La tortura non è una pratica utilizzata solo in questi ultimi decenni, ma una parte consolidata della storia degli Stati Uniti che risale ai tempi pre-rivoluzionari. Tra le tecniche più note e umilianti c’era la cosiddetta “catramatura e piumaggio”, già praticata dai coloni anglo-americani. In tempi più recenti, nel 1963, la CIA aveva fornito i suoi agenti di un accessorio formativo noto come KUBARK Interrogation Manual, cioè una guida di 128 pagine che istruivano sulle tecniche di tortura durante gli interrogatori. Lo stesso manuale è stato utilizzato anche per addestrare le milizie latinoamericane sostenute dagli Stati Uniti presso la School of the Americas, tra il 1987 e il 1991.
Arrivando ai nostri giorni, John Jessen e James Mitchell sono gli
psicologi statunitensi che hanno progettato le cosiddette “tecniche di interrogatorio avanzate”, una formula di
parole asettiche usate cinicamente per definire le torture più brutali e
inumane. Nel 2002 i due psicologi militavano attivamente a Cobalto, il carcere
segreto della CIA vicino Kabul, in Afghanistan. In quella prigione c’erano
venti celle, dove i prigionieri venivano denudati e legati alle pareti con
anelli di metallo. Quattro di queste celle erano destinate a diversi tipi di
torture.
Dopo le “guerre chirurgiche” e le “guerre umanitarie” da
esportare, le cure necessarie per mantenere la democrazia
imperialista statunitense s’affidano quindi alle torture più evolute, che a
guardar bene sono però soltanto un aggiornamento dei già fornitissimi menù
previsti nelle vecchie carceri di massima sicurezza statunitensi degli anni
Ottanta e Novanta, quando i metodi usati allora erano algidamente
chiamati “manganelli psichici”, vale a dire quei metodi violenti e dolorosi che
non lasciano segni evidenti sul corpo ma che fanno a pezzi la psiche del
torturato.
Fioccano continuamente denunce circostanziate e rapporti
documentati sulle torture consumatesi nelle prigioni gestite dagli Stati Uniti
fuori dai propri confini: da Bagram ad Abu Ghraib,
fino alla vergogna di Guantanamo Bay. Non
si possono cancellare dagli angoli più bui della memoria le immagini
fotografiche scattate dagli stessi aguzzini nel carcere di Abu Ghraib, in Iraq,
dove assieme alla loro idea di democrazia gli Stati Uniti esportarono le
pratiche più mostruose di disumanizzazione che un essere umano potesse mai
concepire.
Nella storia molti artisti hanno lasciato la loro impronta per
denunciare gli orrori commessi dall’uomo sull’uomo: tra i tanti, Francisco Goya
con La Fucilazione e Pablo Picasso con Guernica, ma anche la stessa Abu Ghraib
è diventata una tragedia dell’immaginario collettivo, raccontata poi con una
serie di dipinti dal grande artista colombiano Fernando Botero.
Nelle prigioni e nei cosiddetti black sites della CIA,
le “tecniche avanzate di interrogatorio” più gettonate sono il waterboarding
(consiste nell’immobilizzare un individuo in modo che i piedi si trovino più in
alto della testa, e versargli acqua sulla faccia coperta da un panno), il
confinamento in minuscole scatole di costrizione per molti giorni, le docce
gelate, i suoni assordanti ininterrotti sparati nelle celle, l’uso di pistole
elettriche, i gas urticanti, l’alimentazione infusa per via rettale, il
walling, cioè un collare applicato ai detenuti appesi a una corda e sbattuti
contro muri in materiale plastico che amplificano il suono dell’urto, e tanto
altro ancora.
Uno dei numerosi “ospiti” delle macellerie a stelle e strisce fu
Abu Zubaydah, un sospettato di terrorismo detenuto a Guantanamo Bay, dove
rimase per quattordici anni senza processo né condanna. Per le torture subite
Zubaydah perse l’occhio sinistro e venne sottoposto alla pratica crudele del
waterboarding: “Avevo i ceppi ovunque, anche alla testa, non potevo muovermi.
Poi mi hanno messo un panno in bocca e hanno cominciato a buttare acqua, acqua,
acqua… all’ultimo momento, prima che morissi, si fermavano”. Tutto questo fu
ripetuto per 83 volte in soli dodici giorni.
“Gli Stati Uniti non torturano e non tortureranno”, aveva
affermato pubblicamente, nell’ottobre del 2006, l’ex presidente
statunitense George W. Bush, ma già tre anni
prima, nel marzo del 2003, la sua amministrazione aveva
segretamente sottoposto a tortura Khalid Sheikh Mohammed, per ben 183 volte in
un solo mese.
Nel 2009 l’ex presidente statunitense Barack Obama chiese il
divieto per metodi come il waterboarding, ma il suo successore non esitò a
riportare immediatamente indietro le lancette della civiltà. Al suo
insediamento, infatti, Donald Trump fece un’affermazione che suonava come una
vera e propria apologia alla tortura: “Se penso che la tortura funzioni? Certo
che funziona, ma anche se non funzionasse questi prigionieri la meritano lo
stesso”.
Pure tra le mura di casa gli Stati Uniti sono maestri nella
gestione dei penitenziari, molti dei quali privati, usufruendo di metodi
punitivi e coercitivi che si pongono impunemente in antitesi con l’ottavo
emendamento della Costituzione americana, che recita: “Lo Stato non infliggerà punizioni crudeli e inusuali”. La
prima forma di tortura psicologica attuata sistematicamente nelle carceri degli
Stati Uniti è il processo di disumanizzazione cui tutti i detenuti sono
costretti: dal momento in cui varcano la soglia di un carcere, sono obbligati a
indossare orrende uniformi e a rinunciare al proprio nome, sostituito da un
numero di matricola. Non più esseri umani pensanti dunque, con una identità e
una dignità, ma ingranaggi obbedienti di un sistema mostruoso che l’ex condannato a morte Karl Guillen chiamava “il Tritacarne”,
una definizione tragicamente calzante che divenne poi il titolo del suo primo
libro.
Anche nelle prigioni e nei bracci della morte statunitensi esiste
una impressionante quantità di sistemi per torturare i prigionieri. Metodi
quasi sempre inumani e spesso anche illegali. Si va da brutalizzazioni fisiche
a torture psicologiche quali: deprivazioni sensoriali e del sonno, provocazioni
verbali e minacce, umiliazioni, somministrazione di farmaci che provocano
deperimento psico-fisico, proibizione di praticare cerimonie religiose, censura
di posta e di ogni collegamento col mondo esterno, isolamento, perquisizioni
corporali sistematiche, ammanettamenti e incatenamenti, fornitura di alimenti
avariati o immangiabili, pestaggi, rifiuto di assistenza medica,
sperimentazioni di vario genere su detenuti utilizzati come cavie umane,
sevizie, stupri, eccetera.
Tra gli Stati che promuovono inasprimenti detentivi e delle
condizioni carcerarie si distingue quello dell’Alabama che, per bocca del portavoce dell’ex governatore Donald Claxton fece sapere che
“l’umiliazione deve far parte della pena”. Come se non bastassero le
innumerevoli atrocità inflitte ai detenuti, soprattutto nei penitenziari di
Marion (Illinois), Florence (Colorado), Mariane (Florida), McAlester
(Oklahoma), in California furono documentate, da un filmato trasmesso su varie
emittenti televisive americane, le torture che i secondini di un carcere
riservavano ai detenuti.
Il filmato mostrava delle guardie in divisa che, senza alcun
motivo apparente, prendevano a calci nel basso ventre i detenuti, li
tramortivano con manganelli elettrici, li costringevano a strisciare come
vermi, li facevano azzannare da cani lupo (Abu Ghraib docet). Le violenze non
erano risparmiate neppure a un detenuto appena dimesso dall’infermeria, con una
gamba ingessata e un braccio rotto: le immagini mostravano il prigioniero
convalescente mentre cercava di sottrarsi al pestaggio delle guardie e
dall’aggressione dei cani. Dopo la già citata alimentazione forzata per via
rettale, uno degli ultimi metodi coercitivi e brutali saliti alle attuali
cronache è quello dell’alimentazione forzata inflitta a detenuti che attuano lo
sciopero della fame come forma di protesta non violenta.
Emblematica la vicenda di Mohammad Salameh, prigioniero nell’unità
H del carcere di Florence, costretto a sedersi per 220 volte su una sediaccia
nera per essere sottoposto al trattamento chiamato “BOP”, immobilizzato da
cinghie e catene, in quella che avrebbe dovuto essere la stanza dei trattamenti
medici, dov’è stato ogni volta alimentato con la forza attraverso una sonda
infilatagli dal naso fin giù allo stomaco. Di questa tortura Salameh disse: “Il
BOP dovrebbe chiamarsi punizione o tortura e non misura amministrativa
speciale, come se fosse qualcosa di carino”.
In merito a quest’ultima vicenda, la
professoressa Margaret L. Satterthwaite, insegnante di diritto
internazionale alla New York University, denunciò che “quando le circostanze
dell’alimentazione forzata includono la prova dell’intenzione di infliggere
dolore e sofferenza per uno scopo come la punizione, l’intimidazione o la
coercizione, l’alimentazione forzata diventa tortura”.
Nella speranza che gli Stati Uniti non diventino, in tema
sicurezza e detenzione carceraria, modello di riferimento per le altre
democrazie ma che, al contrario, le altre democrazie chiedano invece conto
dello sterminato elenco di violazioni ai diritti umani perpetrate dentro e
fuori i propri confini, resta comunque difficile capacitarsi di come possano
Jessen e Mitchell, la coppia di psicologi americani, dedicarsi alla distruzione
della psiche invece che alla sua cura, cercando il massimo della sofferenza
possibile da infliggere ai loro sventurati pazienti, con buona pace di un’etica
medica già ampiamente compromessa dal ruolo attivo di troppi medici nelle
esecuzioni capitali in cui viene utilizzata l’iniezione letale.
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