Ci hanno fatto credere che la linea di frattura o il problema cruciale nella società italiana fosse il green pass, ma la vera partita si gioca sulla ristrutturazione del sistema economico condotta (in gran silenzio) con il Prrn.
The Great Reset non è il complotto apocalittico tirato fuori dal cestino della carta
straccia di Davos, ma è il processo più o meno intenzionale eppure assai
performativo con cui poco a poco, nell’ultimo anno, ci stanno resettando il
cervello. Lo hanno fatto inducendoci a credere, a livello di massa, che la
linea di frattura o il problema cruciale nella società italiana fosse il green
pass, presentato alternativamente come il Bene, la prima emanazione del sommo
Draghi, il katechon di Covid-19, o la dittatura sanitaria,
l’avvento dello stato d’eccezione permanente e la fine dello stato di diritto.
Certo, la pandemia Covid è stato l’evento più rilevante e minaccioso
dell’ultimo biennio su scala mondiale ed è ben lungi dall’essersi risolta e il
green pass è l’utile certificazione dell’avvenuta vaccinazione, che per ora (e
speriamo nel medio periodo) offre una buona copertura parziale dall’infezione e
trasmissione virale. Degli oppositori del green pass non vale neppure la pena
parlare. Tuttavia non possiamo ignorare che l’uso che si fa di quel QR-code e
della stessa (sacrosanta) campagna vaccinale vada sottoposto a un’attenta
valutazione.
Il governo Draghi è stato installato con clangore di trombe e squittio di
leccate con due obiettivi dichiarati. Portare a casa i soldi del Next
Generation EU (in Italia Recovery Fund, pronunciato correntemente faund,
stropicciando le dita) e sconfiggere il virus.
Due battaglie iniziate dal governo Conte 2 ma che si è ritenuto più sicuro
affidare all’ex presidente della Bce, non tanto per qualche pasticcio del
predecessore quanto per la garanzia di una salda gestione neoliberale. Sul
Piano di ripresa e resilienza (cioè la spendita dei soldi) è calato il buio più
fitto, mentre per farne approvare in sede europea l’implementazione serve una
cascata di “riforme” per decreto-legge e fiducia a ripetizione con un
sottinteso indiscutibile: o votate o i soldi non arrivano e non arrivano a
nessuno.
Altro che trickle down, sgocciolamento, non c’è festa patronale
o partito o impresa che vedrà più il becco di un quattrino. Offerta non
rifiutabile e infatti non solo latita il Parlamento (già da tempo svuotato con
simili mezzucci, ma stavolta allettato con un appetitoso ciambellone e non
terrorizzato con la minaccia di tagli e definanziamenti), ma si sono sciolti anche
i partiti della larghissima maggioranza. Destino in cui incorrerà anche
l’opposizione di Meloni, il giorno che volesse governare sul serio e non
limitarsi a raccogliere gli scontenti del culto messianico di Draghi –
scontenti che ci sono sempre, perché gli uomini e le donne sono avide e
malvagie e non gli sta mai bene niente.
Per tenere buono il gregge, privato di ogni rappresentanza o meglio dotato
di rappresentanze non conflittuali né con Draghi né fra loro, occorreva però
montare a lato un teatrino di scontro, dove dividersi e avere l’apparenza di
una dialettica.
Il Grande Reset è consistito appunto nel farci discutere su cose serie ma
sopravalutate (se isolate dal resto e oltre una fase emergenziale), trascurando
altre questioni altrettanto serie ma fornite di una carica emozionale minore,
ovvero non sostenute da lotte di massa, oggettivamente calate nell’ultimo
decennio e infine ostacolate dalla pandemia, dal lockdown e dalle giuste
precauzioni sanitarie. Quando alcuni nodi sono venuti al pettine (lo sblocco
dei licenziamenti) è stato abbastanza facile azzittire i sindacati, anche se
poi, quando gli “esuberi” sono cominciati nel modo più brutale (Whirpool, Gkn e
ora vedremo Ita) le organizzazioni confederali sono state costrette ad
accodarsi al sindacalismo di base e all’iniziativa operaia.
Il riflesso sulle politiche governative è stato finora debole, nel senso
che i timidi tentativi di contenere il fenomeno delle delocalizzazioni (che
incide su alcuni licenziamenti di massa ma non su tutti, per esempio non
c’entra nulla con la vicenda ex Alitalia e altre) sonu stato stoppati dall’asse
Draghi-Giorgetti. La libertà d’impresa, la patrimoniale e le rendite catastali
non si toccano (e Letta abbozza).
Allo stesso tempo nessuna linea politica progressista è emersa finora sulla
riunificazione e potenziamento degli ammortizzatori sociali – anzi si
moltiplicano le iniziative per smantellare quello che c’à già – e laddove si
erano fatti dei passi o si erano elaborati progetti di superamento della
precarietà (Decreto Dignità e progetti di salario minimo) è subentrato un cupo
silenzio.
Va detto che, almeno sul salario minimo, cui dedichiamo un altro articolo, pesa gravemente la
riluttanza del sindacato, che solo negli ultimi giorni ha preso in
considerazione, a mezza bocca, una misura che sta passando ovunque a livello
europeo (Spagna, Francia, Germania) e perfino negli Usa di Biden. Ci spiegherà
mai Landini perché non va bene richiedere, a inflazione crescente, 9 o 10
euro/ora, un po’ meno dei 13 promessi da Biden e dai 12 richiesti dal
socialdemocratico Olaf Scholz, che su questo sta impostando una battaglia
elettorale vittoriosa in Germania? E perché le confederazioni difendono con i
denti il monopolio della rappresentanza, quando tutte le iniziative salariali e
occupazionali vincenti – vedi anche i rider – riescono grazie al sindacalismo
di base?
In tutti i comparti applicativi del Pnrr, per quanto si è in grado di
decifrare, Draghi ha fatto passare senza troppe resistenze una linea
neoliberale adattata alla crisi pandemica, cioè integrata in una spesa moderata
di sostegno alla domanda e non sull’austerità post-2008, chiudendo però tutte
le falle che, in modo velleitario, il governo Conte aveva aperto per
riequilibrare gli interessi del grande capitale rispetto a quelli minori o di
sezioni di lavoratori. Il programma esposto dal presidente Inps Tridico è il
canto del cigno di quella politica economica, che aveva avuto qualche consenso
anche dalla sinistra del Pd in era pre-Draghi.
Che ci volete fare, la Confindustria ha detto bene: Draghi è l’uomo della
necessità (standing ovation). Che poi imponga le mani e guarisca la scrofola è
un dettaglio pittoresco.
Ma il cambiamento più grosso e strutturale ha riguardato o partiti, che già
non stavano bene da tempo. Infatti la post-democrazia o crisi endemica della
democrazia sostituita da forme illiberali di governance nasce, o almeno in
Italia ha un punto di svolte decisivo, con l’agonia dei partiti che della
Costituzione postbellica erano l’infrastruttura portante. Il governo Draghi
«senza formula politica» (dichiarò papale papale Mattarella insediandolo)
nasceva sospendendo la funzione di quei partiti (già compromessa) e la loro
reciproca ostilità, che invece ancora perdurava più per bellicosità mediatica
che come alternativa programmatica.
C’era un aggregato informe ma ribollente, il M5S, che doveva essere
ridimensionato e normalizzato – e lo fu. Il Pd, nel suo estremismo europeista
si configurava da naturale “partito di Draghi” e l’operazione Letta funzionò
come quella di Conte per il M5S. Fin qui tutto semplice, bastava la razionalità
politica e sanitaria per innestare la logistica di Draghi sul sostegno convinto
del Pd e, a seguire di malavoglia, dei parlamentari e ministri pentastellati.
Il problema non era se fare il lockdown e, trovati i vaccini, la vaccinazione
di massa, quello era semplice buon senso (che tuttavia non è equamente
distribuito fra gli umani, neppure a sinistra), ma se rinunciare a tutte le
altre battaglie per condurre quella unitaria contro il “nemico” armato di
proteina spike.
A quel punto si registrava già una forte torsione ideologica. Per dirla con
un recentissimo articolo del “Guardian”,
«i partiti che un tempo appartenevano alla sinistra parlano di sicurezza e
stabilità mentre quelli di destra parlano di liberazione e rivolta». Ok.
Restava il fronte sovranista e complottista, guidato da Salvini, dentro il
governo, e da Meloni, fuori. La Lega era paralizzata dai vincoli europei e dal
crollo del sostegno oltre Atlantico di Trump, tuttavia esprimeva un blocco di
interessi industriali fondamentale per “mettere a terra” i grandi gruppi
finanziari internazionali di cui Draghi è espressione o garante (mettetela come
volete). Il più recente passaggio è stato decisivo. Solo Letta poteva illudersi
di diventare l’azionista di riferimento di Draghi con la caduta di Salvini per
i suoi errori strategici.
Molto abilmente Draghi, sapendo che Letta comunque sarebbe venuto dietro,
inchiodato al suo 19 e rotti per cento dei sondaggi e a un partito balcanizzato
e pieno di infiltrati renziani, ha scelto di fare andare in minoranza Salvini
dentro la Lega e di costruire un asse “produttivistico” con Giorgetti e i
governatori delle zone ricche del Paese. A questo punto – con la riserva che
bisognerà pur trovare una soluzione di garanzie nell’elezione del Presidente
della Repubblica – i giochi sono fatti e l’asse di governo è pronto. Solo che
l’azionista di riferimento è Giorgetti. Con un piccolo spostamento a sinistra
della Lega (cioè di semplice buonsenso pandemico) si è spostato a destra tutto
l’equilibrio di governo.
Draghi l’ha scandito con la proposta di un «patto economico, produttivo e
sociale del Paese», che ponga rimedio al deterioramento «delle relazioni
industriali sul finire degli anni ’60» – cioè il maledetto ‘68 e l’autunno
caldo del ’69.
Inoltre questo patto è fra le “parti sociali”, cioè scavalca perfino i
partiti della sua maggioranza e questo va molte oltre il patto Ciampi del 1993,
quando i grandi partiti di massa erano ancora in salute.
Letta, invece vede in Draghi un nuovo Ciampi e vaneggia di un nuovo patto
concertativo su sviluppo e lavoro. Essendo adulti e vaccinati non ci
scandalizziamo per il suo proclamare il Pd “partito del lavoro e dell’impresa”,
vorremmo solo obiettare che non rappresenta più il primo ed è wishful
thinking che l’impresa si riconosca in esso. Quando si comincia a
pensare a un prolungamento del governo taumaturgico dopo il 2023, si prefigura
In pratica la fine del Pd persino come gruppo di pressione e stakeholder
dell’esecutivo. Che non è l’apocalisse evocata da certi intellettuali di
sinistra che pensano per eoni, ma è un evento che chiude la piccola fase
storica di cui siamo testimoni e di cui la generazione trap manco ha fatto in
tempo ad accorgersi.
L’agenda Draghi ha disattivato tutti i buoni propositi della sinistra
immaginaria, moderata e radicale e i cattivi propositi dei sovranisti. Quanto
possa sanare le contraddizioni manifestate dal neoliberismo nel 2008 e
nell’incontro con la pandemia è tutto da vedere.
Il fallimento di quel progetto è intrinseco, per fortuna, non dipende dalla
resistenza dei suoi avversari attuali, anche se si manifesterà soltanto con il
sorgere di nuove resistenza Il problema e oseremmo dire il compito di qualsiasi
oppresso e subalterno è costruire un’agenda alternativa.
Qualche segno interessante si sta manifestando ed è legato agli effetti
economici salariali e occupazionali della crisi covidica, alla ristrutturazione
del lavoro informale, all’indebolimento dell’egemonismo Usa,
all’insostenibilità dell’assetto ecologico, alla decadenza delle relazioni
patriarcali e del razzismo che interagiscono con le contraddizioni dello
sviluppo e del comando.
Segni prognostici corposi sono stati per un verso il grande corteo operaio
di Firenze – il maggiore nell’ultimo quinquennio –, per l’altro il successo
impressionante della ripresa delle manifestazioni dei Fridays for Future
post-pandemia. Altro che le chiassate bavose dei no-vax e il sex-appeal nei
comizi di Conte di cui si diletta la nostra stampa mainstream e l’arrendevole
TV.
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