La fabbrica è come un grande bestione addormentato, con un metabolismo basale ridotto al minimo per evitare che dal letargo passi, velocemente, a miglior vita. Lo avverti soprattutto alla notte, sotto la luce dei riflettori che illumina gli ampi spazi esterni animati dalle decine di persone, tra operai e solidali, mobilitati per evitare che la Gkn diventi bersaglio di una proprietà che, dopo aver cercato di azzerarla, potrebbe farla sgomberare con ogni mezzo necessario.
Il 9 luglio, quando il consiglio di amministrazione del fondo Melrose
decise di chiudere lo stabilimento da un giorno all’altro con una semplice
email, è stato il primo momento in cui si è concretizzato l’avviso comune
firmato dalle parti sociali poco più di una settimana prima a Roma che,
sbloccando i licenziamenti, ha di fatto aperto le cataratte di un’alluvione
ormai alle porte del sistema Italia.
Al nome Gkn si sono associati la Gianetti Ruote di Ceriano Laghetto, la
Timken di Brescia, con i licenziamenti oramai confermati dal fondo finanziario
Quantum, e che si va ad associare alle decine di crisi industriali che vedono,
tra i casi oramai storici, la Whirlpool di Napoli.
In attesa delle prossime crisi e che alla fine di ottobre si sblocchi il
comparto tessile e abbigliamento, con effetti che impatteranno anche a pochi
chilometri dalla stessa Gkn, nel comprensorio tessile di Prato.
Spesso le metafore belliche banalizzano le questioni sociali e politiche,
ma la posizione di Confindustria non può non essere considerata un vero e
proprio atto di guerra contro il mondo del lavoro.
Dopo aver preteso la continuità della produzione anche nei momenti peggiori
della pandemia, oggi da viale dell’Astronomia l’ulteriore pretesa è che i costi
della crisi siano pagati da lavoratrici e lavoratori, oramai variabile
dipendente dai profitti e dai dividendi degli azionisti.
E il caso Gkn è diventata la prima linea di questo scontro frontale, dove
la lotta di classe portata avanti dall’unica classe con piena consapevolezza di
esserlo spinge a una sempre maggiore precarizzazione e frantumazione del mondo
del lavoro.
Aver sbloccato i licenziamenti è stato l’omaggio portato a Confindustria
come scorciatoia per l’uscita dalla crisi, scaricandone i costi sociali sulla
collettività.
E averlo fatto dopo decenni disarticolazione dei diritti del lavoro, non ultimi
il Jobs Act e l’ulteriore indebolimento dei contratti a tempo determinato
deciso nel luglio scorso, mentre dal Governo e Parlamento fioccava la
solidarietà agli operai Gkn, è da considerarsi non solo irresponsabile, ma ai
limiti del criminale, perché conferma la visione neoliberista e opportunistica
del Governo dei migliori. Si è preferito correre nel lasciare mano libera alle
imprese, mettendo in secondo piano le vere priorità: una seria riforma del
welfare, o questioni come il reddito universale, il salario minimo e la
riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario.
Il tutto, tra l’altro, senza un vero e proprio piano industriale capace di
dare gambe a una reale conversione ecologica nonostante le decine di miliardi
del PNRR e all’interno di un sistema in cui non esistono tutele dalla facilità
di delocalizzare e dalla libera circolazione dei capitali.Ma averlo fatto, per
di più, senza una visione di Paese è da considerarsi non solo irresponsabile,
ma ai limiti del criminale.
La bozza di decreto Orlando – Todde è figlia di questo disastro, nata con
l’obiettivo retorico di spingere sulla responsabilità sociale delle imprese, ma
senza nessun vero impianto sanzionatorio per chi decide di chiudere per
produrre altrove, con un approccio solamente procedurale e per nulla politico
della gestione delle questioni aziendali.
Con l’alibi, contestabile, che le normative europee, ispirate agli
indirizzi dell’Organizzazione Mondiale del Commercio, impedirebbero limiti alla
libertà di impresa all’interno dei confini dell’Unione Europea, favorendo la
competizione tra i Paesi UE tra chi è capace di attrarre più investimenti.
Del resto se in Polonia il costo del lavoro è più basso, i diritti meno
tutelati e l’energia meno costosa (anche per l’ampio ricorso al carbone come
fonte energetica) le imprese là guardano per consolidare i propri profitti.
E l’ulteriore baluardo di chi difende l’indifendibile, al di là delle norme
europee, è l’’interpretazione faziosa della nostra Costituzione, perché se è
vero che l’articolo 41 sottolinea che “l’iniziativa economica privata è libera”
si omettono altre parti rilevanti della Carta costituzionale, come il fatto che
non possa svolgersi in contrasto con l’utilità sociale e che non possa recare
danno alla dignità umana, e si tende sempre a omettere l’articolo 42, dove si
sottolinea che una volta persa la funzione sociale, la proprietà può persino
essere espropriata dallo Stato.
E l’indennità? Potrebbe non essere automatica, secondo alcune
interpretazioni giuridiche, come quelle dell’ex giudice della Corte
Costituzionale Paolo Maddalena.
E la rimozione, chissà perché, c’è anche per altri articoli come il 4 o il
36, dove si fa presente che l’occupazione dovrebbe garantire un’esistenza
libera e dignitosa. Lapsus ben poco freudiani e molto funzionali a
un’interpretazione ideologica del diritto costituzionale e del diritto del
lavoro.
La vertenza Gkn apre uno spazio politico senza precedenti che va oltre la
necessaria difesa di un futuro per i 500 lavoratori e lavoratrici coinvolti.
Rimette al centro di un Paese normalizzato dai conflitti la questione dei
rapporti di forza tra capitale e lavoro e tra capitale e pianeta, e la
necessità di cominciare a lavorare in modo serrato per un loro ribaltamento.
In questo un ruolo fondamentale dovrà essere giocato dai territori e dalle
loro comunità, dove gli impatti del liberismo e della libertà di fare profitti
sono più pesanti: non sarà sufficiente creare gruppi di sostegno al collettivo
di fabbrica Gkn e iniziative locali di mobilitazione e di sensibilizzazione, ma
si dovranno creare le condizioni per una messa in rete di tutte le vertenze del
territorio per far crescere una massa critica capace di opposizione sociale e
di visione alternativa.
Sarà solo una prima tappa, in questo periodo distopico di pandemie della
nuova era dell’antropocene, ma un piccolo passo è sempre un ottimo incipit
della lunga marcia che tutte e tutti siamo chiamati ad affrontare, dove le
parole conflitto, ribaltamento dei rapporti di forza, diritti del lavoro e
trasformazione ecologica dovranno diventare l’asse trainante dell’alternativa
sociale che bisognerà mettere in piedi.
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