Qualcuno si sarà sicuramente stupito vedendo le
attiviste e gli attivisti per la giustizia climatica e sociale occupare per due
giorni Piazza Affari, sede della Borsa di Milano, durante i giorni della
preCop26. Siamo infatti abituati a vedere mobilitazioni contro una centrale a
carbone, o un gasdotto, o una fabbrica inquinante. E, per contro, la narrazione
dominante, quando parla di riscaldamento globale, racconta una versione
colpevolizzante, secondo la quale sarebbero i nostri comportamenti individuali,
fra loro sommati, a produrre i danni che vediamo, costringendo a considerarci
tutti sulla stessa barca. Per arrivare infine al ministro Cingolani, secondo
cui la transizione ecologica è solo l’occasione per una riverniciatura verde e
digitale del modello capitalistico.
Perché dunque Piazza Affari? Perché
come diceva, su un altro versante, il giudice Giovanni Falcone “follow
the money”, ovvero segui il denaro, per capire chi realmente comanda e
prende le decisioni.
D’altronde, come mai un’affermazione così semplice e
saggia come quella che dice: “Uscire dal fossile subito per salvare
il pianeta” fatica a divenire scelta politica concreta e pratica
condivisa da qualsiasi parte si guardi il mondo?
Perché alcuni soggetti -banche, assicurazioni, fondi
di investimento finanziari, multinazionali e i governi al loro servizio-
pensano che le persone debbano essere divise in vite degne e vite da scarto,
che viventi e natura esistano solo come oggetti da cui estrarre valore
finanziario, che l’accumulazione di profitti sia l’unico faro di
un’organizzazione della società basata sul dominio.
E continuano a finanziare l’industria fossile e ad
alimentare i mercati finanziari del carbonio.
Solo per dare un dato, dal 2015 (anno degli accordi di
Parigi sul clima) ad oggi, le principali 35 banche del mondo hanno
investito nel fossile 2.700 miliardi di dollari, e hanno moltiplicato i
finanziamenti nella ricerca di petrolio e gas nell’Artico e nell’estrazione
offshore.
In questo non invidiabile campo, i campioni italiani
sono Intesa Sanpaolo, primo gruppo bancario italiano e fra i primi
trenta a livello mondiale; Unicredit, seconda banca italiana e
tra le più importanti a livello europeo; Assicurazioni Generali,
principale compagnia assicurativa nazionale.
Per restare ai dati del solo 2019, la finanza italiana
ha causato 90 milioni di tonnellate di CO2 equivalenti, 75 milioni delle quali
sono da attribuire a Intesa Sanpaolo e Unicredit.
Qualcuno potrebbe pensare che siamo di fronte a una
dittatura dei privati, dentro la quale i poveri governi non possono far altro
che abbozzare. Non è così, perché il vero triangolo dell’industria fossile è il
seguente: l’industria fossile costruisce, la finanza privata
sovvenziona e la finanza pubblica garantisce. E’ esattamente questo il
ruolo ricoperto da Sace, agenzia pubblica di credito
all’esportazione, del gruppo Cassa Depositi e Prestiti, recentemente passata
sotto il controllo del Ministero dell’Economia e delle Finanze, che, nel solo
periodo 2016-2020, ha supportato i settori del petrolio e del gas con 8,6
miliardi di euro.
C’è dunque una verità paradossale dentro la narrazione
che attribuisce alla collettività la responsabilità del riscaldamento
climatico: è con i soldi di tutte e tutti noi che il sistema si garantisce la
leva finanziaria.
Riappropriarsi di quella ricchezza sociale per
destinarla ad una giusta transizione ecologica non è più il desiderio di
qualche utopista, ma una stringente e concreta necessità.
Le attiviste e gli attivisti di Milano lo hanno
capito. A tutte e tutti noi decidere da quale parte stare.
*articolo pubblicato per la Rubrica Nuova Finanza Pubblica su il manifesto del 9.10.2021
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