Lo avevamo detto in tempi non sospetti (Città e Comuni: quando ce li riprendiamo?) ora è certificato: uno degli effetti della pandemia è il collasso dei Comuni, ovvero degli enti di prossimità degli abitanti di ogni territorio.
É in pieno svolgimento la 19esima edizione della “Settimana europea
delle Regioni e delle città”, evento annuale organizzato dal Comitato
delle Regioni Ue a Bruxelles.
All’interno dei lavori è stato presentato l’ultimo rapporto relativo
all’impronta della pandemia sulle amministrazioni locali.
I risultati sono inequivocabili: stretti tra le maggiori spese da sostenere
per far fronte all’emergenza e le mancate entrate dovute alla crisi, gli enti
locali a livello europeo sono oggi di fronte a un buco di bilancio di
180 miliardi, pari alla somma delle maggiori spese dovute alla
pandemia (125 miliardi) e delle mancate entrate (55 miliardi).
All’interno di questo infausto quadro, il nostro Paese figura al secondo
posto, dietro la Germania, con un buco nelle casse degli enti locali di
22,8 miliardi di euro.
Dopo due decenni di trappola del debito e conseguenti politiche di
austerità, nei quali i Comuni si sono visti ridurre drasticamente il personale,
azzerare le possibilità di investimento e decuplicare il taglio di risorse (da
1,65 mld del 2009 ai 16,665 del 2015), il conto della pandemia sopracitato
rischia di essere una sentenza definitiva per la funzione pubblica e sociale
delle amministrazioni locali di prossimità.
La pandemia, spiega il rapporto, “avrà degli effetti a lungo
termine sulle strutture socio-economiche delle regioni europee (..) e il fatto
che le conseguenze possano farsi sentire ancora a lungo dipende dalle
caratteristiche strutturali di un’area e dalla velocità della ripresa dei
settori più colpiti”.
Se pensiamo al fatto di come, già all’inizio della pandemia, ben 1083
Comuni su un totale di 7904 si trovassero in condizione di dissesto o
pre-dissesto finanziario, la drammaticità della situazione dovrebbe risultare
più che evidente.
Il paradosso è che proprio la pandemia, avendo messo in crisi un sistema
iperglobalizzato, obbliga a riscoprire la centralità dei territori, dei Comuni
e delle città come fulcri di un nuovo modello sociale e ambientale.
Se questo è il quadro, sarebbe logico aspettarsi che, all’interno del PNRR
e dei fondi del Next Generation Eu, città e Comuni assumano un ruolo centrale
in termini di progettualità, investimenti a lungo termine, risorse a
disposizione.
Niente di tutto questo. Il governo Draghi sta invece predisponendo -come da
“condizionalità” imposte dalla Commissione Europea – il disegno di
legge sulla concorrenza e il mercato, all’interno del quale viene
prevista un’ulteriore spinta verso la privatizzazione dei servizi pubblici
locali, stabilendo che esternalizzazione e/o affidamento ai privati siano
l’ordinarietà, mentre la gestione diretta dei servizi da parte dei Comuni debba
essere adeguatamente motivata.
Con le politiche di austerità si sono messi i Comuni con le spalle al muro.
Ora arriva l’affondo per costringerli a mettere sul mercato tutti quei servizi
che sinora erano riusciti a rimanerne fuori. Annunciando una ripresa che
riguarderà solo gli utili degli azionisti finanziari e auspicando una resilienza –
che vuol dire muta rassegnazione – delle comunità locali.
In questa situazione, tocca persino ascoltare il quotidiano chiacchiericcio
su giornali e talk show, nei quali politici e opinionisti si arrovellano per
capire le ragioni del massiccio astensionismo alle recenti
elezioni amministrative.
Proponiamo loro di rispondere a due semplici domande: perché andare a
votare sindaci e consiglieri comunali se le risorse a disposizione dei Comuni sono
vicine allo zero? Quale utilità sociale hanno amministratori locali il cui
unico compito è tagliare la spesa sociale e privatizzare beni comuni e servizi
pubblici?
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