Un’analisi scientifica delle ragioni del fallimento
nel contrasto al Covid oltre le contrapposte tifoserie della narrazione
governativa e delle tesi No vax
Secondo i dati aggiornati al 24 settembre 2021
l’Italia, con oltre 130.000 morti, è al nono posto come numero totale di
decessi per Covid ufficialmente registrati (fonte OMS). La Lombardia, con 33.981 decessi (fonte Ministero della Salute
– Istituto Superiore di Sanità 18/9/2021) su una popolazione di 10milioni, se
fosse una nazione indipendente, come era negli obiettivi di Umberto Bossi
qualche decennio fa, sarebbe al secondo posto come numero di decessi per Covid
ogni 100.000 abitanti, superata solo dal Perù, il cui Servizio Sanitario non
può certo essere confrontato con quello lombardo.
So bene che il sistema di registrazione cambia
da Paese a Paese e che in nazioni come l’India, solo per fare un esempio, le cifre
probabilmente sono ampiamente sottostimate; sono altrettanto consapevole che
non è scientificamente corretto confrontare i dati di una regione con i dati di
intere nazioni, ma credo che un confronto simile, fuori dall’ambito accademico,
ci sia utile per comprendere la gravità dell’impatto che la pandemia ha avuto e
tuttora ha, in Italia, ma soprattutto in Lombardia. Le giunte di destra che
dall’epoca di Formigoni, dal 1995, governano ininterrottamente la regione,
hanno sempre celebrato la sanità lombarda come la migliore in Italia e tra le
eccellenze europee, ma il fallimento nel contrasto al Coronavirus è sotto gli
occhi di tutti.
Le ragioni di questo disastro sono uno dei
temi principali del mio libro “Senza
Respiro. Un’inchiesta indipendente sulla pandemia Coronavirus, in Lombardia,
Italia, Europa” (Altreconomia, 2020); in
questa sede, per questioni di spazio, non posso soffermarmi sulle ragioni di
questa Caporetto ma solo citarne alcune: la distruzione della medicina
territoriale, la riduzione ai minimi termini dei servizi di prevenzione,
l’ignoranza sul ruolo dell’epidemiologia, l’enorme peso della sanità privata
nel Servizio Sanitario Regionale, una gestione del Servizio Sanitario pubblico condotta
secondo le logiche, gli obiettivi e gli interessi di un Sevizio Sanitario
privato ed infine una medicina centrata in gran parte sulle cure d’eccellenza,
innovative ed estremamente costose, che non solo ha ignorato ogni forma di
medicina di comunità e di continuità assistenziale, ma ha anche prosciugato le
risorse da destinare all’assistenza sanitaria quotidiana dell’insieme della
popolazione.
La vicenda lombarda rappresenta il trionfo del
neoliberismo applicato alla sanità, nonostante ciò, fino all’inizio della
pandemia la grande maggioranza delle forze politiche nazionali, non solo di
centrodestra, prendeva tale modello come esempio da esportare in altre regioni
e a livello nazionale. Per questo motivo sarebbe stato fondamentale ragionare
sulle ragioni del fallimento lombardo, così come sugli errori commessi a
livello nazionale, per correggere velocemente la rotta, ma purtroppo non sembra
questa la direzione intrapresa.
La scienza e i diritti contro
le tifoserie
Il dibattito attorno alla pandemia in Italia è
stato trasformato in un rodeo con due tifoserie contrapposte incitate all’odio
reciproco: da un lato la narrazione ufficiale gestita dal governo e supportata
acriticamente dai suoi apparati tecnico-scientifici, dall’altro il racconto che
rimbalza dai numerosi siti no-vax. Non credo di essere l’unico a trovarsi
fortemente a disagio di fronte a questa semplificazione nella quale ci viene
intimato da ambedue le parti: o sei con noi o sei contro di noi.
Sono convinto che esista uno spazio per una
posizione che si attenga alle evidenze scientifiche, che sia in grado di
valorizzare gli insegnamenti pluridecennali che provengono dai corsi di
specializzazione in sanità pubblica, che mantenga fede all’idea della salute
come diritto fondamentale di ogni essere umano e al progetto di un Servizio
Sanitario Nazionale (SSN) universale.
Nell’intento di contribuire a costruire questo
spazio, mi limito ad elencare schematicamente, anche per ragioni di lunghezza,
alcuni dei principali limiti ed errori che caratterizzano la gestione
dell’attuale fase pandemica.
I principali errori
1. La vaccinazione è uno
strumento fondamentale e per questo motivo, in una condizione pandemica, per
raggiungere la massima efficacia è necessario renderla disponibile nel minor
tempo possibile in tutto il mondo; l’Oms ha segnalato
l’insostenibilità di un sistema nel quale 10 nazioni hanno acquistato il 75%
delle dosi di vaccino disponibile a livello mondiale, con il risultato che nei
Paesi a basso e medio-basso reddito la percentuale delle persone vaccinate
varia dal 1,9 al 4%; ne consegue che non solo in quelle nazioni aumenterà
incessantemente il numero dei morti, ma anche che il virus continuerà a
diffondersi, si moltiplicherà, emergeranno delle varianti maggiormente
aggressive destinate ad arrivare anche nei nostri Paesi e noi non sappiamo
quanto i vaccini, dei quali disporremo in quel momento, saranno in grado di
contrastarle.
Da queste ragioni, se non in nome della
solidarietà, almeno in nome di un “sano egoismo”, come ha dichiarato il prof.
Silvio Garattini, nasce l’urgenza di appoggiare la proposta di moratoria
temporanea sui brevetti per i vaccini, i kit diagnostici e la condivisione del
know-how, avanzata da India e Sudafrica all’Organizzazione Mondiale del
Commercio e appoggiata da oltre cento Paesi; per questo oltre centoventi
associazioni, tra le quali tutte le organizzazioni sindacali italiane, stanno
sostenendo la raccolta di un milione di firme a livello europeo attraverso lo strumento dell’ICE (Iniziativa dei Cittadini
Europei) che, una volta raccolte le firme necessarie, obbligherà la Commissione
Europea a sottoporre le nostre proposte alla discussione e al voto delle
istituzioni europee: Parlamento, Consiglio e Commissione.
Infatti, l’UE è rimasta, con Svizzera e UK,
l’unica a rifiutare ogni proposta di moratoria e a difendere gli interessi di
Big Pharma; il nostro governo, al di là delle dichiarazioni fatte a uso di
un mainstream mediatico compiacente, sostiene attivamente e
irresponsabilmente questa posizione, anteponendo i profitti delle
multinazionali del farmaco alla salute dei propri cittadini. Il rischio è
evidente: potremo anche essere tutti vaccinati ma, se arriverà una nuova
variante contro la quale i vaccini non saranno efficaci o saranno solo
parzialmente efficaci, tutto rincomincerà da capo, lockdown e decessi.
2. La comunicazione istituzionale
o para-istituzionale, continua a essere un disastro con risultati spesso
controproducenti; un solo esempio: aver affermato per mesi che il
vaccino avrebbe bloccato la trasmissione dell’infezione, senza invece spiegare
che le percentuali di efficacia citate si riferivano alla capacità di bloccare
il passaggio dall’infezione alla malattia grave, ha fatto sì che quando si sono
verificate le prime infezioni di persone vaccinate, i no-vax abbiano avuto buon
gioco nel sostenere che i vaccini non funzionavano. Eppure già il 20 novembre
2020 si sapeva che i trial di ricerca avevano testato l’efficacia nel bloccare
l’evoluzione della malattia e non la trasmissione del virus ( mia diretta facebook del 23/11/2020). Una spiegazione corretta avrebbe reso più semplice alla
popolazione comprendere perché anche alle persone vaccinate debba essere
raccomandato di rispettare le norme sui distanziamenti e sull’uso della
mascherina.
Stesso ragionamento si può fare sulla mancanza
di informazioni corrette e complete sui possibili effetti collaterali dei
vaccini; la decisione di ignorarli, o comunque sottovalutarli, nella
comunicazione ufficiale si è scontrata con l’esperienza quotidiana di migliaia
di persone, generando paura e sfiducia verso le istituzioni. Come testimoniano alcune
ricerche, metà, se non di più, di coloro che a oggi non si sono sottoposti alla
vaccinazione non sono ideologicamente no-vax, ma hanno paura e vorrebbero
spiegazioni più precise e meno confuse; esattamente il contrario di quello che
sta accadendo. Sarebbe inoltre corretto che i medici che compaiono spesso in
televisione, così come le fondazioni e i centri di ricerca che con grande
frequenza esprimono pareri e forniscono elaborazioni di dati, dichiarino
preventivamente se ricevono fondi dalle aziende che producono vaccini:
trasparenza e correttezza di rapporto con il pubblico dovrebbero essere
elementi insostituibili.
Per fermare una pandemia è necessario
modificare dei comportamenti legati alla quotidianità, per fare questo è
fondamentale un rapporto di fiducia da parte della popolazione verso le
istituzioni sanitarie; chi tratta i propri cittadini come dei bambini ai quali
è meglio non dire tutta la verità non può sperare di godere di fiducia da parte
di costoro.
3. Con la circolare retroattiva del 6 aprile
l’INPS ha annunciato che le quarantene di coloro che sono venuti
in contatto con un positivo non potranno più essere pagate perché il governo ha
stanziato i fondi solo fino al 31 dicembre 2020: un autogoal incredibile per
una strategia nazionale di prevenzione. Ne consegue non solo una
discriminazione di classe, infatti chi svolge un lavoro manuale non avrà la
possibilità di fare smart working e rischia di restare a
casa senza stipendio, ma anche un danno alla salute collettiva: infatti
spingerà molte persone a nascondere eventuali contatti e ad andare ugualmente a
lavorare per non perdere giorni di paga. Tale situazione per ora resta ancora
sospesa in attesa, si spera, di un urgente intervento riparatore da parte del
governo.
4. La vaccinazione è importante
ma non sufficiente. Oltre alle misure di precauzione resta fondamentale il
tracciamento (contact tracing) per seguire la catena di trasmissione del virus
e per isolare le persone positive evitando ulteriori contatti. È la
base di qualunque strategia di sanità pubblica di fronte a una pandemia; ma,
dopo una fase dove è stata seguita a macchia di leopardo, oggi in Italia è
stata completamente abbandonata; la decisione è ancor più grave quando, come
nella situazione attuale, si dispone di vaccini che solo parzialmente evitano
la trasmissione del virus. Per questa stessa ragione è anche importante rendere
disponibili gratuitamente i tamponi invitando la popolazione a
farvi ricorso, ogni qualvolta si ritenga di poter aver avuto un contatto a
rischio.
Il tampone e il vaccino non sono
sovrapponibili: il vaccino protegge dall’evoluzione della malattia e in parte
dall’infezione, ma non dice nulla sulla situazione clinica hic et nunc;
il tampone indica se una persona in quel momento è positiva e può quindi trasmettere
il virus. I due strumenti dovrebbero essere integrati fra loro in una logica di
complementarità. Rinunciare alla gratuità del tampone perché questo offrirebbe
una ragione in più ai no-vax per non vaccinarsi, è una visione miope e foriera
di ulteriori disastri.
5. L’annuncio dell’imminente avvio di una
terza vaccinazione per i fragili, per gli anziani e a seguire per il personale
sanitario ed infine per tutta la popolazione (che in alcune
regioni è stata già avviata) non tiene in minima considerazione i
reiterati appelli dell’OMS e le dichiarazioni dell’EMA e della FDA. L’OMS
ha chiesto a tutti i governi di valutare che per l’interesse collettivo
dell’umanità la priorità non è la terza vaccinazione nei Paesi ricchi, ma
rendere disponibili i vaccini nel terzo mondo. Il nostro esecutivo ha
totalmente ignorato questo autorevole richiamo; ma ha ignorato anche la
dichiarazione dell’EMA e della FDA del 17 settembre sulla necessità di eseguire
ulteriori approfondimenti prima di prevedere un uso generalizzato della terza
vaccinazione, limitandola per ora alle persone fragili e agli anziani. Nella
medesima direzione va un lavoro scientifico pubblicato il 13 settembre su The Lancet da importanti ricercatori, tra i quali Philip R Krause,
Vicedirettore FDA (Ufficio per la ricerca e la revisione dei vaccini).
Le motivazioni citate a sostegno di tale
cautela sono varie, tra queste:
– insufficienza dei dati sulla
terza dose forniti dalle aziende produttrici;
– necessità di approfondire ulteriormente la durata e la potenza della risposta
immunitaria compresa quella cellulo-mediata, sia verso la capacità protettiva
verso l’infezione, sia verso l’evoluzione della malattia, le due risposte
infatti non sembrerebbero sempre viaggiare in sintonia tra loro;
– importanza nel monitorare precocemente e con continuità il manifestarsi di
nuove varianti verso le quali accelerare la ricerca di nuove versioni di
vaccini in grado di contrastarle;
– evitare di utilizzare per la terza vaccinazione il prodotto precedente che
potrebbe presto risultare superato con una perdita significativa di efficacia e
che renderebbe impossibile poter procedere in tempi brevi con un’ennesima
quarta vaccinazione. La raccomandazione, che arriva dal mondo scientifico
internazionale, sottolinea l’importanza di procedere attraverso un approccio
che tenga conto dello stato attuale delle conoscenze, ancora limitate e che si
rivolga a fasce specifiche di popolazione senza coinvolgere, per ora, l’intera
cittadinanza.
Attenzioni ancor più necessarie alla luce di
quanto sta già avvenendo in Israele dove è all’ordine del giorno il dibattito
sulla quarta dose.
Tutti questi ragionamenti, che dovrebbero
suggerire cautela, non sembrano scalfire minimamente le certezze dei nostri
ministri, né stimolare qualche presa di posizione di quel che resta del CTS che
pare sempre più appiattito su compatibilità dettate dal quadro politico.
La pressione di Big Pharma in questa direzione
è molto forte, eppure, non dovrebbe sfuggire né al mondo politico, né al mondo
scientifico una semplice banalità: le grandi multinazionali farmaceutiche
produttrici di questi vaccini e che operano in un sistema oligopolistico, non
hanno come interesse prevalente l’eradicazione della pandemia, bensì
il passaggio da una condizione di pandemia a una situazione endemica che
permetta loro di moltiplicare per 4-6 volte e forse di più il prezzo dei
vaccini e di procedere con una vaccinazione periodica (ogni 9-15 mesi) nel
mondo ricco che garantisca loro immensi profitti. Lasciando ovviamente il sud
del mondo al proprio destino di morte.
La mancanza di una visione
strategica sul Servizio Sanitario Nazionale
La gestione dell’attuale fase della pandemia
s’intreccia con il dibattito sulla riorganizzazione del Servizio Sanitario
Nazionale e sull’uso delle risorse provenienti dell’Europa. Su questo grande
capitolo, che riguarda il nostro futuro, sarebbe necessario un approfondimento
specifico; in questa sede mi limito ad evidenziare alcuni dei principali limiti
che si stanno evidenziando a livello nazionale e in Lombardia.
A livello nazionale. Nonostante il Recovery Plan nasca dall’emergenza pandemica, i
fondi che complessivamente arriveranno all’Italia destinati alla sanità
rappresentano una piccola quota della cifra totale che riceverà il nostro
Paese. Altri sono gli interessi che hanno avuto il sopravvento e alcuni di
loro, ad esempio le grandi opere, sono in forte continuità con quel modello di
sviluppo (deforestazione massiccia, allevamenti intensivi, abbattimento delle
barriere tra le specie e quindi zoonosi ecc. ecc.) che da qualche decennio
regala (e continuerà a regalare) all’umanità le pandemie. Ciò nonostante, mai,
nel recente passato, si è avuta una tale disponibilità di soldi per interventi
in campo sanitario; l’occasione è unica per individuare le nuove priorità del
SSN e una conseguente riorganizzazione, se solo si avesse una visione
strategica sulla sanità che nel governo italiano, oggi, non esiste.
Quelli che seguono sono alcuni dei punti
essenziali, senza una pretesa di completezza, di una necessaria rivisitazione
del nostro SSN:
– passaggio da una medicina
concentrata solo sull’individuo a una medicina di comunità fondata sulla
programmazione sanitaria;
– individuazione dei bisogni
prioritari di ogni territorio attraverso ricerche epidemiologiche finalizzate
alla costruzione di programmi con precise priorità i cui risultati siano
verificabili di anno in anno;
– coinvolgimento dei comuni e dei
sindaci all’elaborazione dei piani di salute territoriale; potenziamento della
prevenzione, della sanità territoriale e delle cure primarie;
– centralità dei distretti
socio-sanitari e delle strutture intermedie fra le quali le case di comunità;
– riduzione della presenza del
privato e soprattutto modifica del rapporto pubblico-privato il quale deve
inserirsi nella programmazione territoriale con indicazione e verifica dei
risultati attesi;
– potenziamento e adeguamento dei
dipartimenti d’emergenza e quindi delle strutture ospedaliere nei territori ove
sono carenti ecc.
Gli interventi individuati dal ministero non
contengono alcun disegno complessivo inserito in una visione strategica della
sanità per il futuro prossimo, ma si limitano a tappare i buchi più vistosi
nell’attuale organizzazione sanitaria e a prevedere un generico e generalizzato
ammodernamento nella rincorsa delle tecnologie più avanzate, come se questo sia
stato il limite prioritario nelle difficoltà riscontrate nel contrasto alla
pandemia.
In Lombardia. Dentro questo contesto, ampia è la libertà lasciata alle
singole regioni di gestire i fondi a loro destinati, purché rispettino i
generici settori d’attribuzione delle singole spese. In regione Lombardia l’uso
dei fondi che stanno arrivando dall’Europa si intreccerà con gli interventi
previsti dalla nuova legge sull’organizzazione della sanità regionale che dalla
fine di quest’anno dovrà sostituire la L. 23 che ha concluso la sua fase
quinquennale di sperimentazione evidenziando, durante questi ultimi venti mesi,
tutta la sua inadeguatezza e pericolosità.
Il testo di legge presentato dall’assessora
Moratti crea le condizioni per ampliare ulteriormente il peso della sanità
privata arrivando a prevedere che gran parte dei servizi territoriali, comprese
case di comunità e servizi operanti nel campo della prevenzione, possano essere
gestiti da privati. Ma prevenzione e privato in sanità sono un ossimoro, chi
investe nella sanità privata trae profitti sulle malattie e sui malati non
certo sulle persone che restano sane; per un privato la prevenzione o non è di
alcun interesse o addirittura rappresenta un ostacolo ai propri potenziali
guadagni.
Mi limito solo ad un altro esempio che ben
illustra la filosofia di questa controriforma: secondo la giunta lombarda la
riduzione delle liste d’attese per le visite e gli esami dovrebbe essere
ottenuta non aumentando gli ambulatori pubblici, assumendo nuovi medici,
limitando l’attività intramoenia fino al rientro nei tempi
d’attesa ufficialmente stabiliti, ma distribuendo soldi ai privati e aumentando
la quota delle attività svolte da loro in regime di convenzione/accreditamento.
Nel frattempo, in Lombardia, anche
nell’europea Milano, varie migliaia di cittadini sono privi del Medico di
Medicina Generale (MMG), obbligati o a non curarsi o a pagare di tasca propria;
certamente il numero ridotto di MMG rimanda a responsabilità nazionali, ma in
Lombardia tutto si è fatto e si sta facendo per rendere impossibile la vita ai
medici di famiglia spingendoli a cercarsi un’altra collocazione professionale.
D’altra parte, il presidente Attilio Fontana è un grande sostenitore del numero
due della Lega, il ministro Giancarlo Giorgetti, che esattamente due anni fa
dichiarava “Nessuno va più dal medico di famiglia. Medicina di famiglia un
mondo finito”. Le conseguenze le abbiamo sperimentate tutte e per evitare di
doverle affrontare nuovamente un coordinamento di decine di associazioni si sta
battendo per bloccare la nuova legge. “Errare humanum est, perseverare autem
diabolicum”.
Vittorio Agnoletto, medico,
insegna “Globalizzazione e Politiche della Salute”, all’Università degli Studi
di Milano, è responsabile scientifico dell’«Osservatorio Coronavirus», membro
del direttivo nazionale di Medicina Democratica.
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