Processo a Lucano: va in scena l’accoglienza - Giovanna Procacci
Da quando la parola è passata ai testi
della difesa, il processo di Locri contro Lucano e Riace è finalmente arrivato
a una svolta. Per un anno e mezzo abbiamo ascoltato l’illustrazione delle
ipotesi di accusa, che sembravano impermeabili alle tante pronunce dei
Tribunali che, pure, dall’arresto di Lucano ad oggi, ne hanno smontato interi
pezzi (https://volerelaluna.it/in-primo-piano/2020/07/08/domenico-lucano-come-procede-un-processo-politico/). Ora, però, è nel dibattimento
stesso che quelle accuse vengono invalidate, sotto gli occhi di tutti, e le
tesi della Procura vacillano. Comincia finalmente a prendere corpo un racconto
delle vicende più aderente alla sua storia, più proporzionato, più convincente
rispetto alla distanza siderale fra la Riace modello di accoglienza per tanti e
la Riace criminale presentata dalla Procura (https://volerelaluna.it/societa/2020/10/29/come-ti-trasformo-riace-in-un-reato/).
Provo a sintetizzare i passaggi
principali di questa svolta. Intanto, l’udienza dell’11 gennaio 2021 ha
visto un passaggio cruciale, perché ha deposto il cosiddetto “super-testimone”
dell’accusa, quel Francesco Ruga, commerciante di Riace, che a fine 2016 aveva
denunciato Lucano e Capone per concussione e, con la sua denuncia, aveva fatto
scattare tutta l’indagine della Guardia di Finanza. Era stato però, a sua
volta, querelato per minacce, e quindi secondo la difesa non avrebbe potuto
essere considerato un teste. Già nel 2018, del resto, il GIP lo aveva definito
«una persona tutt’altro che attendibile», e aveva accusato la Procura di
essersi fidata delle sue parole senza approfondire le ipotesi accusatorie che
ne aveva tratto. Tre anni dopo, però, Ruga è arrivato ugualmente al
dibattimento. La sua denuncia riguardava una fattura che Lucano e Capone lo
avrebbero costretto ad alterare, non nell’importo, ma nella descrizione di
quanto aveva venduto: non alimentari, ma detersivi. Altrimenti – lo avrebbero
minacciato – quella fattura non gli sarebbe stata pagata; anzi peggio, lo
avrebbero escluso dal sistema dei bonus, «così, per farmi un dispetto». Il suo
racconto però incespica; è un vortice di panini, prosciutto cotto, lamette da
barba e candeggina, assegni, fatture. Nulla torna, né le fatture, né le somme,
nemmeno gli assegni depositati corrispondono alle fatture, e quei prodotti
nemmeno li aveva in negozio, o forse sì, ma in quantità ridotte… Ma il colpo di
scena avviene con il contro-esame della difesa. Qui la sua testimonianza cade
fragorosamente. Basta che l’avvocato Daqua gli legga una serie di messaggi che
aveva inviato a Lucano, dal tono ora minaccioso, ora affettuoso, di grande
stima, in cui si confida dei soprusi che, a suo dire, subirebbe da Capone e
qualifica Lucano come una persona perbene, generosa, che lui ammira e ha sempre
votato. Nello stupore generale Ruga prima farfuglia che si sarebbe reso conto
solo in seguito che Lucano era al corrente dei soprusi che subiva; ma alla
fine, deve ammettere di non aver subìto minacce da parte di Lucano. Come chiosa
lo stesso presidente Accurso: «lo ha aggiunto dopo per un suo convincimento».
Dunque l’accusa di concussione per Lucano non c’è. Ci si chiede come si sia
potuta dare tanta importanza alle denunce di una persona già definita
inattendibile, senza evidentemente aver seriamente indagato sulla querela di
cui era stato oggetto da parte di Lucano.
All’udienza del 1 febbraio la
sorpresa è venuta dal collegio di difesa di Lucano. Dopo l’improvvisa scomparsa
dell’avvocato Antonio Mazzone, che insieme ad Andrea Daqua aveva assicurato
gratuitamente la difesa di Lucano sin dall’inizio della sua vicenda
giudiziaria, si era venuto a creare un vuoto importante che è stato colmato da
Giuliano Pisapia che si è costituito nel collegio di difesa. L’arrivo di
Pisapia, all’inizio della fase difensiva, è un’ottima notizia, soprattutto
perché il suo ingresso allarga il campo in cui si muove il processo che – come
sostengo dall’inizio – non può essere trattato come una storia calabrese, né
lasciato alla stampa locale, ma deve essere messo sotto i riflettori della
pubblica opinione nazionale. Processare un’idea di solidarietà e di umanità non
può essere questione locale, apre piuttosto sul precipizio di un processo
politico, come se ne sono tentati vari in questi ultimi anni: basti pensare
alle vicende di Carola Rackete e a tutti i tentativi di bloccare per via
giudiziaria gli interventi umanitari, in Italia e non solo. Riace è stata messa
sotto processo, complice il momento particolare, in quella fine 2018 che vedeva
l’attivismo di Salvini da poco ministro dell’interno; complice, certo, anche la
complicazione della materia dell’accoglienza, affidata a linee guida in
continuo mutamento; e complice forse anche la collocazione “defilata”, in una
terra dove la presenza della ‘ndrangheta la fa da padrone. Ora l’ingresso di
Pisapia nel collegio di difesa dimostra plasticamente che in quel processo si
affronta una questione d’interesse nazionale, e può aiutare a richiamare
l’attenzione di quei giornali che finora non hanno sentito il bisogno di
investirvi molte energie. Da europarlamentare, potrà riportare anche in
contesti europei quello che accade in un tribunale del profondo sud d’Italia. E
in un processo rimasto purtroppo un po’ isolato, sottratto alla dovuta
pubblicità, questo allargamento dell’attenzione pubblica è una garanzia in sé.
Nell’udienza successiva del 22
febbraio è stato ascoltato Francesco Campolo, all’epoca dirigente
dell’area immigrazione della Prefettura di Reggio Calabria. Campolo aveva
coordinato un’ispezione a fine gennaio 2017 e scritto quella relazione
elogiativa del sistema d’accoglienza di Riace che era poi stata negata a lungo
a Lucano, il quale era riuscito a ottenerla solo ricorrendo alla Procura di
Reggio Calabria. Campolo, oltre a confermare quanto scritto nella relazione,
che cioè a Riace «era tutto regolare», dice di aver saputo che la relazione non
era stata data al sindaco, e conferma che quel compito spettava al Prefetto.
Dunque è stato proprio il Prefetto a tenerla nascosta, al punto da rischiare di
incorrere, come osserva il presidente Accurso, in un reato di omissione d’atti
d’ufficio. Finora non lo aveva detto nessuno, solo Lucano nelle sue
dichiarazioni spontanee.
L’udienza del 15 marzo ha
visto un altro passaggio importante. È stata ascoltata come consulente della
difesa Elisabetta Madafferi, direttore generale della Provincia di Reggio
Calabria. La sua consulenza entra nel merito dei presunti reati imputati a Lucano.
Come la raccolta differenziata dei rifiuti, affidata alle due cooperative
sociali di Riace, che lei conferma avvenne secondo le regole del codice degli
appalti allora in vigore. O come i diritti di segreteria per le carte
d’identità, che Lucano aveva deciso di non far pagare, decisione che, secondo
la legge Bassanini del 1997, è legittima se il Comune non è in dissesto
finanziario. Allo stesso modo Modafferi smonta la ricostruzione delle false
fatture, le accuse sui lungo-permanenti e soprattutto su quelle due carte
d’identità a una donna eritrea e al suo bimbo di quattro mesi, costate a Lucano
un secondo processo per falso ideologico, avviato a luglio 2020 e poi
incorporato nel processo principale (https://volerelaluna.it/territori/2020/04/15/riace-miracolo-al-contrario-per-domenico-lucano/). Inoltre, conferma
che la Prefettura chiedeva a Riace di ospitare molte più persone di quante non
avrebbe potuto ospitarne date le dimensioni del paese, e racconta di aver visto
lei stessa documenti del Ministero che assegnavano al Comune di Riace altri 100
posti tutti in un botto. Anche Tonino Perna, oggi vicesindaco di Reggio
Calabria, chiamato come testimone della difesa, racconta di queste pressioni.
Ricorda come l’esperienza di Riace sia partita da quella di Badolato, dove lui
lavorava con una Ong, come l’accoglienza si sia avviata grazie a un prestito
iniziale di Banca Etica e grazie alla solidarietà, per poi rivolgersi ai fondi
pubblici con i progetti del Pna e dello Sprar. I numeri erano proporzionati e
le cose andavano bene; accoglienza e sviluppo locale avevano rimesso in moto
l’economia e fatto rinascere il paese. Negli anni, però, Prefettura e Ministero
hanno spinto in alto i numeri. «Il Prefetto chiamava per 200 palestinesi»,
riferisce. E Lucano accettava sempre. Avrebbe potuto rifiutarsi, certo, ma «un
sindaco che sceglie la solidarietà come obiettivo, è ovvio che provi ad
accogliere tutti» conclude Perna.
Le pressioni da parte di Prefettura e
Viminale sul Comune di Riace perché ospitasse richiedenti asilo in gran numero,
soprattutto negli anni dell’emergenza, sono un dato su cui vale la pena di
soffermarsi. Lo aveva detto Lucano, che per anni lo Stato aveva sfruttato Riace
per liberarsi di tanti migranti, salvo poi denunciare che a Riace c’erano più
persone del dovuto… Prefettura e Ministero facevano forti pressioni su Riace
perché sapevano che il sindaco avrebbe collaborato, tanto che lo chiamavano “San
Lucano”. E in effetti lui non si era mai sottratto, come scriveva Campolo nella
relazione; accettava perché si era dato la missione dell’accoglienza e dello
sviluppo locale che grazie all’accoglienza poteva mettere in moto. «Se invece
di accettare i rifugiati che mi mandavano, avessi detto di no, oggi non sarei
qui», osservava Lucano davanti al Tribunale. Inevitabilmente però queste
pressioni comportavano anche scorciatoie: con quei numeri, e quei tempi
stretti, quando i pullman carichi erano praticamente già nella piazza del
paese, come avrebbe potuto il Comune bandire gare pubbliche per l’assegnazione
dei servizi? Per questo a Riace erano nate varie associazioni e cooperative,
per riuscire a fare immediatamente fronte alla necessità di ampliare i servizi;
nel processo però queste assegnazioni dirette sono diventate imputazioni.
Insomma, Riace veniva usata per risolvere l’emergenza, dopodiché è stata messa
sotto processo con l’accusa di averla risolta “in modo emergenziale”; viene da
dire che l’emergenza vale per lo Stato, ma non per chi concretamente si impegna
ad accogliere le persone che lo Stato gli affida perché non sa dove metterle.
Questo meccanismo, di uno Stato che chiede di accogliere e poi abbandona chi
accoglie, è alla base di tutto l’attacco a Lucano e Riace, certo, ma indica
anche qualcosa che ci riguarda tutti. Rivela una amministrazione che si
contraddice, che tradisce i suoi stessi impegni e non si assume le sue
responsabilità, che è succube dell’esecutivo di turno, e quindi incapace di progettazione
e lungimiranza. È lo stesso meccanismo per cui lo Stato per anni ha chiesto
alle Ong di aiutarlo a soccorrere i naufraghi e poi ha cominciato ad
incriminarle per aver continuato a farlo. Oppure che alle frontiere abbandona i
profughi nelle sole mani delle persone solidali, e poi persegue queste ultime
per il reato di solidarietà.
Se da una parte si conferma così questo
ruolo negativo dello Stato, le testimonianze di monsignor Bregantini e di padre
Alex Zanotelli nell’udienza del 29 marzo, toccano un altro punto
rilevante nel processo: il movente di Lucano. Quel movente che l’accusa ha
cercato invano di produrre, senza riuscirci. Non potendo ipotizzare il
vantaggio economico, perché sin dall’inizio ha dovuto riconoscere che non
c’era, aveva provato a suggerire un movente politico-elettorale, ma aveva
dovuto abbandonare presto anche questa ipotesi. Così del movente non si è più
parlato, ma certo è rimasto un punto irrisolto per l’accusa. Le testimonianze
dei due religiosi ci aiutano a ricostruirlo. Bregantini parla dell’intuizione
quasi profetica di Lucano: ha capito che «i migranti diventano energia vitale
per il paese». Lui lo ha accompagnato, ha visto «la positività della sua
esperienza; la cosa più importante è il consenso che c’era attorno a lui in
paese». Al centro del suo racconto, c’è questa visione condivisa con Lucano,
che i migranti non sono solo persone da assistere, sono energia che va
mobilitata e rispettata. Racconta del laboratorio di tessitura: «quando ho
toccato con mano che l’antica arte calabrese veniva recuperata da uomini e
donne dell’Etiopia e della Siria, allora ho capito che stava nascendo un
qualcosa, un modello mondiale». Zanotelli aggiunge: «Lucano ha anticipato
quello che dovrebbe essere fatto dal Governo». Un filo comune guida le loro
testimonianze: raccontano Riace come un sistema di accoglienza e integrazione
che non solo ha funzionato bene in quel paese, ma che ha delineato i tratti di
quello che potrebbe e dovrebbe essere il sistema pubblico dell’accoglienza.
Riace ha qualcosa da insegnare a tutti. Si esplicita così anche il vero movente
di Lucano: la sua visione, ispirata ai suoi ideali di umanità e solidarietà.
Bregantini conclude: «ho letto Fratelli tutti, molte delle
iniziative che Lucano ha realizzato rispecchiano quanto scritto da Papa
Francesco». È questa visione che si sta processando.
A questo punto l’istruttoria
dibattimentale è pressoché chiusa. Ancora un’udienza, il 26 aprile, e poi si
passerà alle eventuali dichiarazioni degli imputati e alla discussione finale
con sentenza prevista il 27 settembre.
Domenico Lucano, le elezioni e le fantasie
del pubblico ministero - Giovanna Procacci
Dal processo di Locri contro Lucano e Riace arriva una
notizia eclatante: nell’udienza di lunedì 26 aprile il pubblico ministero
Michele Permunian ha chiesto l’acquisizione agli atti di un documento. Si
tratta di un’intervista che Lucano ha rilasciato il 18 aprile scorso
all’agenzia AGI, in cui spiega la sua decisione di candidarsi alle elezioni
regionali del prossimo ottobre insieme a De Magistris. La difesa di Lucano ha
contestato questa richiesta, definendola “tendenziosa”. Alla fine, il
Presidente del collegio giudicante, Accurso, l’ha respinta, in quanto i fatti
sono estranei al processo.
Allora, tutto bene? Tutto rientrato? Non direi. Perché
per noi che osserviamo il processo da semplici cittadini e non da tecnici del
diritto e nemmeno da esperti di cronaca giudiziaria e che quindi guardiamo il
processo dal punto di vista del senso che vi si produce, la domanda sul perché
la Procura di Locri abbia presentato una tale richiesta rimane intatta.
Certo, potremmo rispondere che si tratta di accanimento,
come lo stesso pubblico ministero aveva dimostrato tentando di avviare un
secondo processo contro Lucano. Ma non basta. Perché il tema Lucano-elezioni
era già stato al centro dell’attenzione della Procura. Nell’ottobre 2019 il
colonnello Sportelli, in mancanza di qualsiasi prova che Lucano avesse
perseguito scopi di lucro personale sui fondi pubblici destinati ai migranti,
aveva avanzato l’ipotesi che ci fosse comunque un dolo, un movente illegittimo
di vantaggio personale: era l’ipotesi del movente politico-elettorale. Certo, è
normale che un sindaco cerchi di corrispondere alle attese dei suoi
concittadini. Ma Lucano faceva di più: progettava di candidarsi alle politiche
del marzo 2018 e per questo aveva bisogno di continuare ad assicurarsi i voti.
Cosicché, pur essendo perfettamente consapevole che i laboratori non
funzionavano, che le associazioni facevano soldi indebitamente, che c’erano
molte irregolarità, non denunciava nulla, perché non voleva perdere i voti che
gli portavano le varie associazioni. Lucano cercava un vantaggio elettorale;
Sportelli citava i voti dei Tornese, di Riace Accoglie, di Girasole.
Ma dove erano le prove del movente politico-elettorale?
In un’intercettazione di fine 2017 in cui in sostanza Lucano diceva a suo
fratello: «Quasi quasi mi candido». L’intenzione di Lucano di correre per
l’elezione al Parlamento italiano rivelava, secondo l’accusa, il suo intento di
sottrarsi alla giustizia, che sentiva ormai incombere su Riace, grazie
all’immunità parlamentare; ecco la patata bollente dell’interesse personale,
pur nell’assenza di lucro. Tuttavia, quando il Presidente gli chiedeva se si
fosse poi candidato effettivamente, Sportelli doveva ammettere di no. Cosicché
anche il famoso movente politico finiva per sfocarsi e perdere di incisività,
tanto che nel seguito dell’illustrazione dell’accusa non si parlava
praticamente più del movente di Lucano.
Ora, a un anno e mezzo da quelle udienze, il movente
politico torna fuori. In zona Cesarini possiamo dire, all’ultima udienza
dell’istruttoria dibattimentale. Succede che il pubblico ministero ha letto
l’intervista rilasciata da Lucano una settimana fa, in cui parla della sua
candidatura nella lista di De Magistris come capolista. E qualcosa ha fatto
subito tilt nella sua mente: visto? L’avevo detto io che
voleva candidarsi. Finalmente il piano è arrivato a compimento. Peccato che si
tratti di quattro anni dopo, di quattro tornate elettorali dopo, di elezioni
regionali e non politiche. Ma il suo piano è sempre quello. Anzi, il piano di
oggi getta luce su quello di ieri: se non si era presentato allora, né alle
politiche (2018), né alle europee (2019), né alle regionali (2020), è perché
nessuno gli aveva voluto dare il posto di capolista. Ora finalmente, con De
Magistris, il colpaccio gli è riuscito. E qui il pubblico ministero fa un volo
pindarico: la candidatura di oggi confermerebbe la bontà delle intercettazioni
di quattro anni prima…
Ovviamente Lucano ha il diritto di candidarsi quando
vuole e con chi vuole, come ogni cittadino in pieno possesso dei suoi diritti
politici. Ma l’imputato Lucano, secondo il pubblico ministero, è costretto dal
suo “curriculum criminale”, come avrebbe detto Foucault; ogni sua azione prende
un senso pregresso determinato dall’indagine che lo ha portato al processo e
nello stesso tempo dà senso a quell’indagine quando incespica e si fa debole.
Quell’intercettazione del 2017 che perdeva significato di fronte al dato di
realtà che non si era poi candidato, per cui diventava difficile sostenere in
modo convincente il suo interesse politico-elettorale, ritrova finalmente il
suo senso predittivo in un’intervista di oggi.
Nel commentare questa singolare richiesta, Lucano mette
il dito sui contenuti politici della sua candidatura, rivendicando giustamente
la sua libertà di perseguire i suoi ideali di solidarietà, uguaglianza e
umanità. E conclude: mi chiedo se il pubblico ministero avrebbe agito nello
stesso modo se mi fossi candidato con la Lega. Certo, c’è sicuramente il
contenuto politico nell’attacco del pubblico ministero, come hanno sottolineato
altri commentatori. D’altronde, sin dall’inizio del mio monitoraggio sostengo
che a Locri si sta celebrando un processo politico, dove si sono messi sotto
processo non degli atti, ma delle idee. Nessuna sorpresa dunque nel constatare
che le idee politiche di Lucano, che allora aveva messo in atto nel costruire
il modello Riace e oggi mette al servizio di un progetto elettorale, sono al
centro dell’accusa.
Ma a me preme portare l’attenzione anche su un altro
aspetto: l’uso spregiudicato di un’intervista di oggi per dare senso a
un’intercettazione di quattro anni fa, che non aveva retto alla prova
dell’argomentazione dibattimentale. Quell’intercettazione non aveva retto
perché l’azione che vi si annunciava non aveva avuto luogo; restava dunque una
mera intenzione e le intenzioni non si processano, lo sanno anche i bambini. La
candidatura di oggi invece viene letta come un passaggio all’atto che realizza
finalmente quell’intenzione. Si avanza insomma l’ipotesi di un effetto
retroattivo per cui l’azione dell’oggi illuminerebbe di senso un’intenzione
espressa nel passato, la renderebbe “vera”. A tal punto che si può riattivare
l’intento, allora fallito, di fondarci il movente.
Nella presentazione delle ipotesi di accusa non c’è solo
lo scontro con le idee politiche di Lucano, che abbiamo già visto mille volte;
c’è qualcosa di più e di diverso. C’è l’idea che gli atti non sono circoscritti
nel tempo in cui si formano, non contengono il proprio significato, ma lo
derivano dalla personalità dell’imputato, segnata senza soluzione di continuità
dai reati che gli vengono attribuiti. L’indagine, conclusa a fine 2017,
racchiuderebbe così tutto l’agire di Lucano, anche quello di oggi, anche quello
futuro, che non potrebbe che esplicitarne meglio il senso, renderne più chiaro
il carattere criminoso. C’è da credere che la Procura senta le sue ipotesi
parecchio traballanti, per arrivare a proporre una tale forzatura!