La Libertà Non Sta Nello Scegliere Tra Bianco E Nero, Ma Nel Sottrarsi A Questa Scelta Prescritta. (Theodor W.Adorno)
giovedì 7 ottobre 2021
Lavoro e natura - Paolo Cacciari
È diventato un modo di dire di molti politici
“responsabili”, economisti “realisti” e giornalisti “obiettivi” affermare che
la “transizione ecologica” sarà “un bagno di sangue” per le imprese e quindi per l’occupazionale. Lo dicono
sfacciatamente per allarmare i ceti sociali più deboli e cercare di metterli
contro il processo di cambiamento auspicato anche dalla Commissione europea con
il Green Deal, la legge sul clima, il Fit for 55. Ma, se non vogliamo cadere
nel loro cinico gioco, sarà bene, da parte nostra, riconoscere che per
rientrare nei limiti planetari della sostenibilità molti apparati produttivi
inquinanti ed energivori oggi in funzione sono destinati ad andare fuori
mercato, se non direttamente fuori legge, perché nocivi alla salute oltre che
all’ambiente.
Qualsiasi serio
processo di riconversione degli apparati produttivi in chiave ambientale non
può non avere come primo obiettivo quello di ridurre drasticamente i prelievi
di materie prime e il rilascio nell’ambiente di materiali di scarto non
metabolizzabili dai cicli naturali. E non è garantito che tale processo possa
avvenire mantenendo un bilancio economico e occupazionale positivo all’interno
di ogni singola azienda, gruppo industriale o settore produttivo. La compensazione tra perdite e benefici (una just transition che non penalizzi
nessuno) potrà avvenire solo nel contesto di un riassetto complessivo del
sistema socioeconomico. Come è stato detto più volte, sarà possibile realizzare
una green economy solo nel
contesto di una green society. È
quindi drammaticamente vero che senza politiche sistemiche e contestuali di
riconversione industriale e rifinalizzazione dei sistemi sociali di garanzia e
tutela del lavoro potremmo assistere a licenziamenti di massa ed esuberi a
danno dei lavoratori meno tutelati.
Il
sistema non si può più riparare
Molte delle “crisi
industriali” sul tavolo di governo e sindacati sono la dimostrazione della
mancanza di politiche organiche e di lunga prospettiva di trasformazione
ecologica e sociale. Dovremmo,
infatti, mettere in conto che il processo di “sostituzione” delle posizioni di
lavoro più obsolete con nuove attività “verdi”, ecosostenibili, non avverrà
automaticamente, né con la stessa velocità e per le stesse quantità. Le logiche
spontanee di mercato, infatti, non rispondono alle esigenze della
sostenibilità, ma solo a quelle dell’incremento esponenziale del valore delle
merci immesse sul mercato. Comporre questa divergenza non è una mera questione
aritmetica, di spostamento di alcune poste di bilancio da una tecnologia ad un’altra,
dalle rendite finanziarie agli ammortizzatori sociali, dai profitti immediati
alla preservazione di lunga durata del territorio, ma richiede un cambio dei
criteri generali di valutazione del bene comune economico e sociale. Una
efficace “transizione ecologica” non potrà scaturire da una impossibile
giustapposizione di logiche inconciliabili, dal tracciare una via di mezzo tra
l’accumulazione permanente di capitali e una vita decorosa di tutti gli
abitanti del pianeta. Non pare
esistano più margini di manovra tali da poter aggiustare il sistema economico
dominante. Serve una vera rivoluzione del modo di concepire “questa
economia [che] uccide” (Bergoglio), dell’idea di ricchezza e di benessere che
discrimina e scarta, della politica asservita alla crescita dei rendimenti
monetari. Insomma, una nuova forma di civilizzazione mai concepita prima.
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