Una consistente delegazione di componenti maschili, femminili e otro@s del
movimento zapatista sono in questi giorni in Europa ed una loro
commissione è in Italia dal 12 di ottobre ove resterà fino al 5 di novembre.
Gli zapatisti sono arrivati in Europa percorrendo il cammino inverso
rispetto a quello seguito da Cristobal Colon nel lontano 1492, quando arrivò,
equivocando circa il luogo, nelle terre che chiamò Indie Orientali. Hanno
‘navigato’ nelle moderne caravelle dell’aria, gli aerei, ma un piccolo nucleo
di 7 persone, lo “squadrone 421”, era giunto in Europa, alle Azzorre, l’11
luglio scorso su un veliero, percorrendo simbolicamente in senso inverso il
percorso del 1492. Per questo il viaggio è stato definito
scherzosamente come una loro “invasione” dell’Europa.
È possibile non cogliere, per distrazione, il significato storico
dell’evento: gli “invasi” di 500 anni or sono hanno invertito i ruoli.
Conseguenza del viaggio di Colombo fu il più grande genocidio che la storia
ricordi: secondo studi contemporanei la popolazione di quelle terre contava
all’epoca da 80 a 90 milioni di persone. Dopo 50 anni essa era ridotta a meno
di 10 milioni: responsabili di ciò in buona parte i virus portati dai
conquistatori, il più comune dei quali, ormai innocuo per i suoi portatori –
quello dell’influenza – contro il quale invece i nativi non avevano difese
immunitarie. Il massacrante lavoro nelle miniere e le stragi in battaglie nelle
quali i nuovi venuti impiegarono le loro armi “moderne”: archibugi e cannoni,
cavalli e cani addestrati al combattimento fecero il resto.
Nel tempo, le culture originarie superstiti, molte centinaia o forse
migliaia allora, dovettero affrontare la distruzione culturale originata da
quello che il filosofo Dussel ha definito l’”occultamento dell’altro”, da
contrapporre alla celebrata “scoperta” delle terre, non certo ignote a chi le
abitava. Si iniziò negando la natura umana dei “conquistati”, che secondo i
canoni dell’epoca necessitava l’esistenza dell’anima, che molti negavano essere
da essi posseduta. Una volta decretato ex-lege papale che
anch’essi ne erano dotati, iniziò la loro assimilazione culturale, cioè la
negazione della loro “diversità”, che prosegue ancora oggi con le politiche
dette “indigeniste”, concepite cioè dai successori dei conquistadores,
disegnate per loro, ma non da loro.
Rispolverate e applicate oggi in Messico dal presidente “progressista” AMLO
(Andrés Manuel López Obrador).
Ci limitiamo a questi brevi richiami storici non avendo queste note
l’intenzione di ripercorrere la storia ma solo di voler sottolinearne un dato
di fatto: cinque secoli o poco più dopo la “scoperta”, a cui erano
seguite la conquista e la decimazione degli abitanti, i rappresentanti di
alcuni popoli superstiti, in una fase storica che potrebbe essere definita come
un “ri-nascimento” indigeno, ripercorrono in senso inverso il cammino di Colon per
riaffermare la loro appartenenza “con dignità” alla comune razza umana, in un
percorso che programmaticamente incontrerà successivamente i popoli dei 5
continenti, dove molte altre culture sono “occultate”, in un momento storico in
cui i popoli occidentali stanno cambiando la stessa modalità di essere ‘umani’,
in una prospettiva ormai in via di attuazione da Cartesio in poi e che oggi
procede in modo enormemente accelerato, quella di una liberazione dell’attività
cerebrale dal limitante corpo di carne: il post, o se preferite,
il trans-umano.
Chiuso questo rapido excursus storico, le altrettanto brevi note che
seguono sono scritte per quanti non conoscono lo zapatismo e lo ignorano
vedendo in questa venuta di loro rappresentanti solo un elemento
“folcloristico” singolare, da ‘consumare’ e subito dimenticare, in una frenesia
dissipativa di ogni evento insolito capace di attrarre per breve tempo
l’attenzione.
Chi sono gli e le zapatiste?
Molto è stato scritto sullo zapatismo, soprattutto nei primi anni della
loro sollevazione armata in Chiapas, questo Stato situato sulle montagne del
Sudest della Repubblica del Messico fino ad allora sconosciuto al pubblico
internazionale. Dal primo gennaio del 1994 si sarebbero letti con curiosità –
però da una minoranza anche con reale interesse – i messaggi inviati al mondo
da un enigmatico Comando Generale del Comando Clandestino Rivoluzionario
Indigeno (Ccri-Cg) o, più spesso, da un altrettanto misterioso sub-comandante
Marcos (intrigante quel sub! Una geniale impostura, come fu
scritto?).
Un’insurrezione armata di indigeni col volto coperto in un momento storico
in cui era stata dichiarata la “fine della storia” (ricordate il libro
del 1992 di F. Fukuyama La fine della storia e l’ultimo uomo?) e
l’affabulare geniale del loro presunto “capo”, Marcos, un non indigeno,
avevano tutti gli elementi per ricevere spazio anche nei nostri media
occidentali, affamati di “novità” per distrarre i loro lettori. Dopo alcuni
mesi l’attenzione mediatica ebbe termine e dopo pochi anni essa calò anche
nelle schiere dei simpatizzanti che nei primi tempi si erano recati
numerosi a portare la loro “solidarietà” a questi ipotetici costruttori di un
mondo nuovo, che gli zapatisti affermavano di voler realizzare. Oggi il numero
di quelli che vennero ironicamente definiti “zapaturisti” è notevolmente diminuito,
anzi quasi estinto, come già l’interesse del pubblico, e ogni tanto qualche
persona all’epoca interessata, sapendo del mio perdurante interesse a questa
vicenda, incontrandomi mi chiede “Ma gli zapatisti esistono ancora? E se sì,
che cosa fanno?”.
Già, che cosa hanno fatto e che cosa fanno? Difficile rispondere in due
parole ma si può provare a farlo andando al cuore dei fatti: stanno
facendo crescere pazientemente e consolidando fra molti ostacoli un’esperienza
di autogoverno comunitario che probabilmente è la più avanzata nel mondo,
almeno fra quelle conosciute da chi scrive. “Qui il popolo comanda e il governo
obbedisce”, si legge all’ingresso dei territori zapatisti, non è solo uno
slogan.
La notte del primo gennaio 1994
Tutto ebbe inizio nella notte del primo di gennaio del 1994 quando alcune
migliaia – gli storici dicono 3 o 4 mila – di indigeni e indigene maya col
volto coperto occuparono senza colpo ferire 5 cabeceras (capoluoghi
municipali) fra i quali il più importante simbolicamente era San Cristóbal de
Las Casas, l’antica Ciudad Real dei conquistatori, promossa da poco a una delle
capitali del turismo internazionale. Altre migliaia restavano come rinforzo
nelle comunità ribelli della “Montaña” (un simbolo importante, nella narrazione
zapatista, tanto da dare questo nome al veliero dello “squadrone 421”). In
realtà l’EZLN, l’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale, nel quale
erano inquadrati i ribelli, era già sorto qualche anno prima in clandestinità,
nelle cañadas, le aspre e strette valli che solcano la Selva
Lacandona, una delle ormai poche quasi inesplorate foreste tropicali del
pianeta. Lo avevano fondato nel 1983 quattro leader indigeni, colà
rifugiati per salvare la vita, e 4 guerriglieri cittadini, anch’essi sfuggiti
alle selvagge repressioni che il governo stava conducendo fin dal 1965 contro i
movimenti studenteschi che avevano osato contestarne l’operato.
I motivi della nuova rivolta indigena erano da ricercare in una serie
secolare di agravios (torti subiti) che avevano alimentato una
lunga serie di rivolte, intensificatisi e divenuti assolutamente intollerabili
negli ultimi anni nel corso dei quali gli effetti delle politiche neoliberiste
si erano ripercossi anche in queste terre lontane dal “centro” del “sistema”.
Dopo vari e vani tentativi disperati di farsi ascoltare dal governo statale
come da quello federale e, nonostante la sfavorevole situazione nazionale e
internazionale del momento, nel corso di una lunga consultazione condotta fra
le centinaia di comunità in sofferenza sparse nella regione, un certo numero di
esse decise l’insurrezione armata. Per iniziarla fu scelta la data del
primo gennaio 1994, giorno dell’entrata in vigore di un Trattato Internazionale
di Libero Commercio (TLCAN) stipulato fra Stati Uniti, Canada e Messico, alcune
clausole del quale equivalevano a una vera e propria condanna a morte per la
maggioranza indigena e contadina dello Stato per l’impossibilità di
sopravvivere alle conseguenze economiche del Trattato.
Non intendiamo ripercorrere la storia dell’epopea zapatista, impossibile in
un breve scritto, ma solo ricordarne alcuni aspetti per meglio conoscere i
promotori del “viaggio per la vita” (“travesía por la vida”) iniziato
nei giorni scorsi a partire dall’Europa (“capitulo Europa”)
per incontrare e scambiare esperienze con i movimenti di opposizione al brutale
sistema dominante esistenti nei 5 continenti.
L’insurrezione, che nell’aggettivo “zapatista” rievoca quella contadina e
indigena guidata da Emiliano Zapata (1910-1919) e che fu anche la prima grande
rivoluzione popolare del turbolento secolo XX, precedente anche a quella
sovietica del 1917, secondo una interpretazione non peregrina significò
la “riapertura della storia”, dopo che le resistenze mondiali al capitalismo
sembravano estinte con la caduta del “muro” di Berlino (1989) e la dissoluzione
dell’Unione Sovietica (1991), mentre le guerriglie centro-americane
perdevano vigore o si stavano spegnendo intrappolate in ambigui accordi di pace
(Guatemala, El Salvador) o si ripiegavano su loro stesse (Nicaragua). Restava
come eccezione la discussa rivoluzione cubana.
L’insurrezione zapatista significò, per i suoi contenuti ideologici e le
modalità operative, un profondo cambiamento rispetto alle precedenti
ribellioni, latinoamericane e non solo.
Essa nacque da una “ibridazione” di due culture fra loro lontane che le conferirono
contenuti e modalità nuove rispetto alle molte ribellioni storiche: quella
marxista, con le sue varie colorazioni latinoamericane (trozkismo, castrismo,
guevarismo, mariateguismo …), diffusa fra i movimenti studenteschi e le
periferie operaie delle città, e quella indigena radicata in una multisecolare
esperienza di vita comunitaria ancorata nella natura ma non cristallizzata in
forme antiche, come spesso si crede. In anni recenti, in tutta la America detta
Latina, e particolarmente in Chiapas, essa era stata scossa dalla Teologia
della Liberazione, la prima teologia cristiana non elaborata al centro della
cristianità bensì in una delle sue periferie. Questo ripensamento dal basso in
Chiapas aveva assunto il volto di una “teologia india”, che ebbe uno dei suoi
alfieri più significativi nel vescovo di San Cristóbal, Samuel Ruiz,
“convertito” dagli stessi indios, come egli sottolineava. Fu grazie al
suo instancabile lavoro (fu sopranominato “el caminante”) che il mondo
indigeno del Chiapas, condizionato da una secolare sottomissione al potere
civile e religioso anche se ripetutamente ribelle, si era risvegliato alla
politica. Questi due mondi lontani si incontrarono proprio nelle cañadas della
Selva dove si fusero dando vita a quello che sarebbe stato chiamato
“neo-zapatismo”.
Possiamo ricordare questa “ibridazione” attraverso le parole del
sub-comandante Marcos, il cui pensiero si era forgiato in un marxismo critico
cittadino:
Noi (i rivoluzionari venuti dalla città, nda) avevamo una concezione
molto squadrata della realtà. Quando urtammo con la realtà, questa squadratura
restò abbastanza ammaccata. Come questa ruota che sta qui. Comincia a ruotare e
essere modellata con il contatto con i popoli. Ormai non ha più nulla a che
vedere con l’inizio. Quindi, quando ci chiedono. “Voi, cosa siete? Marxisti,
leninisti, castristi, maoisti o cos’altro?”, io non lo so. Veramente, non lo
so. Siamo il prodotto di una ibridazione, di un confronto, di uno scontro nel
quale fortunatamente, così penso io, abbiamo perso.
L’ibridazione, inizialmente non facile per le reciproche diffidenze (“il
vostro linguaggio è duro, non lo comprendiamo”, dicevano gli indigeni ai
guerriglieri venuti dalla città) avvenne nelle cañadas perché
lì gli agravios del sistema erano più acuti e lì stava covando
una situazione drammatica, coi giovani che, avendo perduto il lavoro,
rientravano nelle loro comunità già carenti di terra da condividere, situazione
così descritta dallo storico García de Leon, parlando della nascita dell’EZLN:
“L’esercito zapatista è oggi composto da questa massa giovane e marginale,
moderna, poliglotta e con esperienze di lavoro salariato. Un profilo che ha
poco a che vedere con l’indio isolato che immaginiamo da Città del
Messico. Nel suo attuale habitat convive con le vecchie
fattorie e i suoi peones in regime di schiavitù, con i gruppi
di guardie bianche ammodernate nel corso dell’amministrazione di Patrocinio
González, coi latifondi dissimulati, con le anacronistiche strutture statali.
Questo pare essere il fermento sociale, la combinazione creatrice di un vero
esercito popolare, con migliaia di combattenti e di simpatizzanti nella Selva,
le Terre Alte, il Nord e la Sierra Madre che conferma l’insolito carattere del
Chiapas, la combinazione creatrice che questa regione ha sempre ottenuto fra
passato e futuro. […] Un esercito popolare che in pochi giorni ha distrutto le
verità assolute maturate in anni di concertazione frazionate, di pace ingiusta
e di opportunismo. […] Il suo nuovo stile politico e il suo linguaggio fresco e
diretto, pieno di riferimenti simbolici e con una poesia direttamente
influenzata dalle strutture linguistiche maya, si ritrova in questa raccolta di
documenti …. (Da: EZLN – Documenti e comunicati dal Chiapas insorto Vol.1,
edizione BFS, Pisa pp. 26-27.
Il neo-zapatismo
Volendo segnalare alcuni degli elementi di questo pensiero ibridato e
perciò nuovo, possiamo ricordare la discontinuità rispetto alla teoria
del foco guerrigliero, una avanguardia “illuminata” che guida
alla conquista del potere e, una volta al potere costruisce, dall’alto un
improbabile “uomo nuovo”. Lo zapatismo ha optato chiaramente per una
orizzontalità nei rapporti politici e sociali, il rifiuto della delega a
rappresentanti che vivono separati dalla vita quotidiana dei militanti,
l’uguaglianza negli incarichi fra uomini e donne (l’occupazione di San
Cristóbal fu diretta da una “comandanta”); ha compiuto una
scelta anti-elitaria nell’esercizio del potere, che è detenuto dal popolo e
espresso dalle decisioni prese in assemblea e dove gli incarichi per
l’esecuzione delle decisioni sono di breve durata, non replicabili, rotativi e
comunque revocabili dalle stesse assemblee che li hanno devoluti e
soprattutto a persone che proseguono nella loro vita normale in mezzo alla
gente; una forma di educazione scolastica al comunitarismo e
all’internazionalismo i cui contenuti e modalità vengono definiti dalle
assemblee dei genitori; un esercizio della giustizia praticato col buon senso
delle “Giunte di buon governo” (vedi dopo) che nelle liti infra o
inter-comunitarie agiscono piuttosto come mediatori che autori di sentenze,
incentrato più sulla rieducazione che sulla punizione; una sanità basata più
sulla prevenzione e l’educazione di base che non una sanità specialistica (che
pure talora è necessaria). (Vedi La metamorfosi della lotta armata in Subcomandante
Marcos – Il sogno Zapatista di Yvon Le Bot, Mondadori,
Milano 1997, pp. 50-57)
Per concludere queste note è necessario spendere alcune parole sull’autonomia,
asse centrale della politica zapatista nei riguardi dello Stato. Per
fare questo compiamo un passo indietro, fino all’insurrezione armata, che fu
seguita dopo 12 giorni da una tregua imposta dalle imponenti manifestazioni
popolari nelle grandi città del Messico, seguita dall’inizio di una trattativa
di pace le cui prime mosse si tennero nella chiesa cattedrale di San Cristóbal
sotto la mediazione di Ruiz.
Gli obiettivi della rivolta, esposti in una Dichiarazione pubblica il
giorno 2, erano innanzi tutto un cambiamento profondo nelle politiche
governative e nei loro gestori e il soddisfacimento per tutti i messicani
bisognosi, cioè la grande maggioranza, di 11 esigenze riguardanti: lavoro,
terra, casa, cibo, salute, educazione, indipendenza, libertà, democrazia,
giustizia e pace. A questi nel corso delle trattative si aggiunse più
tardi quello, che divenne prioritario, dell’”autonomia” politica, che comunque
mai adombrò da parte zapatista l’eventuale secessione dallo Stato (“Mai più un
Messico senza di noi” fu uno dei lemmi dominanti), posizione fatta propria
dalla maggioranza delle altre etnie che fiancheggiarono le trattative e che, da
parte loro, avevano dato vita a un Congresso Nazionale Indigeno (CNI), alcuni
rappresentanti del quale fanno oggi parte della travesía .
Le trattative proseguirono per mesi, basate su un’agenda dei lavori in 5
punti, il primo dei quali aveva come tema Diritto e Cultura Indigena.
Su questo, nel febbraio del 1996 si giunse a un accordo sottoscritto dalle
parti, accordo che però il Governo federale, disconoscendo l’operato dei suoi
delegati, non accettò con la motivazione che il loro riconoscimento avrebbe
condotto a una “balcanizzazione” del paese.
Gli zapatisti non desistettero e attesero, in un contesto fortemente
conflittuale, l’elezione di un nuovo governo, prevista per il 2.000. Nelle
elezioni, per la prima volta dopo 71 anni, venne eletto un presidente non del
PRI, Vicente Fox Quesada del PAN (Partito
di Azione Nazionale), il quale in campagna elettorale aveva assicurato che
avrebbe risolto il problema del Chiapas in 15 minuti! Credendo di cogliere
qualche novità in alcune parole del nuovo presidente, nel 2001 22
comandanti indigeni con Marcos iniziarono una lunga marcia fino a Città del
Messico attraversando 12 Stati, con un percorso di 3mila km compiuto in 37
giorni durante i quali vennero realizzati 70 affollati incontri con le
popolazioni locali, giungendo il 28 marzo nello zocalo di
Città del Messico dove ad attendere c’era una immensa folla.
Arrivo a Città del Messico della marcha color de la tierra
Dopo una delicata e controversa trattativa, la delegazione zapatista fu
ammessa a parlare nel Congresso dei parlamentari messicani: dopo circa 180 anni
dall’indipendenza del paese (1821) – alla quale i popoli indigeni avevano dato
un grosso contributo di sangue restando tuttavia esclusi di fatto nella
gestione del nuovo Stato – era la prima volta che loro rappresentanti
prendevano la parola in questa assise, disertata nell’occasione da alcuni
congressisti per protesta contro questa “dissacrazione” del Congresso! A prendere
la parola, scandalo nello scandalo, fu un’indigena, la comandante Ramona, con
un discorso che resterà nella storia della nazione. Il Congresso promise a
maggioranza che gli accordi raggiunti sarebbero stati onorati con una apposita
legge ma quella che venne votata, dopo che gli zapatisti erano rientrati in
Chiapas, non corrispondeva alle attese. Gli zapatisti, delusi e
sconcertati, si chiusero in un lungo silenzio verso l’esterno e, durante due
anni, discussero al loro interno sul da farsi, con incontri nelle centinaia di
comunità, sparse nelle impervie montagne, che avevano preso parte alla
sollevazione.
L’autonomia
Autonomia è auto-organizzazione fuori dalle strutture statali. Alla fine di
questo lungo silenzio essi fecero sapere che avrebbero applicato
unilateralmente gli accordi firmati a San Andrès su Diritti e Cultura Indigena.
Con questo annuncio si ebbe una svolta ideologica e operativa dello zapatismo.
L’EZLN si metteva da parte, restando però vigile contro eventuali attacchi
armati, affidando alle comunità la gestione del nuovo corso.
Vennero costituiti 5 caracoles (chiocciole, la cui spirale
disegnata sul guscio ha un valore simbolico nella cultura maya), cioè 5 centri
organizzativi, ciascuno dei quali riuniva un certo numero di municipi autonomi
allora già esistenti nei territori in mano zapatista e ognuno dei quali
comprendeva a sua volta centinaia di piccole comunità sparse sui loro
territori. Ogni caracol era retto da una Giunta di buon
governo (JBG) che amministra la giustizia, il sistema scolastico e quello
sanitario e deve realizzare le direttive ricevute dalle assemblee tenute nei
municipi autonomi, i quali a loro volta erano retti da analoghe JBG. Gli
incarichi vengono assegnati assemblearmente secondo le regole prima esposte
(rotazione, breve durata, revocabilità). I componenti delle JBG dei caracoles vengono
nominati dalle assemblee municipali. (Vedi : Dai Municipi Autonomi alle Giunte
di Buon Governo – https://sites.unica.it/cisap/files/2018/04/Gas.. ). Oggi,
grazie all’iniziativa zapatista, il numero dei caracoles e dei
municipi autonomi è cresciuto (1919) ma ciò esula da queste note.
Questo sistema funziona ed è stato rodato nel corso ormai di 18 anni.
Naturalmente nulla va idealizzato. La realtà presenta sempre attriti col
desiderato, ma per quanto constatato personalmente fin quando sono potuto
andare e a quanto mi raccontano oggi, funziona. E’ ripetibile in altri luoghi?
Direi di no: ogni contesto deve trovare le sue regole. Nel libro “Alba di
mondi altri” e in altri suoi libri, l’uruguaiano Zibechi descrive
esperienze di autonomia in molti contesti latinoamericani, dai quali emergono
soluzioni varie che però tutte hanno nelle assemblee di base il perno
centrale. Gli zapatisti, da parte loro, hanno detto e ripetuto che essi
non si propongono come modello da imitare, salvo che in una cosa: dimostrare che
quando esiste la volontà di liberarsi dal giogo del sistema per sperimentare
modi di vita alternativi, per difficile che questo sia, ciò è possibile.
In questi 18 anni i caracoles non si sono chiusi al mondo
e anzi i vari caracoles, a turno, sono stati teatro di
incontri nazionali e internazionali, fra i quali spicca l’iniziativa
delle escuelitas zapatistas, quando 1500 persone di vari
paesi hanno frequentato nelle scuole zapatiste un corso sul tema La
libertà secondo gli e le zapatiste, ricevendo ciascuno 4 libri di testo
e 2 DVD (vedi https://www.globalproject.info/it/mondi/messico-escuelita.zapatista…),
esperienza alla quale fece seguito nel 2015 un corso di secondo livello.
Sempre nel 2015, alla Università della Terra, situata nelle vicinanze di San
Cristóbal, si è tenuto un lungo seminario (3-9 maggio) dal titolo Il
pensiero critico di fronte all’idra capitalista con la
partecipazione di studiosi e leader sociali di vari paesi (gli atti sono
consultabili nel sito https://enlacezapatista.ezln.org.mx). Fra
i molti altri eventi di particolare rilievo ricordiamo il Primo
Incontro Internazionale Politico, Artistico, Sportivo e Culturale delle donne
che lottano tenutosi nel caracol di Morelia nel
marzo 2018 a cui parteciparono migliaia di donne di vari paesi del
mondo e al quale fece seguito un Secondo Incontro a cavallo fra la
fine del 2019 e l’inizio del 2020.
Lo zapatismo oggi
Lo zapatismo è un pugno di sabbia gettato 27 anni or sono negli
ingranaggi del sistema capitalista, che oggi per molto aspetti mostra segni di
usura pur restando potente nella sua azione distruttrice. Per questo il governo
del presidente “progressista” AMLO, che si gloria di star realizzando la
Quarta Trasformazione storica del paese usando però criteri economici
capitalisti, stringe il laccio attorno alle comunità zapatiste e, proprio mentre
la delegazione zapatista è in Europa, le violenze dei gruppi paramilitari mai
neutralizzati, anzi sempre incoraggiati quando non addirittura promossi dalle
autorità sia Statali che Federali, stanno facendo temere un ritorno alla guerra (vedi
l’articolo di Gustavo Esteva Ultima chiamata per il Chiapas su Comune-info: https://comune-info.net/ultima-chiamata-per-il-chiapas .
Un motivo di più per incontrare e solidarizzare le e gli zapatisti.
Post-scriptum
Il filosofo argentino Henrique Dussel, oggi messicano, in occasione dei
festeggiamenti per il 500 anniversario della “scoperta” dell’America tenne una
serie di conferenze in Europa in cui contrappose alla scoperta delle terre
l’occultamento dei loro abitanti, cioè dell’altro, del diverso, del
non ‘occidentale’, come abbiamo accennato all’inizio.
In questo incontro con gli zapatisti non incontriamo un altro noi,
in lotta per diventare come noi, credenza spesso presente
nell’immaginario occidentale. Non storcete la bocca, ma è così:
incontrando questi e queste zapatiste noi incontriamo altri,
uno dei tanti altri che l’Occidente nella storia della
Modernità ha negato, oppresso, distrutto.
Non è chi scrive a dirlo, sono gli stessi zapatisti. Nel saluto di
benvenuto ai partecipanti dell’Incontro definito auto-ironicamente
Intergalattico, organizzato dagli zapatisti nell’agosto 1996 nella Selva
Lacandona, che simboleggiò ma anche iniziò di fatto la riapertura della storia
delle resistenze al capitalismo, la comandante Ana Maria affermò: “Siamo
uguali perché diversi“. Un ‘perché’ problematico. Un’espressione che ho
sentito talvolta ripetuta perché insolita, conturbante ma forse inesplorata nel
suo vero significato. Eppure qui c’è uno dei nuclei forti, culturalmente
rivoluzionari del pensiero zapatista, che si contrappone all’universalismo
astratto del pensiero moderno, che forse è solo un’espressione del nostro modo
occidentale di considerare universale ciò che è solo nostro.
Il paradosso “perché” suggerisce che l’uguaglianza non deve più essere
definita a dispetto delle supposte differenze che la
ostacolano bensì a partire dal loro pieno riconoscimento.
L’immagine è forte. Mentre l’universale pretende di produrre delle identità
rendendo le differenze indifferenti, il comune viene qui pensato a partire
dalle esistenze concrete e dalle loro singolarità vale a dire nella trama
delle loro diversità, senza mai astrarsene. È questo che fa tutta la differenza,
senza mai astrarsene. È ciò che costituisce tutto lo scarto fra l’universale
dell’Uno e un ‘comune’ planetario sperimentato nella sua molteplicità
costitutiva. (J.Bachet, Basculements – Mondes emergents, possibile
desirables, La Decouverte, Paris 2021, p.172)
A questo “universalismo europeo” (Wallerstein) gli zapatisti, con la
formula “un mundo donde quepan muchos mundos“, hanno
contrapposto la ricchezza di un mondo che “contiene molti mondi
diversi”. L’elogio della pluralità dei molti modi di essere dell’homo
sapiens, da affermare con forza oggi perché, passando per i robot come
stadio intermedio e ancor prima di essi gli iphones, si sta trasformano l’uomo
di carne, materia vivente parte dell’universo vivente, in “uomo di acciaio inox
e silicone”, con un chip al posto di un cervello vivente. In un bel saggio in
cui si analizza la trasformazione in corso grazie alle tecniche digitali, Visioni
del mondo in collisione. La sfida dell’ingegneria genetica, l’autore, Scott
Eastham, insinua un dubbio drammatico: “Forse prima di lasciare alla scienza
moderna l’ultima parola sull’evoluzione dell’homo sapiens, abbiamo
bisogno di ascoltare altre culture e di sperimentare degli altri modi di
“essere” umani”. (Visioni del mondo in collisione – Interculture Italia
http://www.interculture-italia.it › index2).
A chi scrive piace pensare che il viaggio degli zapatisti attraverso i 5
continenti possa essere l’inizio di questa consultazione planetaria fra
diversi, appartenenti a un’unica razza, quella umana, sul futuro dell’homo
sapiens.
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