Il difetto principale dei filosofi,
diceva Hegel – che un po’ se ne intendeva – è la pretesa che essi hanno di
insegnare al mondo come il mondo dovrebbe essere. Come se il mondo fosse ogni
giorno lì ad aspettare che arrivasse il pensatore di turno a dirgli che vestito
indossare al sorgere del sole. Questa malefica tentazione sembra diventata
tanto più evidente all’interno del periodo di crisi pandemica che stiamo
vivendo. E non si sta qui parlando solo delle posizioni oramai notissime di
Giorgio Agamben contro le quali chi scrive ha anche aspramente e pubblicamente
polemizzato ritenendole posizioni che rischiano di sfociare in forme di
complottismo populistico, o che comunque dimostrano quanto gli occhiali
ideologici dei dispositivi che si sono elaborati per leggere il mondo rischino
di deformare radicalmente ciò che il mondo mostra di sé. A leggere
infatti la lettera
‘contro Agamben’ firmata da un numero considerevole di filosofi
italiani e pubblicata il giorno 16 ottobre sul “Fatto quotidiano” viene davvero
da pensare che questi oppositori filosofici delle posizioni agambeniane siano
forniti di occhiali perlomeno altrettanto deformanti e, verrebbe da dire, anche
un po’ più dozzinali di quelli di cui vorrebbero mostrare la debolezza e gli
effetti distorcenti. La lettera muove da un tono scandalizzato per il fatto che
Giorgio Agamben è stato audito in una commissione al Senato sulla questione
Green Pass. Scandalo, evidentemente, del tutto immotivato. Agamben non è stato
invitato in quanto rappresentante di una comunità filosofica che andrebbe
perciò difesa dal rischio di essere confusa con le posizioni assai controverse
di un singolo filosofo, ma in quanto persona autorevole – piaccia o meno,
rientri o meno nelle pagelline che
pretendono di dare patenti di filosoficità, è il filosofo italiano
più noto al mondo – che ha una posizione molto discutibile (e forse anche per
questo interessante) sulla questione del Green Pass. Una posizione che taluni
pensano sia un bene che chi legifera abbia presente. Non necessariamente per
accoglierla, ma ad esempio anche solo per capire se offra argomenti che possono
essere tenuti presente per fare poi, con maggiore consapevolezza, magari il
contrario di quello che Agamben vorrebbe. Dopo di che la lettera entra nel
merito di ciò che Agamben ha sostenuto in quella audizione (e in generale in
questi mesi). In primis, dicono i filosofi che sembrano certi di
abitare dalla parte giusta del mondo e della storia, è falso sostenere, come ha
fatto Agamben nell’audizione, che i vaccini anti-covid19 siano in una fase
sperimentale. Giusto. I vaccini sono stati infatti testati. Ribadendolo, però,
forse non sarebbe fuori luogo dire che è altrettanto vero che la
somministrazione dei vaccini è iniziata – a mio parere giustamente e per un
atto di responsabilità politica che andrebbe esplicitamente rivendicato e non
nascosto – prima che tutti gli step cui solitamente viene sottoposto un farmaco
fossero conclusi. Come noto, infatti, solo nell’agosto del 2021 (quando cioè il
vaccino era già in uso) la Food and Drug Administration americana ha fatto
uscire il vaccino Pfizer-Biontech da quella che non a caso viene chiamata – con
un termine che fa evidentemente gioco ad Agamben – emergency use
authorization, ovvero approvazione emergenziale. E infatti solo
da quel momento un governo che si volesse assumere quella responsabilità
potrebbe introdurre l’obbligo vaccinale. Per l’Agenzia Europea del Farmaco,
invece, i vaccini sono ancora sottomessi a CMA (Conditional
Marketing Authorisation), ovvero ad autorizzazione al commercio
condizionata, la quale è lo strumento utilizzato per accelerare l’approvazione
dei medicinali durante un’emergenza sanitaria pubblica o per affrontare
esigenze mediche non soddisfatte. Non dire queste cose e far credere che la
somministrazione del vaccino abbia seguito una prassi standard vuol dire o non
voler riconoscere l’eccezionalità decisionale che la situazione ha richiesto o
voler far credere qualcosa che non corrisponde al vero.
Il secondo punto su cui si sofferma la
lettera dei filosofi che non vogliono essere confusi con Agamben è che sarebbe
improprio sostenere che ci troviamo in un’epoca in cui l’eccezionalità è
diventata la regola al fine di esercitare da parte dello Stato un controllo
sulla cittadinanza, sul modello di quanto fatto da forme di dispotismo come
quello sovietico. Le analogie sono sempre pericolose, tanto più quando mettono
di mezzo la storia e il dolore che la attraversa. E Agamben su questo è spesso
fastidiosamente e gravemente fuori luogo. Tuttavia, non riconoscere che c’è una
parte importante della riflessione filosofico-politica contemporanea che
insiste sulla giustificazione sempre più emergenziale delle forme del potere
politico, vuol dire aver deciso a priori che c’è in tutto il mondo una
discussione che non dovrebbe trovare in realtà ospitalità nel mondo. Il che o
rientra nella patologia denunziata da Hegel, o è una posizione frutto di
ignoranza, o, più probabilmente, è, ancora una volta, una posizione banalmente
ideologica.
Il terzo e il quarto punto della lettera
sono forse i più delicati. Contro quanto sostenuto da Agamben, i filosofi che
si vogliono corretti e informati sostengono che l’adozione del Green Pass non
induce nessuna discriminazione tra classi di cittadini e non è, di conseguenza,
in alcun modo una forma di repressione delle libertà individuali. Sostenere il
contrario – dicono – sarebbe come sostenere che l’istituzione della patente di
guida, fatta per limitare il più possibile il numero e l’entità degli incidenti
stradali, determini una distinzione tra cittadini di serie A e cittadini di
serie B, ovvero che l’obbligo della patente sia anch’esso una forma di lesione
delle libertà dell’individuo. L’argomento della patente, come è noto, è uno
degli argomenti preferiti sui social media, in particolare su Facebook, e
francamente da una così prestigiosa comunità scientifica ci si poteva forse
attendere qualcosa di più. In realtà è ovvio che il Green Pass produce una
forma – niente affatto banale – di discriminazione. A cittadini che non stanno trasgredendo
nessuna legge (perché non vaccinarsi è legale e legittimo) è di fatto impedita
una forma di vita sociale minima degna di questo nome: essi, infatti, se non
muniti di Green Pass non possono entrare in un’aula universitaria, in una
biblioteca, in un teatro, nel luogo di lavoro, su un treno ad alta velocità, a
una riunione di partito, a un’assemblea condominiale, in un locale pubblico. E
tutto questo non sarebbe discriminatorio? Certo che lo è! All’argomento di
Agamben che denunzia le implicazioni discriminatorie del Green Pass non si
dovrebbe rispondere negando l’evidenza, ovvero, detto altrimenti,
contrapponendo ideologia a ideologia. Una risposta forse un po’ più seria
dovrebbe dire: sì, il Green Pass è una norma discriminatoria della quale dobbiamo
farci carico, è una forma di ‘ingiustizia’ della quale una società degna di
questo nome in certi momenti è chiamata a farsi problematicamente carico,
sapendo e dicendo che sta facendo una cosa del tutto fuori dalla norma. Una
società responsabile è una società che riconosce esplicitamente le situazioni
di deviazione che la sua sopravvivenza richiede. Si chiama – verrebbe da dire –
politica, ossia capacità di assumere decisioni non garantite circa il loro
esito, di intraprendere azioni che escono dagli automatismi di ciò che è già
deciso. Dire ad Agamben, come dicono i tanti filosofi che hanno firmato la
lettera, che non è vero che c’è discriminazione, significa, di fatto, dare
ragione ad Agamben, fornire cioè argomenti ancora più forti alla sua narrazione.
Il filosofo – è sempre Hegel che lo dice – è colui che è chiamato a problematizzare l’ovvio, a mostrare le implicazioni che abitano in esso, a evidenziare le conseguenze che la sua mera assunzione produce. Forse è questo quello che ci si attende dalla filosofia nel momento in cui entra nel dibattito pubblico. Non che ci dica, cioè, quali sono gli occhiali buoni per vedere “davvero” il mondo; ma che ci aiuti invece a capire cosa un certo tipo di occhiali o un altro ci impediscono di fatto di vedere.
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