Il Mediterraneo Centrale continua ad essere un mare di
vergogna. Quella frontiera invisibile eretta da un’Europa che internamente pretende
il rispetto dei propri princìpi fondanti e dei diritti umani, esternamente si
adopera attivamente perché siano violati.
Può sembrare un’opinione radicale e controversa, ma a certificarla una volta per tutte è stata l’Onu.
Il 1° ottobre, infatti, le autorità libiche hanno condotto dei raid nelle
casupole e negli alloggi temporanei utilizzati dalle persone migranti nella
zona di Gargaresh. A queste violenze sono seguite “detenzioni
di massa e perdite di vite umane” secondo quanto riferito dall’Organizzazione
Internazionale per le Migrazioni (OIM). Si stima che, in seguito ai raid, oltre 5mila persone siano state trasferite nei centri di
detenzione statali.
In risposta a quanto accaduto, la Missione di supporto delle Nazioni Unite
in Libia (UNSMIL) ha ribadito il suo “appello alle autorità libiche affinché
prevengano e pongano fine ad arresti e detenzioni arbitrari e rilascino immediatamente
le persone più vulnerabili, in particolare donne e bambini”.
Il 4 ottobre una Missione d’Inchiesta Indipendente guidata dal Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite ha pubblicato un
rapporto in cui afferma che crimini di guerra sono stati
verosimilmente commessi in Libia dal 2016: “La violenza nelle prigioni libiche
è commessa su una tale scala e con un tale livello di organizzazione che
potrebbe essere ragionevolmente comparata a crimini contro l’umanità […].
Migranti, richiedenti asilo e rifugiati sono soggetti successivamente ad abusi
in mare, nei centri di detenzione e nelle mani dei trafficanti”.
Questa è la realtà in Libia, una realtà dalla quale si può
fuggire soltanto attraverso il mare, per le persone che hanno la sfortuna di
restarvi intrappolate. Ma il mare, in moltissimi casi, significa
morte. Fino ad oggi, nel corso del 2021, almeno 1100 persone sono morte nel tentativo di fuggire dalla Libia attraverso
il Mediterraneo.
L’ultimo naufragio di cui si abbia notizia certa è dell’11 ottobre scorso: 15 cadaveri sono stati recuperati dalla
Guardia costiera libica. Non si sa su che barca viaggiassero, quante
persone fossero con loro.
Chi intraprende il viaggio in mare lo sa bene, quali sono i rischi. Si
mette in viaggio due, tre, cinque volte: le probabilità di essere
intercettati e riportati in prigione da una Guardia costiera libica finanziata
e supportata dall’Europa è altissima: più di 25mila persone nel solo
2021 sono state respinte verso un paese dove i
diritti umani sono violati sistematicamente, grazie ai finanziamenti degli
Stati europei.
Se si vuole capire cosa significa essere detenuti in Libia, specie se si è
donne, basta ascoltare le parole di Angèle, una ragazza
camerunense di 27 anni, soccorsa dalla nave Ocean
Viking di SOS MEDITERRANEE nello scorso gennaio: “Sono rimasta in
prigione per cinque mesi – ha raccontato ai nostri soccorritori – La prigione
di Osama, la peggiore. I miei genitori hanno pagato il
riscatto per farmi uscire, ma non mi hanno lasciata andare.
Quello che fanno alle donne lì, non puoi nemmeno più chiamarlo stupro. Quello
che fanno alle donne non ha nome. Questo succede ogni giorno. Ma vederli
stuprare ragazzi, bambini, quello è peggio. Costringono i bambini a fare certe
cose. Se la madre cerca di fermarli, la violentano. Hanno armi, bastoni di
ferro, ti spengono le sigarette sul corpo. E lo filmano. Hanno tutti un
telefono, filmano tutto. Ti violentano davanti al tuo bambino, davanti a tuo
figlio, non gliene importa niente. Se vai in prigione insieme a tuo marito,
violentano tuo marito davanti a te. Sono riuscita a scappare perché
mi hanno data per morta. Mi hanno buttata in un container, fuori, completamente nuda. È così che sono
scappata”.
È tra questo e la morte che migliaia di persone, intrappolate in Libia,
devono obbligatoriamente scegliere. E questa è imposta, finanziata,
supportata e promossa dall’Europa.
Ma c’è un’altra Europa, quella della società
civile che, finanziando e promuovendo attività di ricerca e soccorso in mare
attraverso navi come la Ocean Viking di SOS MEDITERRANEE,
decide di non voltarsi dall’altro lato.
Le Ong del soccorso in mare, da qualche anno a questa
parte, però incontrano una forte opposizione da parte degli Stati, che in Italia si
manifesta sotto la forma di fermi amministrativi volti a impedire le attività
di soccorso alle imbarcazioni civili. Persino la Ocean Viking ha fatto le spese
di questo nuovo indirizzo della Guardia costiera italiana tra il luglio e il
dicembre del 2020.
L’ultima imbarcazione civile a venir fuori dal limbo del fermo amministrativo è
la Open Arms che, il 7 ottobre, è finalmente
ripartita alla volta del Mediterraneo centrale.
Una frontiera senza soccorsi, dove alle ambulanze del mare è proibito
salvare vite. Un muro di gomma che respinge uomini, donne e
bambini verso lo stupro, la tortura, la morte.
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* Valeria Taurino è direttrice generale di SOS
MEDITERRANEE ITALIA
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