un corto
circuito su impianto democratico.
Ecco dove urge quel passo a lato, quella
rottura del dispositivo di produzione d’emergenzialità.
La rivendicazione della libertà soggettiva
è il grido di un mondo che si vede scivolare la terra sotto i piedi,
domandandosi se ci sarà posto per lui dopo la ripresa, dopo
la grande ristrutturazione del mercato. La libertà del cittadino democratico
resta, volente o nolente, la libertà proprietaria. Quella vecchia e consunta di
lockesiana memoria, per la quale chi non ha,
semplicemente, non è.
Ma cosa ci dovrebbe fare con questa
libertà, quello strato di popolazione che di terra sotto ai piedi non ce ne
aveva nemmeno prima, cui la pandemia ha oscurato una prospettiva di futuro che
già di per sé aveva ben poca luce e tante nebbie?
È il caso di tornare al quel primo 15
ottobre, a quel Ci prendiamo il presente.
Riprendere l’iniziativa, riprendere la centralità del conflitto, riprendersi un
proprio Tempo per tornare ad essere.
Essere soggetto e motore di sconvolgimento
sociale, di rovesciamento dello stato di cose. Ecco l’unica libertà per chi da
questo modo di produzione non ha nulla da guadagnare, per chi aspira ad
essere classe e avanguardia di classe. Ribaltiamo la
questione, la nostra di libertà è disciplina collettiva, lavoro di talpa,
predisposizione allo scontro. È decisione politica.
Il passo a lato, dicevamo poco sopra. Il
merito più grande di queste ultime mobilitazioni è stato di rendere esplicito,
più di quanto non fosse, il tema davvero centrale della fase: la Ripresa. Nella
condanna unanime dello Stato agli eccessi delle piazze si è subito parlato di
stretta repressiva e di intolleranza verso qualunque “attacco alla ripartenza”.
Come se al porto di Trieste o di Genova avessero messo in piedi uno sciopero
per bloccare il PNRR.
Lo strumento Green Pass è una minuzia
appariscente in un mastodontico piano di ristrutturazione del capitale che
muterà gli assetti dell’economia del paese e, di riflesso, della sua politica
interna ed estera, con grosse quanto ancora imprevedibili ricadute sociali; della
collocazione dell’Italia all’interno del sistema Europa, oggi più impaziente
che mai di aumentare il suo peso in un incerto e mobile scacchiere
internazionale.
Dalle strette di mano nei vertici globali,
ai piani d’investimento, alle aziende che chiudono battente, giù fino
all’ultimo fattorino che bestemmia per il rincaro della benzina, c’è un enorme
sommovimento tellurico che ancora non ha fatto sentire i suoi scossoni più
pesanti e che è comunque sotto i nostri occhi.
Questo è un passo a lato che occorre fare,
una battaglia che è tutta da preparare, con cura, prima ancora che da
combattere; l’unica progettualità autonoma possibile è quella che gioca
d’anticipo sui tempi dello scontro. Per discutere di green pass, giusto o
sbagliato che sia, è bello che tardi, figuriamoci per conquistarsi una
centralità antagonista lì dentro. Altre piazze si daranno, altri tumulti, altre
parole d’ordine, altri 15 ottobre. Ma perché siano fecondi, quello a cui
occorre prestare attenzione è al grande processo e alle sue ricadute materiali
e particolari. Quello che occorre fare è organizzare l’imprevedibile.
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