sabato 29 febbraio 2020

VALSUSA: LABORATORIO DI NUOVE POLITICHE REPRESSIVE.


Nicoletta, Luca e gli altri. Che fare?
Resoconto del convegno promosso dal Controsservatorio Valsusa a Bussoleno il 15 febbraio scorso.
articolo tratto da Controsservatorio Valsusa

Da anni la Valsusa è diventata anche un laboratorio in cui si sperimentano nuove politiche repressive.
Centinaia di processi con oltre mille indagati coinvolgono un’intera comunità.
Reati contestati di lieve entità puniti con il massimo della pena, canali preferenziali attivati dalla procura per colpire in fretta la resistenza notav distogliendo forze da altri processi, atteggiamenti provocatori di pubblici ministeri, creazione di un vero clima di intimidazione da parte della digos nelle stesse aule di tribunale…
A tutto ciò si aggiunge il ricorso sistematico a pesanti e ingiustificate misure di polizia (foglio di via, avviso orale, sorveglianza speciale…) mentre si infittiscono i controlli sistematici e capillari agli attivisti e vengono reiterate ordinanze prefettizie che limitano la libertà di circolazione in assenza di situazioni di emergenza che ne giustifichino l’emissione.
Che non si tratti solo di eccessi di scrupolo è evidente: sul banco degli imputati è una resistenza popolare nel suo complesso, fiaccarla ad ogni costo è il vero obiettivo.
Il caso di Nicoletta, condannata a un anno di reclusione per aver sostenuto uno striscione a un casello autostradale, e il caso di Luca che si è visto negare, con motivazioni incredibili, misure alternative al carcere abitualmente concesse sono solo esempi di un accanimento giudiziario crescente e inaccettabile.
La persecuzione della lotta notav è senza se e senza ma.
E’ evidente l’impotenza di una politica a cui manca la volontà e la capacità di governare il conflitto sociale e sceglie di delegare le soluzioni agli apparati repressivi.
In questo quadro i decreti sicurezza rappresentano un’ulteriore e pesantissimo salto di qualità: essi guardano non solo alle migrazioni ma al conflitto sociale nel suo complesso: per dimensioni, intensità e estensione la Valsusa è solo la punta di un iceberg, vittime predestinate sono le lotte sociali represse in tutto il paese.
Di questi temi ha discusso il convegno in cui si è parlato anche dell’urgenza di un’amnistia sociale, che si affianchi all’abolizione dei decreti sicurezza richiamando le istituzioni a fornire risposte politiche a problemi di natura squisitamente politica.
Di seguito le registrazioni audio/video delle relazioni al convegno. Dal dibattito che ne è seguito sono emerse proposte che saranno approfondite dal movimento notav nelle prossime settimane…

L’industria della malattia - Silvia Ribeiro



Contrariamente a quello che si potrebbe pensare, all’industria farmaceutica internazionale non interessa la salute. La sua vocazione è aumentare i propri smisurati guadagni, e a tal fine il “consumatore” ideale dei suoi prodotti è sempre malato, poiché se guarisce smette di acquistare, come pure se muore. È un’industria strettamente oligopolistica, aggressiva al fine di controllare larghe fette di mercato a livello mondiale, ottenere brevetti esclusivi ed elevate percentuali di utili, esercitare pressioni per ottenere politiche globali e nazionali a proprio favore.
Sebbene molte altre industrie transnazionali lavorino con lo stesso scopo, qui si tratta di controllare la distribuzione e l’accesso a farmaci, che in molti casi decidono la vita o la morte delle persone ammalate.
Si tratta di un’industria ad alta concentrazione di mercato che per difendere i propri interessi funziona spesso come cartello. Per quel che riguarda la vendita di farmaci, le 10 principali transnazionali controllano oltre la metà del mercato globale. Oggi sono: Pfizer, Novartis, Roche, Johnson y Johnson, Merck & Co, Sanofi, GlaxoSmithKline, Abbvie, Gilead Sciences e Teva Pharmaceuticalsseguite da Amgen, AstraZeneca, Eli Lilly, Bristol Myers Squibb, Bayer, Novo Nordisk, Allegan, Takeda, Shire e Boheringer Ingelheim. Tutte hanno alle spalle una storia lunghissima, alcune di oltre un secolo, sebbene a seguito di acquisti o fusioni, alcune abbiano cambiato di nome. Alcune di esse hanno un rapporto storico con quelle che oggi dominano i pesticidi, le sementi e i transgenici: Bayer è padrona di Monsanto, Novartis e AstraZeneca si sono fuse per dar vita a Syngenta, etc. Le unisce la logica di far ammalare e vendere il rimedio.
Secondo gli analisti dell’industria, nel 2018 le 10 imprese farmaceutiche più grandi hanno totalizzato vendite per 523 miliardi di dollari, un mercato che si stima giungerà ai 1.000 miliardi di dollari nel 2020. Si tratta di un aumento notevole in vendite e concentrazioni di mercato dal 2017, anno in cui le 20 più grandi realizzarono vendite per 503 miliardi di dollari e le prime 100 per 747 miliardi (Scrip Pharma, Outlook 2019).
Un rapporto del 2018 dell’agenzia governativa statunitense GAO mostra che le 25 maggiori industrie farmaceutiche hanno realizzato un utile annuale dal 2006 al 2015 compreso fra il 15 e il 20% (del fatturato ndt), collocandosi fra le categorie industriali che avevano le più alte percentuali di rendimento (Government Accountability Office, GAO-18-40). Tuttavia, quasi tutte in alcuni momenti sono arrivate a percentuali di utili molto maggiori, grazie al controllo monopolistico dei medicinali e dei vaccini in occasione di epidemie o crisi sanitarie.
L’industria farmaceutica transnazionale ha avuto inoltre un ruolo chiave nell’imporre le leggi sulla proprietà intellettuale e ampliare sempre più la validità dei propri brevetti a livello globale. Sono le aziende farmaceutiche che stanno dietro all’inclusione dei brevetti nell’Organizzazione Mondiale del Commercio, nel TLCAN (Trattato dell’America del Nord fra Stati Uniti, Canada e Messico, ndt) e in altri trattati commerciali. Insieme all’industria biotecnologica, a quella delle sementi e a quella informatica, combattono in tutti questi ambiti per aumentare gli anni di validità dei brevetti e dei marchi dei loro prodotti e per impedire che si possa avervi accesso senza pagare.
Argomentano che hanno necessità di avere brevetti sui farmaci per poter recuperare le spese di innovazione e di sviluppo. Però molti rapporti sulle loro “innovazioni” mostrano che la grande maggioranza dei nuovi farmaci immessi sul mercato da queste imprese sono semplicemente copie di quelli già esistenti, con qualche piccola variante nella formulazione o nell’impiego, al fine di ottenere altri 20 anni di brevetto esclusivo.
Marcia Angell, direttrice per 17 anni della rivista scientifica New England Journal of Medicine; nel suo libro La verità sull’industria farmaceutica ha mostrato che il 67 % dei “nuovi” farmaci che vengono immessi sul mercato non sono innovazioni bensì copie. L’Ufficio di Valutazione Tecnologica degli Stati Uniti (OTA, secondo la sigla in inglese), che ormai è stato chiuso, nel 1996 pubblicò un’informativa su 348 nuovi prodotti delle 25 più grandi compagnie farmaceutiche nel corso di 7 anni e verificò che il 97% erano copie. Del restante 3%, che era sì innovativo, il 70% era frutto delle ricerca pubblica. Sebbene questi documenti siano vecchi di anni, la realtà dell’industria continua sulla stessa linea.
Vi sono anche vari esempi di come il cartello farmaceutico transnazionale ha boicottato i paesi produttori di farmaci generici (vale a dire il cui brevetto è scaduto) soprattutto nel caso di medicine con forte richiesta in situazioni di epidemie. Nel 2001, 39 grandi imprese farmaceutiche bloccarono la vendita in Sudafrica di tutti i loro medicinali, per fare pressione affinché non comprassero medicinali generici per l’aids. Non essendo riusciti a raggiungere tale obiettivo, negoziarono in blocco un prezzo che sebbene fosse 10 volte più basso del prezzo commerciale iniziale delle imprese farmaceutiche, era molto superiore a quello che poteva essere ottenuto con fabbricazione propria.
Oggi l’industria ha sviluppato la strategia supplementare di produrre i propri generici. Attualmente, Pfizer e Teva, entrambe nel gruppo delle prime 10 transnazionali, sono anche le più grandi produttrici globali di alcuni generici, e per alcuni medicamenti sono riuscite ad avere il monopolio sul mercato, ottenendo così lo stesso effetto di averne il brevetto.
È tutta un’industria contro la salute.

* Ricercatrice del Gruppo ETC.
Fonte: “Trasnacionales farmacéuticas: receta para el lucro”, in La Jornada, 25/01/2020.
Traduzione a cura di Camminardomandando


venerdì 28 febbraio 2020

La vera emergenza - Luca Manes



La vera e concreta minaccia per l’umanità? Elementare Watson: la crisi climatica. E se lo dicono gli economisti della banca d’affari JP Morgan ci troviamo di fronte alla prova regina che siamo tutti a rischio per come abbiamo strapazzato il Pianeta in tutti i modi possibili e immaginabili. Altro che sindrome influenzale impacchettata in una fin troppo malriposta psicosi…
Partiamo da un primo dato: dalla firma dell’accordo di Parigi, datato dicembre 2015, JP Morgan ha fornito 75 miliardi di dollari (61 miliardi di sterline) di servizi finanziari alle società più attive nel fracking e nella ricerca di petrolio e gas nell’Artico. Ma gli alti papaveri della banca d’affari più amica dei combustibili fossili devono aver compreso che il global warming è un problema reale – forse dovrebbero condividere i loro timori con qualche noto editorialista nostrano – e per capirne di più hanno commissionato una ricerca a due dei loro migliori economisti, David Mackie e Jessica Murray.
Il rapporto è finito nelle mani di Rupert Read, portavoce di Extinction Rebellion UK e docente di filosofia all’Università dell’East Anglia, che lo ha girato al Guardian.
Nell’articolo pubblicato nei giorni scorsi dal quotidiano inglese si leggono stralci dello studio a dir poco eloquenti: la crisi climatica avrà un impatto sull’economia mondiale, sulla salute umana, sulle risorse idriche, sulle migrazioni e sulla sopravvivenza di altre specie sulla Terra. “Non possiamo escludere esiti catastrofici per l’umanità”, segnala il documento, datato 14 gennaio 2020.

Attingendo alla vasta letteratura accademica e alle previsioni del Fondo Monetario Internazionale e del Gruppo Intergovernativo delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici (IPCC), il rapporto rileva che siamo sulla buona strada per raggiungere i 3,5°C al di sopra dei livelli preindustriali entro la fine del secolo. Si afferma inoltre che la maggior parte delle stime dei probabili costi economici e sanitari sono troppo basse perché non tengono conto della perdita di ricchezza, del tasso di sconto e della possibilità di un aumento delle catastrofi naturali.
Gli autori sostengono che i governi devono cambiare direzione perché una politica climatica del tipo business as usual “spingerebbe probabilmente la terra in un luogo che non vediamo da molti milioni di anni”, con risultati che potrebbero essere impossibili da invertire.
“Anche se non sono possibili previsioni precise, è chiaro che la Terra si trova su una traiettoria insostenibile” è un altro dei moniti di Mackie & Murray.
La crisi climatica “riflette un fallimento del mercato globale, perché i produttori e i consumatori di emissioni di CO2 non pagano per i danni climatici causati dalle loro attività”. Per invertire questa tendenza, gli autori evidenziano la necessità di una carbon tax globale, ma avvertono che “non accadrà tanto presto” a causa delle preoccupazioni per l’occupazione e la competitività.
Di conseguenza è “probabile che la situazione continuerà a peggiorare, forse più che in qualsiasi scenario dell’IPCC”.
JP Morgan deve ancora fare tanta strada per una completa redenzione, ma è notizia delle ultime ore che almeno ha deciso di porre fine a tutti i prestiti alle aziende estrattive che operano nell’Artico.



potere del virus o virus al potere?


Il virus e la militarizzazione delle crisi - Raúl Zibechi

Dobbiamo risalire al tempo del nazismo e dello stalinismo, quasi un secolo addiètro, per trovare esempi di controllo della popolazione tanto esteso e intenso come quelli che stanno avvenendo in Cina con la scusa del coronavirus. Un gigantesco panopticon militare e sanitario, che confina la popolazione costringendola a vivere rinchiusa e sottoposta a permanente vigilanza.
Le immagini della vita di ogni giorno in ampie zone della Cina che ci arrivano, non solo nella città di Wuhan e nella provincia di Hubei, dove vivono 60 milioni di persone, danno l’impressione di un enorme campo di concentramento a cielo aperto a causa dell’imposizione della quarantena per tutti gli abitanti.
Città deserte dove transita soltanto il personale di sicurezza e sanitarioSi misura la temperatura a ogni persona che entra in un supermercato, nei centri commerciali e nei complessi residenziali. Se ci sono membri di una famiglia in quarantena, soltanto uno di loro ha il diritto di uscire ogni due giorni per comprare i viveri.
In alcune città, quelli che non usano le mascherine possono finire in carcere. Si incoraggia l’utilizzo di guanti monouso e matite per premere i bottoni dell’ascensore. Le città della Cina sembrano città fantasma, fino al punto che a Wuhan quasi non si incontrano persone per la strada.

È necessario ribadire che la paura sta circolando a maggior velocità del coronavirus e che, a differenza di quel che si fa credere, “il principale assassino nella storia dell’umanità è stato ed è la denutrizione”, come segnala una imperdibile intervista del portale Comune-info.
La consuetudine abituale nella storia è stata porre in quarantena persone contagiate, mai si sono isolate in questo modo milioni di persone sane. Il medico e accademico dell’Istituto di Salute Globale della University College London, Vageesh Jain, si domanda: “Ha una giustificazione una reazione tanto drastica? Cosa accade con i diritti delle persone sane?”.
Secondo l’OMS, ogni persona contagiata dal coronavirus può contagiarne altre due, mentre un malato di morbillo può contagiarne tra le 12 e le 18. Per questo Jain assicura che oltre il 99.9% degli abitanti della provincia di Hubei non sono contagiati e che “la gran maggioranza della popolazione intrappolata nella regione non sta male ed è poco probabile che sia infettata”.
Il bollettino 142 del Laboratorio Europeo di Anticipazione Politica (LEAP) fa questa riflessione: “La Cina ha scatenato un piano d’azione di emergenza di dimensioni senza precedenti dopo soltanto 40 morti su una popolazione di un miliardo e 200 mila persone, sapendo che l’influenza uccide in Francia 3 mila persone ogni anno“. Nel 2019 l’influenza ha ucciso 40 mila persone negli Stati Uniti. Il morbillo uccide nel mondo 100 mila persone l’anno e l’influenza mezzo milione.
Il LEAP sostiene che siamo di fronte a un nuovo modello sociale di gestione delle crisi, che può contare sul consenso dell’Occidente. L’Italia ha seguito questo cammino nell’isolare dieci centri con 50 mila abitanti, quando c’erano ancora solo poche decine di persone colpite dal virus.
La Cina esercita un sofisticato controllo della popolazione, dalla video-vigilanza con 400 milioni di videocamere nelle strade fino al sistema di punti di “credito sociale” che regola il comportamento dei cittadini. Adesso il controllo si moltiplica, comprendendo la vigilanza territoriale con brigate di cittadini “volontari” in ogni quartiere.

Vorrei fare qualche considerazione, non dal punto di vista sanitario ma da quello che comporta la gestione di questa epidemia per i movimenti anti-sistemici.
La prima è che, essendo la Cina la futura potenza egemone globale, le pratiche del suo Stato verso la popolazione rivelano il tipo di società che le élite vogliono costruire e propongono al mondo. Le forme di controllo che esercita la Cina sono enormemente utili alle classi dominanti di tutto il pianeta per tenere a bada los de abajo (quelli che stanno in basso, ndt), in periodi di profonde e impetuose scosse economiche, sociali e politiche, di crisi terminale del capitalismo.
La seconda è che le élite stanno usando l’epidemia come laboratorio di ingegneria sociale, con l’obiettivo di chiudere la rete sulla popolazione con una doppia maglia, a scala macro e micro, combinando un controllo minuzioso a scala locale con un altro, generale ed esteso come la censura in Internet e la video-vigilanza.
Siamo probabilmente di fronte a un saggio di prova di quel che si applicherà nelle situazioni critiche, come i disastri naturali o gli tsunami e i terremoti; ma soprattutto di fronte alle grandi esplosioni sociali capaci di provocare crisi politiche devastanti per los de arriba, (quelli che stanno in alto, ndt). Insomma, le élite si preparano per eventauli sfide al proprio dominio.
La terza considerazione è che noi non sappiamo ancora come potremo affrontare questi potenti meccanismi di controllo di grandi popolazioni, meccanismi che si combinano con la militarizzazione della società di fronte alle rivolte e alle sollevazioni, come accade, per esempio, in Ecuador.
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Traduzione per Comune-info di marco calabria. Questo articolo uscirà anche su La Jornada



Il Coronadigos - Marco Bersani
L’incredibile sproporzione tra il problema che si sta affrontando -la scoperta e la diffusione del Coronavirus- e le misure intraprese -lo stato d’eccezione applicato in alcune regioni e tendenzialmente all’intero Paese- rivela qualcosa di molto profondo sulle dinamiche sociali e di potere che stanno attraversando una società come quella italiana, sfinita da tre decenni di cultura politica neoliberale, che, oltre a peggiorarne pesantemente le condizioni di vita, ne ha polverizzato ogni legame sociale.
E, sebbene questa situazione presenti anche paradossi disvelanti -il virus è arrivato via aereo con la cravatta dell’uomo d’affari, non via mare con gli abiti sdruciti del migrante- e qualche volta persino divertenti -a quando il primo barcone di industriali del nordest che cercherà di entrare in Romania e, respinto, verrà soccorso dalla prima ong leghista con Salvini al timone?- ciò su cui occorre porre l’attenzione sono almeno due aspetti inquietanti.
Il primo riguarda il potere e le vette di disciplinamento sociale che sta sperimentando. Foucault diceva che le misure a suo tempo prese per contrastare la lebbra e la peste costruivano due forme di potere differenti e complementari con un unico scopo: quello di controllare la società.
E se le misure prese per contrastare la lebbra si basavano sul rigetto, l’esclusione sociale e l’abbandono degli ammalati al loro destino, con l’obiettivo di salvaguardare la società dagli stessi e di perseguire il sogno della comunità pura, le misure prese per contrastare la peste si basavano sul rigidissimo controllo e sulla ripartizione ossessiva degli individui, che venivano differenziati, incasellati e normati, con l’obiettivo di governare meticolosamente la società e di perseguire il sogno della comunità disciplinata.
Scriveva Foucault al proposito “Questo spazio chiuso, tagliato con esattezza, sorvegliato in ogni suo punto, in cui gli individui sono inseriti in un posto fisso, in cui i minimi movimenti sono controllati e tutti gli avvenimenti registrati, in cui un ininterrotto lavoro di scritturazione collega il centro alla periferia, in cui il potere si esercita senza interruzioni, secondo una figura gerarchica continua, in cui ogni individuo è costantemente reperito, esaminato e distribuito fra i vivi, gli ammalati, i morti, tutto ciò costituisce un modello compatto di dispositivo disciplinare”.
L’analogia con quanto sta accadendo in questi giorni è impressionante, ma diventa inquietante se lo si paragona con la “minaccia” che incombe: non siamo in presenza della lebbra, né della peste, bensì di un virus del raffreddore, ovviamente da non sottovalutare in quanto nuovo e per il quale nessuno ha di conseguenza sviluppato gli anticorpi, ma che per virulenza e mortalità, ha una pericolosità estremamente limitata.
Sembra evidente come le misure intraprese per contrastarlo non rispondano ad un’esigenza di salute pubblica, ma ad una lezione di pedagogia disciplinare di massa. Da diversi punti di vista.
Il primo dei quali riguarda i soggetti: mentre è chiaro come la categoria veramente a rischio sia quella degli anziani con patologie pregresse, tutte le misure sono principalmente rivolte ai bambini, ai giovani e agli adulti.
Il secondo riguarda gli spazi: nelle zone prive di focolai sono salvaguardati i luoghi della produttività di bambini e adulti, che devono andare in classe e sul luogo di lavoro, ma non possono fare nient’altro, essendo vietati tutti gli spazi della curiosità, dell’incontro, dell’arricchimento culturale e spirituale, della socialità.
Il terzo riguarda i tempi: la chiusura alle 18 dei locali a Milano, a meno di immaginare ascendenze vampiresche del Coronavirus, sembra un plateale invito all’autoisolamento nel panico individuale, dopo aver comunque dato il proprio contributo al Pil della nazione.
L’apogeo è stato raggiunto dalla Regione Marche che, pur in assenza di qualsiasi focolaio, nonché di qualsiasi persona ammalata, ha chiuso tutte le scuole e proibito tutte le attività di incontro, fino a farsi impugnare il provvedimento dal governo, che ora dovrà spiegare al solerte governatore come, affinché la pedagogia disciplinare funzioni, serve almeno una parvenza di shock (che so, un malato), altrimenti il re viene visto nudo da tutti.
Questo ci porta al secondo aspetto inquietante di tutta questa vicenda. E riguarda la società e la sua passività. Com’è infatti possibile che tutto questo avvenga senza alcun sussulto sociale, che non siano le battute ironiche che viaggiano via social? Come mai, da un lato all’altro della penisola, si fa incetta di amuchina indipendentemente dal rischio reale? Perché abbiamo accettato di trasformare le maschere di carnevale, allegre, variopinte e reciprocamente comunicanti, con mascherine tristi e monocolore con le quali transitiamo su autobus e metropolitane, comunicando tensione ed ostilità?
C’è qualcosa di molto profondo che sta emergendo in questi giorni, al punto da aver quasi ammutolito personaggi come Salvini di fronte allo stupore di un sogno, per quanto a sua insaputa, realizzato: un  popolo che vive di paura e che si fa disciplinare. Addirittura grato al potere di aver finalmente identificato un nemico reale e di aver dato un nome ad un’angoscia da insicurezza che era divenuta insopportabile.
Non si tratta di proporre eccentriche violazioni ai divieti imposti o velleitarie chiamate all’esodo da questa situazione paradossale: si tratta di iniziare a interrogarci tutte e tutti assieme se e per quanto tempo continueremo a consegnare le nostre esistenze e la loro dignità a chi, una volta utilizzando la trappola del debito per respingere ogni rivendicazione di diritti e l’altra utilizzando un’epidemia per disciplinare l’intera società, ci chiede di interiorizzare la solitudine competitiva come unico orizzonte esistenziale.

Madamina ecco il catalogo amici-nemici dell’Italia - Alberto Negri



Sulla nostra politica estera si leggono cose deliranti semplicemente perché fa fatica a esistere, nonostante abbia ottenuto il sì europeo a una missione navale, aerea e forse pure terrestre che blocchi l’ingresso di armi in Libia. Il dato più allarmante però è che non abbiamo leve negoziali quasi con nessuno. Ma vediamo un po’ l’elenco di amici e nemici. Madamima il catalogo è questo…
Partiamo in ordine cronologico dalla Russia soltanto perché abbiamo avuto ieri l’incontro a Roma con il ministro degli Esteri Lavrov e quello della Difesa Shoigun. Incontro era stato rinviato più volte perché questo governo come quelli precedenti non vuole mai irritare troppo gli americani a causa dei dazi. Questi rinvii hanno un po’ agitato i russi che però tengono talmente alla sponda italiana nell’Unione europea che hanno tollerato con magnanimità.
Sono gli unici che anche per ragioni culturali oltre che economiche (gas, imprese italiane e sanzioni) ci danno una certa importanza e infatti ci hanno scelto con partner in estate per una grande fiera sull’innovazione e si preparano a marzo per la grande assemblea interparlamentare. Insomma la Russia sta dalla nostra parte anche se in Libia Mosca sostiene Haftar e non il governo di Tripoli: ma i russi, almeno a parole, promettono che gli interessi dell’Eni, partner storico nel gas, non verranno toccati in ogni caso. Il libro di Aldephi di Pavel Muratov, “Immagini dell’Italia”, è un peana, per la verità un po’ datato, alle bellezze naturali e artistiche del nostro Paese con un lunghissimo elenco di artisti e letterati russi innamorati dell’Italia. Così istruttivo e commovente che mi è venuto un senso di colpa per non averlo letto prima.
Con gli Stati Uniti non abbiamo problemi: abbiamo digerito tutto il menu americano e siamo stati ricompensati. Siamo i soldatini più obbedienti degli Usa. Ogni anno solo per questo alla serata degli Oscar dovrebbero darcene uno alla carriera. “Siamo stati liberati dagli americani”: è il refraìn che ripetiamo da decenni, nasciamo con questo imprinting. Salvo poi scoprire nel corso del tempo che c’è stata anche la Resistenza, che gli Usa hanno cercato di alimentare da noi colpi di stato anti-comunisti, strategie della tensione e molto altro: fino al sospetto supremo, la fine di Aldo Moro. Ecco cosa scriveva Moro nel Memoriale redatto mentre era in mano alle Br: “L’Italia era frequentemente in difficoltà anche per le pressioni americane che tenevano in limitato conto gli interessi del nostro Paese”.
Allora come oggi. Dopo la seconda guerra mondiale volevano che Mattei liquidasse l’Agip così dovevamo comprare petrolio solo da loro e in Libia hanno cercato più volte di ammazzare Gheddafi che fu salvato da Andreotti e Craxi. Fino al 2011, quando con francesi e inglesi hanno liquidato il raìs e inferto all’Italia la peggiore sconfitta dall seconda da guerra mondiale. A essere onesti Obama in una lunga intervista all’”Atlantic” ammise che “La Libia è stato il peggiore errore della mia presidenza”.
Questo non ha impedito a Trump e a Pompeo di ignorare gli interessi italiani in Libia prendendoci in giro ogni volta con la promessa della “cabina di regia”. Gli americani, come ammette la nostra diplomazia, ci hanno mollati.
Diciamo che ci tengono per il guinzaglio, ovvero appesi ai dazi. All’ultima tornata l’Italia è stata risparmiata perché ha ingoiato tutto il menu Usa. In primo luogo l’ampliamento delle basi militari da Camp Darby alla Sicilia, una sostanziale disponibilità ad accogliere le testate nucleari che gli Usa ritireranno dalla Turchia. E poi, dulcis in fundo, l’Italia proprio ieri si è dileguata a Bruxelles dalla riunione dei ministri degli Esteri europei per il riconoscimento dello stato palestinese in funzione di contrasto al Piano Trump, una vera e truffa ai danni degli arabi.
Insomma facciamo quello che ci chiedono Washington e Israele i veri padroni della nostra politica estera.
La Germania è un nostro alleato riluttante. Per i nostri debiti i tedeschi ci prenderebbero a pedate ma siccome esportano come dei matti e si riforniscono da noi per componenti essenziali della loro industria (automotive in particolare) ci tengono in minimo conto. Assestandoci qualche umiliazione. Alla Conferenza sulla sicurezza europea di Monaco la ministra della Difesa tedesca Kramp-Karrenbauer _ una che ha già fallito su tutto _ ha annunciato che l’Italia può entrare nel clan ristretto con Francia e Gran Bretagna sulla Libia e il Medio Oriente.
L’Italia sarà pure un Paese dei balocchi ma in Libia tiene 300 soldati a Misurata, in Iraq ha un contingente di 950 soldati, in Libano di 1.200 e in Afghanistan di oltre 800, senza contare quelli nei Balcani e in altre missioni Onu: non risulta che i tedeschi abbiano la stessa presenza militare sul campo. Al prossimo giro di giostra degli americani in Iraq, dove hanno ammazzato il generale iraniano Qassem Soleimani, dovremmo chiedere che i tedeschi ci diano una mano a prendere sulla testa qualche missile quando gli Usa chiederanno alla Nato di sostituirli come bersagli.
Sui rapporti con la Francia ci sarebbe da scrivere un libro ma nessuno ha voglia di farlo. Ormai anche i bambini hanno capito che i francesi ci vogliono contenere in Libia e su tutti i mercati arabi e africani dove siamo concorrenti. Ma i francesi hanno comprato da noi banche, assicurazioni e imprese, come volevano fare già nell’Ottocento dando una mano alla monarchia sabauda a fondare il Regno, quindi non hanno interesse a farci crollare ma a tenerci a bada e a delimitare il giardino del nostro campo giochi. E poi la Francia, che non se la passa benissimo, ci serve a contenere la Germania e noi serviamo a loro proprio per questo.
A Turchia ed Egitto vendiamo armi a tutto spiano. Con i turchi abbiamo aperto il contenzioso di Cipro greca per il gas offshore mentre con il Cairo siamo i maggiori fornitori di gas attraverso il giacimento Eni di Zhor. Vorremmo fare affari con tutti e due i raìs, nemici tra di loro, che però ci tengono appesi per il bavero. I turchi minacciano sempre di mandarci profughi sia attraverso la rotta balcanica e ora anche dalla Libia dove controllano il governo Sarraj. Mentre con gli egiziani abbiamo aperto la questione Regeni e ora anche il caso Zaki. Ma siamo pronti a venderci qualunque principio sui diritti umani pur avere la nostra fetta di torta di commesse.
L’aspetto più eclatante è che, a differenza delle altre potenze europee, nel Mediterraneo ci ricattano tutti perché incapaci di avere qualche leva per trattare con gli uni e con gli altri. Quindi datevi da fare se potete.

giovedì 27 febbraio 2020

dice Lorenzo Milá

accade in Palestina

Il portavoce dell’IDF annuncia: continuate pure a sparare ai bambini palestinesi - Gideon Levy

I soldati israeliani sparano ai bambini. A volte li feriscono e a volte li uccidono. A volte i bambini restano clinicamente morti, a volte disabili. A volte i bambini hanno lanciato pietre contro i soldati, o un cocktail di Molotov. A volte finiscono per caso nel mezzo di uno scontro. Quasi mai mettono in pericolo la vita dei soldati.
A volte i soldati sparano ai bambini intenzionalmente, a volte per errore. A volte mirano alla testa o alla parte superiore del corpo, a volte sparano in aria e colpiscono i bambini alla testa. Ecco cosa succede quando un corpo è piccolo.
A volte i soldati sparano con l’intento di uccidere, a volte di punire. A volte usano proiettili regolari e a volte proiettili rivestiti di gomma, a volte sparano da molto distante, a volte in un’imboscata, a volte a distanza ravvicinata. A volte sparano per paura, rabbia, frustrazione e per la sensazione di non avere altra opzione, a volte per una perdita di controllo, a volte a sangue freddo. I soldati non vedono mai le loro vittime dopo averle colpite. Se vedessero ciò che hanno causato, potrebbero smettere di sparare.
I soldati israeliani sono autorizzati a sparare ai bambini. Nessuno li punisce per aver sparato ai bambini. Quando un bambino palestinese viene ucciso, non è una notizia. Non c’è differenza tra il sangue di un bambino palestinese e il sangue di un adulto palestinese. Hanno entrambi poco valore. Quando un bambino ebreo viene ferito, tutto Israele trema, quando un bambino palestinese viene ferito, Israele sbadiglia. E troverà sempre, sempre, una giustificazione per i soldati che sparano ai bambini palestinesi. Non troverà mai, mai una giustificazione per i bambini che lanciano pietre contro i soldati che fanno irruzione nel loro villaggio.
Un ragazzo di nome Abd el-Rahman Shatawi è da sei mesi nell’ospedale di riabilitazione di Beit Jala. Da 10 giorni un suo parente, Mohammed Shatawi, è ricoverato all’Hadassah University Hospital, Ein Karem, a Gerusalemme. Entrambi provengono dal villaggio di Qaddum in Cisgiordania. I soldati israeliani hanno sparato a entrambi in testa. Ad Abd el-Rahman hanno sparato da una grande distanza con proiettili regolari mentre si trovava all’ingresso della casa di un amico, a Mohammed hanno sparato un proiettile rivestito di gomma da una collina vicina mentre lui cercava di nascondersi lungo le pendici di quella stessa collina. L’esercito ha dichiarato che aveva incendiato una gomma.
Abd el-Rahman ha 10 anni e sembra piccolo per la sua età. Mohammed ne ha 14 ma dimostra più anni. Questi sono i bambini della realtà palestinese, entrambi sospesi tra la vita e la morte. La loro vita e quella dei loro genitori sono state distrutte. Il padre di Abd el-Rahman lo porta a casa da Beit Jala a Qaddum una volta a settimana per fargli trascorrere il week end nel villaggio, il padre di Mohammed non si allontana dalla porta dell’unità di terapia neuro-intensiva di Hadassah Ein Karem, dove è solo di fronte a suo figlio e al suo destino. A nessuno di questi bambini si sarebbe dovuto sparare. Nessuno dei due avrebbe dovuto essere colpito alla testa.
Dopo che Abd el-Rahman venne colpito, l’ufficio del portavoce dell’esercito dichiarò che “durante un incidente è stato ferito un minore palestinese”. Dopo che Mohammed venne colpito, il portavoce dichiarò: “C’è una denuncia relativa a un palestinese che è stato ferito da un proiettile di gomma”. L’ufficio ha familiarità con queste denunce. Il portavoce dell’esercito è la voce delle forze di difesa israeliane. L’IDF è un esercito popolare, quindi il portavoce dell’IDF parla anche per Israele.
I portavoce emettono le loro dichiarazioni da un nuovo grattacielo a Ramat Aviv vicino a Tel Aviv, dove l’ufficio si è recentemente trasferito. Definiscono un ragazzo di 10 anni come un “minorenne palestinese” e osservano che ”la denuncia palestinese è nota” riferendosi a un ragazzo che sta lottando per la vita perché i soldati gli hanno sparato alla testa. La disumanizzazione dei palestinesi ha raggiunto i portavoce dell’IDF. Persino i bambini non suscitano più sentimenti umani come il dispiacere o la misericordia, certamente non nell’IDF.
L’ufficio del portavoce IDF fa bene il suo lavoro. Le sue dichiarazioni riflettono lo spirito del tempo e del luogo. Non c’è spazio per esprimere alcun rimpianto per aver sparato ai bambini in testa, non c’è spazio per la misericordia, le scuse, un’indagine o una punizione e certamente non per alcun risarcimento. Sparare a un bambino palestinese è considerato meno grave rispetto che sparare a un cane randagio, per il quale c’è ancora una possibilità che qualcuno indagherà.
Il portavoce dell’IDF annuncia: continuate pure a sparare ai bambini palestinesi.
(Trad: Grazia Parolari “contro ogni specismo, contro ogni schiavitù” – Invictapalestina.org)
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La Palestina intraprenderà un’azione legale contro Amazon per le spedizioni gratuite negli insediamenti ebraici illegali

L’Autorità Palestinese ha annunciato martedì che intraprenderà azioni legali contro il gigante del commercio al dettaglio Amazon sulla politica della società che consente agli israeliani che vivono negli insediamenti ebrei illegali la consegna gratuita, e facendola invece pagare ai Palestinesi che vivono nella Cisgiordania occupata.
Martedi scorso il Ministero dell’Economia dell’Autorità Palestinese ha dichiarato che invierà una lettera ad Amazon chiedendo una sospensione immediata delle sue attività commerciali negli insediamenti israeliani.
Il ministero ha anche detto che intenterà un’azione legale contro la società di e-commerce, per “la sua politica di discriminazione che favorisce gli insediamenti ebraici illegali nei Territori palestinesi occupati rispetto alla popolazione palestinese locale.
La mossa arriva dopo che un rapporto del Financial Times aveva rivelato, in palese sfida al diritto internazionale, che Amazon stava offrendo la spedizione gratuita agli insediamenti ebrei illegali nella Cisgiordania occupata, ma non ai palestinesi che vivono nella stessa area.
In effetti, i clienti palestinesi che indicano il loro indirizzo come “Territori Palestinesi” sono costretti a pagare le spese di spedizione e gestione a partire da 24 dollari.
Il portavoce di Amazon Nick Caplin ha dichiarato al Financial Times che i palestinesi possono aggirare il problema solo selezionando Israele come loro Paese.
“Se un cliente all’interno dei Territori Palestinesi inserisce il proprio indirizzo e seleziona Israele come suo  Paese di residenza, può avere la spedizione gratuita grazie alla stessa promozione”, ha affermato Caplin.
Amazon non è stata inclusa dall’United Nations Human Rights Council nel database delle società che operano negli insediamenti illegali rilasciato la scorsa settimana.

(Trad: Grazia Parolari “contro ogni specismo, contro ogni schiavitù” -Invictapalestina.org)
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L’«accordo del secolo»: l’apartheid sarebbe un «futuro più luminoso»? - Richard Falk

Sarebbe stato folle attendersi un compromesso politico equilibrato da parte della presidenza Trump. E’ stato chiaro fin dalla sua elezione, a sorpresa, nel 2016, quando Trump aveva affidato la politica mediorientale e, nello specifico, la questione israelo-palestinese a suo genero Jared Kushner, inesperto ed estremista sionista, assistito da persone ugualmente non qualificate. Trump ha fatto quello che non avevano mai osato fare gli altri inquilini filoisraeliani della Casa bianca: ha riconosciuto Gerusalemme come capitale di Israele e vi ha spostato l’ambasciata statunitense, ha sostenuto la legalità degli insediamenti malgrado la flagrante violazione del diritto umanitario internazionale, ha dato via libera all’annessione israeliana delle alture del Golan senza riguardo per la sovranità della Siria, ha tagliato i fondi per gli aiuti e ha chiuso l’ufficio informazioni della Palestina a Washington.
IN UN SIMILE contesto, non può sorprendere che l’«Accordo del secolo» delinei un piano centrato sulla resa politica della Palestina, corredato da un pacchetto di incentivi (che presumibilmente sarebbero finanziati dai paesi arabi del Golfo) purché i palestinesi facciano i bravi bambini e rinuncino a ogni diritto e rivendicazione, pur fondati sulle norme internazionali.
IN SUDAFRICA, nel disperato sforzo di stabilizzare il regime dell’apartheid, erano state create enclave etniche disseminate nel paese, con una parvenza di governo autonomo ma completamente subordinate alle strutture gerarchiche dell’apartheid e al feroce sfruttamento di gran parte della popolazione africana. La cosiddetta «mappa concettuale» del piano di Trump assomiglia molto a quegli accordi di «sviluppo separato» definiti «bantustan». Non a caso, 25 anni dopo con la fine dell’apartheid, i bantustan svanirono subito . E una volta che le proposte di Trump cadranno nell’oblio, il perverso concetto di autodeterminazione che esse contengano seguirà lo stesso destino.
NATURALMENTE, l’offerta di uno staterello palestinese, costituito soprattutto da comunità urbane della West Bank messe insieme pur non essendo contigue, funge anche da espediente per nascondere o almeno minimizzare un ulteriore land-grabbing da parte israeliana. Invece di ritirarsi dalla West Bank come richiesto all’unanimità dalla risoluzione 242 del Consiglio di sicurezza, Israele stabilisce il proprio controllo sull’80% della Palestina occupata, dando alla Palestina alcune aree desertiche nell’inabitabile Negev.
NEL 2005, COME passo per raggiungere la pace con i palestinesi, Israele attuò il cosiddetto «disimpegno da Gaza». Fu ritirato l’esercito israeliano che all’epoca occupava la Striscia smantellando gli insediamenti dove vivevano 18000 coloni. Israele sostenne che queste decisioni mettevano fine alla responsabilità israeliana come potenza occupante sulla base del diritto internazionale. Ma presto fu chiaro che non di fine dell’occupazione si trattava ma di una nuova modalità di controllo, in tutta evidenza più devastante per la popolazione civile della Striscia di Gaza rispetto alla precedente occupazione. Israele ha continuato a controllare la frontiera fra Gaza e l’Egitto, mantenendo anche il controllo sovrano su spazio aereo e acque territoriali di Gaza. Economia e condizioni di vita nella Striscia sono peggiorate, accentuate dalle misure punitive adottate dopo l’arrivo al potere di Hamas. Sviluppi che hanno stimolato la resistenza di Gaza, e poi incursioni militari israeliane in risposta ai missili lanciati dalla Striscia; insomma, dopo il cosiddetto disimpegno, la popolazione civile di Gaza è stata fatta oggetto di attacchi massicci, causa di grandi sofferenze e violazione di ogni diritto.
L’accordo di Trump offre al più una versione peggiorata della Gaza post-disimpegno. Conferisce il controllo delle frontiere esclusivamente a Israele, esige una completa smilitarizzazione dello staterello palestinese, rende le comunità palestinesi completamente vulnerabili all’azione militare israeliana. Un regime così opprimente, qualora ci si arrivasse, provocherebbe certamente una resistenza violenta, e parallelamente una periodica dimostrazione di forza da parte di Israele, con il corredo di punizioni collettive contro i palestinesi. Visto quanto è accaduto a Gaza, l’accettazione palestinese di una situazione analoga per tutta la Palestina sarebbe un atto di estrema autodistruzione. È già terribile essere assoggettati con la forza, ma è inimmaginabile che si decida di ingoiare volontariamente un simile veleno.
SE QUESTO è l’Accordo del secolo, sarà un secolo triste per tutti noi. Ma forse, dall’estremismo delle ingiuste proposte messe sul tavolo da parte degli Stati uniti, potrebbero nascere risposte utili: una leadership palestinese unita, la richiesta di un’intermediazione neutrale al posto di quella statunitense, la crescita della solidarietà con la lotta palestinese, l’inizio di uno sforzo internazionale per processare Israele per crimini contro l’umanità. Ma la premessa a ogni sincera iniziativa diplomatica in grado di portare a una vera pace deve essere la dissoluzione dell’attuale regime di apartheid israeliano. Ogni altro approccio porterebbe al massimo a un temporaneo cessate il fuoco.
* Inviato dell’Onu per i diritti umani nei Territori occupati e professore emerito di diritto internazionale all’Università di Princeton
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La grande truffa - Luisa Morgantini

La grande truffa, o forse farsa, ma certamente tragedia del tanto annunciato “accordo del secolo”che dovrebbe portare la pace tra Israele e Palestina, è stata presentata alla Casa Bianca con musiche solenni e alla presenza di molti milionari cristiani evangelici ed ebrei, tutti grandi donatori e sostenitori delle colonie ebraiche in Palestina, tutti tronfi ad applaudire e a sorridere mentre veniva definitivamente sotterrato il diritto internazionale e la possibilità per il popolo palestinese di vivere libero in un proprio Stato.  “Una visione di pace e di prosperità”, si ripete continuamente, visione di pace è scritto anche sulla cartina all’interno del piano presentato, un testo di 181 pagine, molte delle quali scritte interamente da esperti israeliani soprattutto nelle parti riguardanti gli insediamenti o le strade, le bypass road. Sulla cartina non vi è nemmeno scritto il nome Palestina o territori occupati, compare per due volte solo Israele, e poi a bei colori si vedono i territori palestinesi che dovrebbero essere lo Stato di Palestina tagliati a pezzetti, enclave o bantustan per ricordare il Sudafrica dell’apartheid.
Ma non è una sorpresa: Trump a partire dal trasferimento dell’Ambasciata a Gerusalemme, dalla chiusura degli uffici dell’Olp negli Stati Uniti, dalla guerra economica e politica contro l’Unrwa, organizzazione Onu per i rifugiati palestinesi, dal ritiro degli aiuti di Us Aid (che ha lasciato sul lastrico migliaia di palestinesi compresi imprenditori), dalla conferenza nel Bahrein, aveva dimostrato che lui è il più grande amico di Israele e, a dispetto di tutte le risoluzioni Onu e della posizione degli Stati, lui, novello imperatore, si arroga il diritto di decidere per tutti.
Il piano non fa che legittimare tutte le violazioni compiute da Israele in questi oltre cinquant’anni di occupazione militare e di colonizzazione dei territori palestinesi: assume le richieste della destra nazionalista, messianica e non, con alla testa i ministri Lieberman e Bennet, i quali da anni propongono il trasferimento della popolazione palestinese di cittadinanza israeliana del “Triangolo” nella Bassa Galilea (più di 10 villaggi con 260mila persone), nello Stato palestinese; il trasferimento consacrerebbe l’attuazione di Israele come Stato ebraico, per cui bisogna disfarsi della presenza di palestinesi; lo pseudo Stato (Netanyahu non nasconde la sua contrarietà anche all’uso della  parola Stato) non avrebbe naturalmente sovranità né sullo spazio aereo né sulle falde acquifere; i confini della Cisgiordania con la Giordania sarebbero di Israele con l’annessione della Valle del Giordano, per cui i palestinesi che volessero uscire dalla Palestina dovrebbero sottostare come oggi al controllo israeliano. Tutte le colonie, piccole e grandi, più di 150 con circa 600mila coloni, vengono annesse a Israele e insieme a queste ovviamente le terre coltivabili palestinesi poste al di là del Muro (ricordiamo che la corte dell’Aja lo aveva ritenuto illegale e da smantellare perché non costruito sulla linea verde del ‘67); Gerusalemme rimane capitale unica e indivisibile e i palestinesi, a parte l’affermazione della libertà di culto per le tre religioni nella città vecchia, avranno come loro capitale Abu Dis, che con grande magnanimità il piano dice possa essere chiamata al Quds (nome arabo di Gerusalemme); le fazioni palestinesi devono deporre le armi; Hamas sciolto; i prigionieri nel caso abbiano commesso azioni militari restino in carcere, gli altri liberati a scaglioni, per primi quelli superiori ai 50 anni , gli ammalati e le donne, ma molti dovrebbero accettare l’esilio; l’autorità palestinese deve sospendere i sussidi che vengono erogati alle famiglie dei martiri e dei prigionieri.
Il piano è dettagliato e non si possono trattare qui tutte le sue nefandezze; basta però dire che la questione dei profughi viene cancellata, nessun ritorno è previsto, se non a piccole dosi, in quello che sarebbe lo Stato di Palestina. Nessuna scusa da parte di Israele per la Nakba (“catastrofe”, l’esodo forzato) del ‘47 e la Naksa del ‘67. Dice Gideon Levy, giornalista israeliano, che questo piano è una terza Nakba per la popolazione palestinese.
Che tutto ciò venisse rifiutato dai palestinesi era del tutto ovvio, ed è quello che Netanyahu si aspettava, in modo da poter ripetere la propaganda secondo cui, di fronte a ogni proposta, i palestinesi dicono no e perdono tutte le opportunità. La verità è che i palestinesi sono sempre messi di fronte al fatto compiuto, prendere o lasciare, e ogni volta purtroppo questo comporta un’accelerazione della colonizzazione israeliana.
Mahmoud Abbas ha chiesto l’aiuto della Lega Araba, che come al solito a parole conferma il sostegno e ripropone il piano arabo del 2002, ma gli Stati sono divisi. L’Arabia Saudita, ad esempio, come già fece con Balfour nel 1917, quando abbandonò la Palestina per avere un regno, ha dato il suo consenso a Trump. L’Unione Europea ha ribadito stancamente che la legalità internazionale va rispettata. I movimenti della società civile favorevoli all’autodeterminazione dei palestinesi sono deboli. In Israele vi sono state manifestazioni unitarie tra arabi e ebrei con il resto di quella che era la sinistra, per dire no all’apartheid del piano Trump. In Palestina ogni giorno ci sono manifestazioni, ma non si può chiedere troppo ai palestinesi, in questi anni sono stati massacrati e umiliati, le loro manifestazioni nonviolente represse, i militanti messi in carcere.
Forse la leadership palestinese pur mantenendo il rifiuto totale del pian Trump dovrebbe osare una proposta: lo Stato palestinese sui territori del ‘67, Gerusalemme capitale condivisa; le colonie possono restare in Palestina e i coloni diventare cittadini palestinesi in totale parità di diritti. I coloni e Israele non accetteranno mai, ma la proposta mostrerebbe che non si sentono il popolo eletto e che la terra è per tutti quelli che la abitano.
Anche noi dovremmo mobilitarci, perché questo gettare sotto i piedi il diritto internazionale non riguarda solo i palestinesi, ma anche il nostro futuro.
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L’archivio ottomano, l’arma più potente dei palestinesi contro l’occupazione

Gerusalemme – La lotta del popolo palestinese per dimostrare la proprietà della terra sotto occupazione israeliana  potrebbe fare un passo avanti grazie all’archivio ottomano.
Alla fine dello scorso anno, la Turchia ha consegnato all’Autorità Palestinese una copia elettronica di circa 38.000 pagine di documenti dell’archivio ottomano relativi alla proprietà fondiaria.
L’Impero ottomano governò il territorio della storica Palestina dal 1516 al 1917 e l’archivio contiene documenti risalenti a prima del 1917.
L’archivio è attualmente presso la Fondazione Mithaq, a Gerusalemme est. La fondazione appartiene al Ministero dei Beni e degli Affari Religiosi della Palestina e si occupa anche della ricerca del patrimonio islamico.
Dall’Agenzia di Cooperazione e Coordinamento turca (TIKA), la fondazione ha ricevuto casseforti speciali per la conservazione dell’archivio.
Salvavita
“Gli archivi palestinesi sono andati perduti a causa del mandato britannico, dell’occupazione israeliana e dello sfollamento della popolazione della Palestina”, ha detto all’Agenzia Anadolu Murad Abu Subh, responsabile dei documenti ottomani della Fondazione Mithaq.
Abu Subh ha osservato che “Israele annette le terre palestinesi  utilizzando la Legge degli Assenti o affermando che sono proprietà di persone o associazione ebree”.
In tal senso, ha affermato che l’archivio ottomano è un “salvavita” per i palestinesi per dimostrare la proprietà della terra e della proprietà.
Inoltre, i documenti sono riservati e consegnati alle parti interessate previa consultazione con le pertinenti istituzioni palestinesi.
I documenti sono scritti in lingua ottomana e il processo di traduzione è svolto da specialisti palestinesi.
Cooperazione turca
Da parte sua, il presidente di Mithaq, Khalil al Rifai, ha affermato che è in atto  una grande collaborazione tra diverse istituzioni turche e la fondazione.
“La Turchia ci fornisce tutto ciò che  richiediamo senza problemi”, ha detto a Rifai, aggiungendo che la Turchia ha fornito l’archivio  per volontà del presidente Recep Tayyip Erdogan.
Rifai ha  riferito che Mithaq sta compiendo incessanti sforzi per evitare la giudaizzazione di Gerusalemme e ha sottolineato che “l’archivio ottomano è la nostra arma per dimostrare la verità”.
Nella sua biblioteca nazionale Israele conserva  documenti che dimostrano la nostra proprietà della terra, ha detto il presidente di Mithay,  aggiungendo che tutti i documenti palestinesi sono stati confiscati da Israele.
“Non vi è alcuna giustificazione perché Israele  si preoccupi della consegna degli archivi ottomani; chiunque lavori legalmente non teme tali documenti”, ha detto Al Rifai.
Prima di ricevere il fascicolo, se un cittadino palestinese voleva documentare la proprietà della sua terra, doveva recarsi in Turchia per ottenere i documenti. Ma da oggi puoi  ottenerli in Cisgiordania.
I media israeliani hanno messo in evidenza la preoccupazione di Israele per  la decisione turca volta ad aiutare i palestinesi a dimostrare il loro diritto alla terra occupata da Israele, in particolare Gerusalemme e la Cisgiordania, fornendo loro l’archivio ottomano.
Il giornale israeliano Hayom ha riferito che “gli avvocati dell’Autorità Palestinese stanno già utilizzando documenti archiviati dell’era ottomana per rivendicare i diritti fondiari”.

(Trad: Grazia Parolari “contro ogni specismo, contro ogni schiavitù” –Invictapalestina.org)

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Com’è essere un rifugiato di seconda generazione - Kareem Sakka

I miei primi ricordi di Israele risalgono alla guerra dell’ottobre 1973. Bambino, già “sapevo” che Israele era un invasore in quella che era una parte assonnata del pianeta terra. Nonostante le stazioni radio e televisive di tutto il mondo rivendicassero vittorie arabe, anche allora sapevo che erano notizie false, i bambini riconoscono i bugiardi dal loro tono di voce.
È difficile immaginare che allora Israele avesse solo 25 anni. Guardando indietro, la copertura mediatica del Libano sulla guerra (e),  così come quella sul concetto di Israele, era probabilmente meno immaginaria rispetto alla narrazione degli altri Paesi arabi che si vantano delle vittorie.
Anche allora, non credo di aver mai percepito  da nessuno  la vera speranza di un ritorno a Jaffa. Mio padre non ha mai guardato indietro, il trauma deve essere stato troppo doloroso, tutti nella sua famiglia hanno ammesso a se stessi che non  sarebbero tornati mai più. Non una parola pronunciata sul tornare, non a casa, non nelle riunioni di famiglia, non in TV, l’obiettivo si trasferì nel recuperare la Cisgiordania e il Sinai. La vergogna fu travolgente,  e da lì la negazione. La foto della casa di famiglia in stile Bauhaus nel quartiere Ajami di Jaffa che mia nonna teneva sul suo comodino è ancora impressa nella mia memoria.
Per la maggior parte delle persone, la vita  andò avanti, tutti quelli che conoscevo lavoravano e facevano quadrare i conti, il Libano accolse con favore molti migranti e offrì loro un nuovo  inizio. Incaricato di liberare le terre palestinesi, l’OLP e le sue fazioni non assomigliavano per niente alle persone che conoscevo,  modellavano  personaggi associati a Nasser, all’Unione Sovietica, a Guevara e ad altri  prepotenti  che io adolescente vedevo attraverso occhi educati in una scuola cattolica. Volevano un popolo che assomigliasse a loro, piuttosto che viceversa, i rifugiati non hanno il lusso di eleggere i loro leader dopo tutto.
Col passare del tempo, il Qadiya, (la causa palestinese)  guadagnò il centro della scena  di tutti i despoti: distruggere Israele era uno strumento usato da Baghdad ad  Algeri e persino a Teheran per radunare e pacificare le masse. Questi despoti dirottarono, confiscarono  e commercializzarono  il Qadiya. Quando Sadat sorprese il mondo con la sua coraggiosa visita alla Knesset a Gerusalemme, c’era la speranza di recuperare la Cisgiordania, Gerusalemme e persino le alture del Golan, c’era speranza per la pace, sentii sussurrare gli adulti mentre tornavano a Jaffa, ripercorrendo il breve viaggio che molti palestinesi avevano fatto a Beirut dopo il massacro di Deir Yassine. Shamir e Sharon interruppero ogni speranza, cementando un rapporto di odio e di dominio, e subito dopo, nel 1982, Israele invase il Libano. Vedere  i soldati israeliani sfilare a Beirut  fu nauseabondo. Il mio rapporto con Israele fu coniato durante la mia adolescenza . “Vado  avanti con la mia vita, senza guardare indietro, costruirò una nuova vita voltando le spalle alla sponda orientale del Mediterraneo”, un sentimento che milioni di persone nella regione hanno provato mentre erano costretti a cercare rifugio in terre più sicure. Le idee del diritto al ritorno o di un equo compenso non mi sono mai venute in mente, ho avuto il lusso di poter dire: la terra e il diritto al ritorno non sono negoziabili.
Avanzando veloce di 36 anni, nel 70 ° anniversario della Nakba (la catastrofe palestinese), mio ​​padre mi sorprese quando mi parò per la prima volta del diritto al ritorno. Con poche parole ben scelte,  mise la mia bussola nella giusta direzione: il diritto al ritorno è sacro, Gerusalemme è la capitale del popolo palestinese, Israele è un invasore, inaccettabile tutto ciò che non preveda la soluzione a uno Stato.
Non passa giorno per lui senza che pensi a Jaffa. Come possiamo noi, rifugiati,  riuscire a non desiderare anche solo per un giorno di tornare quando quotidianamente leggiamo e vediamo compiersi ingiustizie su di un popolo disumanizzato, spogliato della sua dignità da persone  di tutto il mondo che sono invitate a stabilirsi ed espellere gli abitanti autoctoni? L’ingiustizia e il dolore dell’esodo  nutrono una fiamma inestinguibile, e la fiamma è viva  nei miei figli, rifugiati di terza generazione, nati a meno di un miglio da dove è  stata attuata la Dichiarazione Balfour.
Molti palestinesi moderati hanno pagato un costo troppo elevato per aver parlato della questione, con da un lato  gli establishments (al plurale perché abbiamo due autorità palestinesi in competizione, impantanate in problemi su entrambe le parti della Palestina del 48)  che temono che la loro presa sul Qadiya si stia indebolendo , e dall’altro gli attacchi che provengono da ogni lato. Rimanere impegnati  per  un ritorno in Palestina non è una scelta facile per le prossime generazioni, sicuramente il rifiuto di naturalizzarei palestinesi ovunque si trovino nei paesi arabi ha mantenuto viva quella fiamma.
L’idea di una convivenza pacifica  si è dimostrata  fino ad ora un’illusione, ma dobbiamo essere pronti a tornare, accettare una soluzione a un solo Stato, e dobbiamo iniziare a pianificarlo ora. Tra non molto, Israele celebrerà 100 anni di occupazione: sarà in grado di mantenere le pratiche di uno Stato di apartheid? Fino a quando una soluzione equa di un solo Stato non verrà accettata dai palestinesi, l’ingiustizia e la disumanizzazione che Israele commette quotidianamente contro i palestinesi che vivono sotto occupazione o come rifugiati, continueranno a perseguitare gli ebrei in Israele e oltre.
Trad: Grazia Parolari “contro ogni specismo, contro ogni schiavitù” – invictapalestina.org
https://www.invictapalestina.org/archives/37824#more-37824


I palestinesi sono solidali con la Nazione Wet’suwet’en

Dai Territori palestinesi occupati, siamo solidali con la Nazione  Wet’suwet’en. e con  i difensori della terra che nei campi di Unist’ot’en e Gidimten continuano a resistere alle incursioni coloniali canadesi nei loro territori.
Il Comitato Nazionale Palestinese BDS (BNC), la più grande coalizione della società civile palestinese che guida il movimento globale BDS, invia un messaggio di sostegno alla vostra lotta.
Chiediamo al movimento di solidarietà palestinese a Turtle Island e altrove di  sostenere   Nazione Wet’ssuwet’en
Come palestinesi, abbiamo esperienza diretta di come agisce una potenza coloniale, il regime israeliano di occupazione, colonizzazione e apartheid, che lavora sistematicamente per espropriare, dividere e spogliarci delle nostre terre e risorse.
Sappiamo fin troppo bene, dalla nostra esperienza, che il gasdotto TransCanada Coastal Gaslink mira a rubare la terra dei Wet’suwet’en e ad utilizzare l’attività di estrazione per rafforzare il controllo sui territori indigeni, distruggere l’ambiente e violare le leggi indigene. Sappiamo anche che gli attacchi della Royal Canadian Mounted Police (RCMP),  sostenuti dal governo Trudeau, contro la leadership ereditaria dei Wet’swuwet’en, le matriarche e i difensori della terra, vengono utilizzati per violare la sovranità indigena. L’RCMP sta impiegando tattiche e attrezzature simili a quelle del governo israeliano, inclusi i bulldozer Caterpillar, per impadronirsi delle terre indigene.
Siamo profondamente grati alla Nazione Wet’suwet’en per il loro spirito indomito e la loro instancabile difesa della terra e delle risorse idriche. Siamo fermamente con voi nella lotta per la vostra  terra e per i vostri diritti ancestrali.
Noi palestinesi siamo  in debito con i popoli indigeni di Turtle Island per averci insegnatcon la vostra fiera resistenza, grazia e spirito indomito a resistere alla colonizzazione generazione dopo generazione.
Il BNC è impegnato a costruire forti legami di solidarietà tra i nostri popoli e i nostri movimenti, e lavoreremo con i nostri partner a Turtle Island per rendere tutto ciò una realtà.
Dalla Palestina a Wet’suwet’en, siamo uniti a voi nella lotta contro il colonialismo, il razzismo, la criminalità  delle multinazionali e a favore dei vostri diritti inalienabili, per la giustizia e per  l’autodeterminazione.
Quando arriverà il momento propizio, saremo onorati di darvi il benvenuto in Palestina.

(Trad: Grazia Parolari “contro ogni specismo, contro ogni schiavitù” –Invictapalestina.org)
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Chi sono i veri antisemiti?
Nicola Carella intervista Ronnie Barkan*

Le accuse infamanti di antisemitismo a chi critica Israele, il razzismo della destra, le contraddizioni della sinistra, il Piano Trump per la Palestina. Ce ne parla un dissidente israeliano
Ronnie Barkan è un dissidente israeliano e un attivista della campagna per i diritti del popolo palestinese Bds e dei movimenti contro le politiche di colonialismo, occupazione militare e apartheid del governo israeliano. Attualmente vive a Berlino dove, insieme ad altri due attivisti, sta sostenendo un processo per aver definito pubblicamente le politiche di Israele «crimini contro l’umanità».
* * * *
Ronnie, per inquadrare innanzitutto il tuo attivismo, quali sono a grandi linee gli obiettivi politici che ti spingono ad agire in un contesto come quello tedesco in generale e berlinese in particolare?
Credo che il nostro ruolo di attivisti debba essere volto superare le ingiustizie sistemiche e affermare i diritti o i valori per i quali crediamo valga la pena lottare. In secondo luogo, come individuo, sono anche nato in un contesto specifico, in cui i miei diritti e i miei privilegi mi vengono consegnati e garantiti a spese degli «altri». Tutto ciò che riguarda la creazione del progetto sionista in Palestina ruota attorno a questa semplice nozione: i privilegi per un gruppo etnico sono a spese di tutti gli altri, specialmente se gli altri sono gli indigeni di quella terra. Chiunque pensi che lo Stato di Israele sia stato istituito per qualsiasi altro scopo è quantomeno poco informato sulla questione. Esattamente per come qualsiasi persona bianca consapevole dell’apartheid in Sudafrica o durante la schiavitù in Nord America, il mio parlare e agire per l’abolizione del sionismo è qualcosa di naturale, è il risultato diretto e più ovvio dell’essere nato in quel sistema di oppressione.
La ragione poi per cui concentro i miei sforzi in lungo e largo qui a Berlino è perché la vedo come l’ultimo bastione permanente del sionismo. Penso che piuttosto che imparare dal suo orribile passato, la Germania in generale, e Berlino in particolare, quasi non vogliano mai guardarsi allo specchio. E per questo sostengono attivamente uno Stato la cui politica ufficiale è quella di praticare crimini contro l’umanità. Poiché larga parte della cosiddetta «sinistra tedesca» è in prima linea nell’assalto ai palestinesi in nome di una presunta protezione dello Stato criminale sionista, per i pochi dissidenti israeliani che sono in giro è ancora più urgente prendere parola proprio su quel terreno in cui l’intero spettro politico tedesco risulta ambiguo.

A questo proposito tu sei tra gli animatori a Berlino della campagna internazionale Bds. E recentemente il Bundestag ha votato una mozione in cui si definiva la campagna Bds antisemita. Una definizione particolarmente odiosa e un’accusa molto grave. Come hai letto, da ebreo, dissidente israeliano e attivista della campagna questo voto? E quali riscontri ha qui in Germania la campagna Bds?
Durante le sessioni dello scorso maggio al Bundestag, c’è stato un voto unanime contro la campagna Bds. Non un singolo parlamentare, nemmeno uno, ha votato contro l’equiparazione tra Bds e antisemitismo.Tre mozioni sono state presentate al parlamento. L’Afd, una coalizione Cdu-Spd-Verdi e la Linke hanno votato ciascuno per la propria mozione ma contro quelle quasi identiche presentate dai gruppi loro concorrenti. Per quanto ne so, nessun parlamentare ha scelto di esprimere una voce dissenziente. La maggior parte delle persone si aspetterebbe che io, in quanto dissidente israeliano, individui come avversari più insidiosi un partito espressamente razzista come Afd o magari il movimento anti-Deutsch che è ultra-sionista e soffre evidentemente di dissonanza cognitiva. Ma, paradossalmente, la minaccia di gran lunga maggiore alla libertà di espressione in Germania viene da una tradizione politica ben diversa; da chi ha creato le condizioni perché si arrivasse ai recenti attacchi contro le voci filo-palestinesi e il movimento Bds. E tra questi attacchi ci sono anche i tentativi di criminalizzare gli attivisti per reati d’opinione difficilmente dimostrabili senza quel genere di voto politico. Tra questi tentativi c’è anche il procedimento penale contro di me e altri compagni per aver stigmatizzato apertamente i crimini israeliani. Amaramente devo ammettere che i principali avversari che abbiamo di fronte fanno parte della sinistra tedesca. È il partito Die Linke e la sua ala di pubbliche relazioni, la Rosa Luxemburg Stiftung che, oltre a svergognare l’eredità della stessa Luxemburg, oggi è il nostro principale antagonista. Hanno alle spalle una storia decennale di falsa equiparazione tra Bds e l’antisemitismo e di isolamento delle voci che chiedono la piena uguaglianza in Israele-Palestina. Proprio come per la cosiddetta «sinistra» israeliana, anche quella tedesca giustifica il suo attacco ai diritti dei palestinesi con una facciata democratica e pseudo-liberale. Diventa fondamentale che gli attivisti, i militanti, gli elettori siano informati in maniera seria e per questo sono preziosi i giornalisti così coraggiosi e rigorosi da confutare discorsi colmi di menzogne. Retoriche che formalmente affermano di voler promuovere pace e giustizia mentre agiscono instancabilmente per proteggere e perpetuare sette decenni di crimini israeliani contro l’umanità. E le mistificazioni e accuse contro il movimento Bds non sono solo odiose per queste ragioni ma anche perché utili a distogliere l’attenzione da casi molto reali di antisemitismo e razzismo nell’estrema destra.

Andando oltre i partiti qual è la sensibilità sulle politiche sioniste nella società tedesca, nei media, nei movimenti sociali, nella sinistra diffusa?
Dal mio soggettivo punto di vista non esiste una sinistra politica tedesca, così come non ce n’è una in Israele e per ragioni molto simili. Ho scelto di stabilirmi qui proprio perché vedo questo contesto come il posto più sionista del mondo. È vero, ovviamente, che qui è necessario lottare non solo contro il sionismo o altre forme di suprematismo. Ma per esempio, la società tedesca incoraggia l’obbedienza e non mette mai in discussione l’autorità; e da questo punto di vista c’è ancora molta strada da fare. Il largo supporto politico, acritico e miope, all’impresa criminale sionista si presenta come una «soluzione semplice» per la società tedesca; un’adesione che libera psicologicamente l’intera società dal riflettere nel profondo sul proprio razzismo strutturale e sulla propria cieca obbedienza all’autorità. A dire il vero, ad alcuni giornalisti di testate importanti è stato necessario fare espressamente divieto dal diritto di critica verso le scelte del governo israeliano, ma su questa questione si va persino oltre. Esemplare a tal proposito è la definizione della Staatsräson tedesca – la ragione di Stato – una definizione suprema al di sopra di qualsiasi legge scritta, compresa la Costituzione, che tutela il singolo essere umano. Nella Staatsräson si sostiene che il compito fondamentale e la ragione reale per l’esistenza della Germania post-nazista è garantire l’esistenza dello Stato sionista, non importa a quale prezzo. Questo supporto fideistico da parte di un’intera società, il sostegno a uno Stato che commette crimini contro l’umanità elevato a ragione di Stato ufficiale è, credo, davvero molto significativo. E spiega efficacemente il motivo per cui ho deciso di stabilirmi qui e quanto importante sia il ruolo politico che i dissidenti israeliani come me possono svolgere in questo contesto.

Nelle recenti elezioni inglesi le accuse di antisemitismo contro Jeremy Corbyn e il Labour Party hanno avuto un peso importante quasi quanto il tema principale, la Brexit. Ora negli Usa sembra si ripeta lo schema contro la campagna di Bernie Sanders. Che idea ti sei fatto su questo imporsi nel dibattito politico di una nuova «emergenza antisemitismo»?
La cosa più urgente da dire è che oggi non esiste alcuna emergenza antisemitismo nella politica inglese. Anzi semplicemente non è mai esistita. E anche se non esisteva nella realtà, era ovunque nei media britannici e globali. Ma per i sionisti probabilmente potrebbe essere emersa una crisi antisionista. Le false accuse di antisemitismo, provenienti da organizzazioni sioniste, non si sono infatti fermate nemmeno dopo le recenti elezioni nel Regno Unito. Mentre parliamo, il Board of Deputies, che è una rabbiosa organizzazione sionista che pretende di rappresentare tutti gli ebrei, sta portando avanti l’assalto agli esponenti del Partito laburista britannico critici nei confronti del sionismo. E lo fanno con una campagna che vuole imporre loro di sottoscrivere un elenco di dieci impegni. Potremmo facilmente smontare i dieci impegni, evidenziando le bugie e la manipolazioni presenti in ognuno.
Sfortunatamente, però, la maggior parte dei media non si farà mai carico di un impegno così gravoso. Questo poiché è comunque più comodo rigurgitare il discorso esistente basato sulle menzogne. Discorso che parte sempre dall’accettazione della strumentale sovrapposizione tra ebraismo e ideologia sionista suprematista, riferendosi allo Stato sionista come «lo Stato ebraico», con il suo intrinseco sistema di apartheid e regime suprematista cui riferirsi come «democrazia israeliana» e così via. Gli stessi attacchi contro Corbyn sono ora rivolti contro Sanders e hanno la stessa validità. Dobbiamo ricordare che Sanders e Corbyn rappresentano una visione che è incompatibile col progetto sionista e per questo non si fermeranno davanti a nulla per toglierlo di mezzo. Basterebbe anche solo un leader di un paese della Nato che metta in discussione la legittimità anche solo di alcuni aspetti del sistema di oppressione sionista, per provocare un potenziale effetto domino. Come nel caso delle calunnie contro Corbyn, ora anche contro Sanders sono i cosiddetti referenti progressisti del «sionismo liberale» a guidare questa implacabile campagna di delegittimazione. E come è stato dimostrato con Corbyn, l’unica risposta efficace a tali tentativi può essere solo con toni non dispiaciuti e senza concedere nulla se non diritti pieni e uguali per tutte e tutti.

Però è innegabile che in diversi contesti, penso all’Italia, ma anche agli Stati uniti come alla Germania c’è effettivamente un aumento significativo di azioni antisemite, no?
Certo, è così. Questo innanzitutto perché c’è un diffuso sentire razzista «anti-qualcosa» e persino un ritorno evidente di forme più o meno esplicite di fascismo. Ed è un sentire in aumento in tutto il mondo. E include ovviamente anche l’antisemitismo. Ma la forma di razzismo di gran lunga più presente ed evidente in Germania è l’islamofobia. Per comprendere le ragioni dell’aumento degli atti di razzismo basterebbe osservare il consenso delle retoriche di odio di leader come Bolsonaro e Trump, Orban e Netanyahu, solo per citarne alcuni. Insieme all’ascesa delle forze fasciste, tuttavia, esiste una concreta possibilità per l’affermarsi di un movimento antirazzista globale, basato sui diritti e quindi universale. Il movimento Bds ne è un brillante esempio, ma per una voce globale deve ancora esserci l’incontro di altri gruppi oppressi ed emarginati come anche di altri indigeni di tutti i continenti. Di recente a Berlino abbiamo organizzato una marcia anticoloniale che ha riunito molti gruppi da tutto il mondo, incluso ovviamente il Bds palestinese. Stiamo davvero osservando la globalizzazione di una lotta antifascista davanti ai nostri occhi e ci sono molte ragioni per essere ottimisti, ma allo stesso tempo realisticamente abbiamo ancora molta strada da fare. Oltre a tutti questi processi, c’è anche uno straordinario aumento di un sentimento antisionista in tutto il mondo. Non è ancora prevalente in Germania, ma nei luoghi in cui la consapevolezza pubblica dei crimini israeliani è maggiore, vi sono crescenti critiche nei confronti del sionismo e delle sue pratiche criminali. Questo cambiamento nell’opinione pubblica è molto preoccupante per le organizzazioni sioniste che a loro volta rilanciano provando a confondere il sionismo con l’ebraismo, imponendo alla sinistra di assumere che essere antisionisti (e quindi antirazzisti) equivale a essere antisemiti. La nostra risposta a ciò dovrebbe semplicemente essere la negazione di ogni e possibile legame tra sionismo ed ebraismo.

Tuttavia c’è qualcosa che ancora non mi torna, probabilmente sono legato a schemi superati. Qualche giorno fa, per esempio, avete organizzato come Bds un presidio di fronte al Bundestag. Come prevedibile c’è stata una contro manifestazione, abbastanza piccola a dire il vero. C’è una foto dei contro-manifestanti che mi ha colpito. In primo piano c’è un sionista che sventola una bandiera israeliana, indossa un cappello da baseball con scritto «Make America Great Again». E fin qui visti i rapporti tra Trump e Israele potrebbe non esserci contraddizione. Ma alle sue spalle c’è un militante naziskin con testa rasata, tatuaggi e simboli che si richiamano alla destra neonazista tedesca. Come è possibile? Non c’è una contraddizione nell’alt-right e nei movimenti sovranisti globali che sventolano una bandiera con la stella di David e si richiamano alle forme più classiche di antisemitismo?
Non esiste contraddizione all’interno dell’alt-right. Essere antisemiti e sionisti è un fenomeno più che naturale. I primi sionisti erano esplicitamente anti ebraici e discutevano degli ebrei religiosi in Europa nei modi antisemiti più razzisti che si possano immaginare. Per questo cercarono di creare un «nuovo ebreo» che non aveva nulla a che fare con la religione ebraica e tutto con una forma moderna di nazionalismo e suprematismo. Il nazionalismo è un elemento estraneo al giudaismo e la falsa nozione di «nazionalismo ebraico» è una delle tante creazioni del sionismo che si allontanano dal giudaismo. Richard Spencer ha ragione al 100% quando si definisce «sionista bianco». A differenza dei cosiddetti sionisti liberali, Spencer in realtà è coerente. Il sionismo è semplicemente una forma di supremazia etnica che vuole parlare a nome di tutti gli ebrei, proprio come il Kkk afferma di parlare a nome dei cristiani o l’Isil a nome dei musulmani. La dissonanza cognitiva non riguarda Spencer ma ogni singolo «sionista liberale» come l’intera redazione del quotidiano Haaretz che gravita intorno a uno specifico ragionamento liberal sionista basato su menzogne. A differenza dei sionisti onesti e non pentiti come Spencer o la destra israeliana, i sionisti liberali devono costantemente mantenere una narrazione falsa per apparire eticamente morali e sionisti allo stesso tempo. Questo per due ragioni. In primo luogo, quel genere di discorso nasce da un bisogno quasi «psicologico» di raccontarsi come il volto umano e eticamente accettabile in una situazione evidentemente disumana. In secondo luogo, è funzionale a convincere l’opinione pubblica mondiale, anche in modo molto efficace, che esista qualcosa di legittimo nel progetto sionista per la Palestina. Così hanno creato con successo un mito: la possibilità che esista uno stato sionista che non sia profondamente contrario ai principi democratici di uguaglianza, multiculturalismo e rispetto dei diritti delle minoranze. Questo è un modo comprovato di disinformazione nello Stato di Israele, in cui non vengono inventati i fatti ma piuttosto si agisce su come raccontarli. Nel discorso pubblico si crea così una sorta di «area intermedia», di compromesso fittizio, in una dialettica avvincente tra due polarità: un suprematismo non apologetico da una parte e le persone che da questo vengono oppresse e sottomesse.

Concludendo spostiamoci proprio in Palestina. Da dissidente israeliano e attivista Bds come giudichi l’attuale situazione israelo-palestinese?
Per valutare la situazione in Palestina, anche nota come Israele, è importante comprendere il modo in cui si è lì imposto il progetto sionista. Questo problema fondamentale non ha mai riguardato la «terra», ma piuttosto quali fossero le persone a cui concedere il diritto di vivere su quella terra. Sono dei «nostri» o dei «loro»? Questo è il cuore della questione e la ragione fondamentale da cui nasce tutto ciò che sappiamo. Lo Stato di Israele è stato costruito letteralmente sulla Palestina e in particolare a spese della sua popolazione indigena. Alcuni furono espulsi sette decenni fa e a loro fu negato, e lo è fino a oggi, il ritorno alla propria terra; altri sono controllati giorno e notte da un esercito che nega i loro diritti più elementari, incluso il diritto alla vita; e un terzo gruppo vive come cittadini o residenti di seconda classe soggiogati, in uno Stato il cui principio fondamentale è negare loro i diritti riservati esclusivamente ai padroni della terra. In totale, quindi, ci sono tre distinti gruppi più o meno delle stesse dimensioni che vengono direttamente interessati da questo sistema di oppressione: parliamo di 20 milioni di persone in tutto. Un primo gruppo composto da chi beneficia di un sistema costruito esclusivamente nel suo interesse; un altro terzo della popolazione soggiogato o sotto una brutale occupazione militare. E l’ultimo terzo completamente assente dal territorio. A questi viene negato il diritto a tornare a casa da settant’anni per una e una sola ragione: «loro» non sono dei «nostri». Direi che tutto sommato poco è cambiato politicamente nel sistema Israele-Palestina. Ciò che sta cambiando, anche molto rapidamente, è però l’intera percezione della situazione. Questo per le forzature della destra israeliana al potere da una parte e per l’allargamento del consenso intorno alla campagna Bds nell’opinione pubblica globale. In altre parole tutto sta diventando più chiaro ed esplicito rispetto al passato. Ora che il discorso strumentale del «sionista liberale» sta finalmente perdendo peso politico, l’opinione pubblica come anche i rappresentanti politici di tutto il mondo si trovano in una condizione in cui sono obbligati a prendere una posizione: con gli oppressori o con gli oppressi? Con l’apartheid o la democrazia? Con i «diritti» da garantire solo a un gruppo esclusivo o a tutte le figlie e tutti i figli di questa terra?

Una novità si è prodotta proprio in questi ultimi giorni: il Piano di Trump. Come si inserisce questa novità nella tua valutazione? E quali sono gli elementi più significativi secondo te del piano presentato dal Presidente degli Usa?
Il Piano Trump contiene in realtà pochissime cose nuove o sorprendenti. Oltre al modo grottesco in cui è stato presentato, ci sono solo due punti realmente degni di nota. In primo luogo, il piano è la conseguenza ovvia e prevedibile della legge sullo «Stato nazionale ebraico», votata nel luglio 2018. In secondo luogo, è interessante prestare attenzione non solo a ciò che è stato detto, ma anche a ciò che è stato deliberatamente omesso. Iniziamo dal primo punto. Al contrario di quanto molti media scrissero rispetto alla legge sullo «Stato nazionale ebraico», nei testi giuridici israeliani poco o niente veniva modificato. Tutto ciò che era specificato nel testo di legge non era una novità, ma, anzi, era lì da sempre. La differenza è che alcune prassi giuridiche venivano solo rese esplicite. In particolare nel quadro giuridico dello Stato sionista, i diritti della razza/gruppo etnico vengono definiti dalla distinzione fondamentale tra diritti «nazionali» e diritti di «cittadinanza». Grazie a questa distinzione è stata possibile l’emersione progressiva di un regime di apartheid. Fondamentalmente si è creato un sistema legale a doppio livello che distingue tra alcune persone che vanno ricercate e richiamate verso lo Stato di Israele e altre persone che vanno espulse in quanto indesiderate. Un sistema che offre i diritti più alti e i privilegi più importanti a un gruppo esclusivo – definito secondo il concetto di «nazionalità» e contemporaneamente crea una fragile parvenza democratica offrendo a tutti i diritti di «cittadinanza». La legge dello Stato nazionale ebraico è servita solo al governo israeliano di destra per disvelare l’unica sostanziale differenza tra destra e sinistra israeliana. Quella tra forme esplicite e implicite di suprematismo. La legge infatti non cambia nulla rispetto al passato, ma ha valore rispetto a una pianificazione del futuro! Così nell’articolo 1, al comma c) si stabilisce che: «La realizzazione del diritto all’autodeterminazione nazionale nello Stato di Israele è unica prerogativa per il popolo ebraico». Con questa nuova Legge fondamentale approvata, praticamente impossibile da modificare, viene resa di fatto irrilevante l’intera questione della demografia o «la necessità di separarsi» dai palestinesi. E mentre la cosiddetta sinistra israeliana ha un disperato bisogno di creare uno stato palestinese o forzare un’autonomia dai palestinesi al fine di segregarne il maggior numero per mantenere il proprio Stato «razzialmente» puro, l’ala destra, che non si vergogna del proprio suprematismo, ha gioco più facile. Tutto ciò che serve è garantire che loro, e solo loro, resteranno i padroni della terra in futuro, indipendentemente dai futuri assetti demografici: i diritti «nazionali». Questo pone le basi per qualsiasi futura annessione di terra ma senza l’ossessione di porre attenzione al gioco dei numeri. Consentirebbe l’annessione immediata dell’Area C ma persino dell’intera Cisgiordania. Consentirebbe anche, se lo si desiderasse, il ritorno dei 6 milioni di rifugiati palestinesi nella diaspora, perché nei fatti espulsi da qualunque possibilità di esercitare diritti politici o effettivo potere decisionale. Consentirebbe formalmente di dare «piena cittadinanza» alla popolazione annessa assicurandosi che i sionisti rimangano i padroni della terra. E il piano Trump è pionieristico da questo punto di vista perché fa un primo e significativo passo verso una serie di cosiddette annessioni legali e democratiche. E qui passiamo al secondo aspetto rilevante che riguarda il Piano di Trump: le omissioni necessarie verso i sionisti israeliani. YNet, la più grande piattaforma di notizie israeliana, ha scelto di pubblicare il discorso di Trump-Netanyahu ma, attraverso una piccola correzione, ha avuto la premura di censurare una frase di Trump. Sfortunatamente non erano le sue dichiarazioni da macho a Mike Pompeo, ma si trattava piuttosto di questo impegno: «Nessun palestinese o israeliano verrà sradicato da casa sua». Nella psiche collettiva israeliana quella frase è incomprensibile perché totalmente inaccettabile. E quel passaggio era tutto sommato persino un impegno controproducente giacché l’intero obiettivo del Piano è annettere legalmente la terra, cosa che inevitabilmente richiederà lo sradicamento forzato, ancora una volta, dei palestinesi dalle loro case. La novità è che questa volta ciò potrà avvenire sotto l’ombrello legale di un corpus normativo democratico in un cambio di un paradigma ancora al di là dall’essere compreso realmente sia in Israele sia nell’opinione pubblica globale.
*Ronnie Barkan è un attivista ebreo israeliano, co-fondatore dell’associazione Boycott from Within e del gruppo Anarchists against the Wall, tra i principali portavoce del movimento Bds. Per scrivergli o seguirlo su Twitter: @ronnie_barkan. Nicola Carella è ingegnere e attivista. Dal 2012 vive a Berlino occupandosi di welfare, precarietà e cambiamenti macroeconomici.
da qui


Israele punisce i palestinesi nel loro stile di vita personale e espressivo quotidiano - Ahmed Abu Artema

Israele non solo continua da 72 anni la sua politica di dislocamento, occupazione e aggressione contro i palestinesi indigeni, ma la politica di Israele include anche l’accusa ai palestinesi di esprimere i loro sentimenti e di esercitare le loro attività quotidiane. Israele cerca di eliminare radicalmente la presenza palestinese.
Nella tensione diretta tra palestinesi e autorità di occupazione, a Gerusalemme, in Cisgiordania occupata, e in Palestina occupata dal 1948, i palestinesi sentono di essere assediati non solo nelle loro azioni ma anche nei loro sentimenti. Celebrare i prigionieri appena liberati o persino partecipare a qualsiasi funerale di un palestinese assassinato dalle forze di occupazione israeliane, sono violazioni, secondo la legge israeliana, che giustificano l’arresto dei palestinesi che prendono parte a tali eventi o  l’emissione di pesanti multe per somme elevate di denaro.
Amjad Abu Assab, dirigente del Comitato delle famiglie dei prigionieri di Gerusalemme, ha affermato che le autorità israeliane hanno trattenuto molti  prigionieri di Gerusalemme mentre uscivano di prigione dopo aver scontato lunghi anni di detenzione.  Questi sono stati fermati, trattenuti dalle forze israeliane e poi rilasciati dopo essere stati costretti  a firmare impegni  a non celebrare o partecipare ad azioni politiche o pacifiche, limitando così la loro libertà .
Ismael Afana, 38 anni, di Gerusalemme occupata, dopo aver scontato 18 anni nelle carceri israeliane, è stato nuovamente imprigionato e sottoposto a un interrogatorio presso la stazione di polizia del Russian Compound  a Gerusalemme Ovest, e poi rilasciato dopo alcuni giorni.
Come raccontano i familiari, le autorità israeliane hanno accusato Afana di aver pianificato la celebrazione della sua imminente liberazione dalla detenzione a lungo termine.

Di conseguenza, non è stato rilasciato fino a quando Afana non ha promesso per iscritto di non organizzare alcuna celebrazione o partecipare a qualsiasi attività correlata. Le autorità israeliane limitano ogni raduno pubblico palestinese, temendo sempre che gli eventi possano diventare sfide più ampie per le politiche di occupazione e dislocamento.
In questo contesto, Ali Almoghrabi, portavoce del Centro Studi  Asra (Prigionieri della Palestina), ha dichiarato: “Tali celebrazioni sono considerate uno dei metodi di resistenza popolare, quindi l’occupazione cerca di fermarle reprimendo ogni spirito di resistenza o patriottismo”.
Secondo il Palestinian Prisoners Club, gli israeliani seguono questa politica al fine di diffondere la delusione tra i palestinesi nella Gerusalemme occupata in modo che nessuno possa vedere il prigioniero come un eroe.
Ali Almughrabi, portavoce dell’ufficio informazioni di Asra racconta che Wassem Aljallad, 42 anni, di Gerusalemme,  liberato dopo una pena detentiva di 15 anni, lo scorso luglio è stato nuovamente arrestato e trasferito  alla stazione di polizia di al-Maskubiya.
AlJallad  quando fu arrestato si era appena sposato, le forze israeliane  fecero irruzione in casa sua che era ancora in pigiama. Fu accusato di aver partecipato a operazioni militari contro l’occupazione.
Alla sua liberazione, la famiglia aveva pianificato di organizzare nuovamente la festa nuziale, ma le autorità israeliane lo hanno costretto ad annullare le cerimonie, a non festeggiare la sua liberazione e/o partecipare a qualsiasi riunione. Queste le condizioni  per liberarlo. Lo hanno anche espulso da Gerusalemme per 2 settimane, in aggiunta alle condizioni sta pagando una garanzia finanziaria di $ 1.400 (un altro importo non pagato ammonta a  $25.000). È stato rilasciato con un giorno di ritardo rispetto alla data prevista nel luglio 2019.
Mentre le autorità di occupazione esercitano restrizioni sull’espressione di felicità dei palestinesi, le restrizioni vengono applicate anche alla tristezza dei palestinesi. Le autorità di occupazione impediscono la partecipazione popolare ai funerali dei martiri, quei palestinesi che sono stati uccisi in via extragiudiziale dalle forze di occupazione israeliane.
L’IOF nega il rilascio dei corpi dei palestinesi che hanno ucciso, quindi rilascia i corpi, a condizione che solo alcuni membri della sua famiglia possano partecipare al funerale.
Il 13 febbraio, le autorità di occupazione hanno rilasciato il corpo del martire palestinese, Shadi Banna, dei “territori occupati del 48 “, dimostrando quanto sia  arrogante, l’IOF ha costretto la sua famiglia a seppellirlo, senza tenere una cerimonia funebre e con solo 40 partecipanti.

Shadi Banna aveva sparato ai soldati israeliani a Gerusalemme. La politica israeliana di impedire lo svolgimento dei funerali, mira a impedire alle persone di essere ispirate da questi martiri. Israele cerca di uccidere tutti gli umani che resistono e qualsiasi presenza di identità nazionale nel popolo palestinese, vietando loro di tenere qualsiasi incontro che ricordi ai palestinesi la loro lotta per la libertà.
Ahmed Abu Artema è un giornalista palestinese e attivista per la pace. Nato a Rafah nel 1984, è un profugo del villaggio di Al Ramla. Ha scritto il libro Organized Chaos.
Questo articolo è stato scritto in inglese da Ahmed Abu Artema per Invictapalestina.org, tradotto dalla nostra redazione e pubblicato per la prima volta il 16 febbraio 2020.
https://www.invictapalestina.org/archives/37847#more-37847


I manifesti pubblicitari di Tel Aviv sono un esempio del fascismo israeliano - Gideon Levy

Mi piace leggere gli articoli di Nave Dromi. È sincera, estrema, secolare e distilla fascismo puro, senza inibizioni e senza maschere. Chi se ne frega dell'Aia Torneremo a Gush Katif. Il primo ministro Benjamin Netanyahu è l'ultima difesa contro il sistema legale.I palestinesi devono scusarsi, "e se dipendesse da me, non li perdonerei ". Lei è una dichiarata fascista ultranazionalista che crede che gli ebrei meritino tutto e i palestinesi niente; che i diritti umani siano per gli stupidi e che l'intera terra sia sua. È molto più onesta dei prevaricatori del centro sinistra.
Sono rimasto impressionato dalla sua onestà durante la lettura del suo editoriale su Haaretz ("Abbiamo ragione ad appendere cartelloni pubblicitari che mostrano Abbas e Haniyeh come terroristi sconfitti") dove lei, con Israel Victory Project, ha difeso gli osceni cartelloni pubblicitari dell'organizzazione raffiguranti la desiderata vittoria israeliana sulla leadership palestinese in ginocchio,bendati e con le loro terre distrutte .
Il suo articolo sintetizza il pensiero fascista israeliano. Molti sognano una vittoria israeliana del genere con il presidente dell'ufficio politico Mahmoud Abbas e Hamas, capo dell'ufficio politico Ismail Haniyeh, legati  e bendati mentre la loro terra è in fiamme.
Il suo articolo  potrebbe rappresentare l'opinione prevalente del mainstream israeliano. Israele si comporta secondo i valori  espressi da  Dromi più di quanto non faccia con qualsiasi altro valore. Quindi è meglio  definire ciò con il suo nome: fascismo. Il fatto che il coraggioso e determinato sindaco di Tel Aviv, Ron Huldai, abbia ordinato la rimozione dei manifesti non significa che il messaggio sia stato cancellato. È profondamente inscritto nella nostra società.
Dromi vuole mettere fine all'idea che sia  Israele  a dover  fare delle concessioni. Cosa dovrebbe concedere? Ha rubato un paese, espulso un popolo, espropriato i Palestinesi delle sue  terre , represso la loro libertà, calpestato i loro diritti. Ha  ucciso, umiliato, ferito e saccheggiato e ora dovrebbe anche concedere? Basta con questa distorsione. Non abbiamo richiesto abbastanza. Non abbiamo rubato abbastanza. Non abbiamo versato abbastanza sangue. Non abbiamo umiliato o tiranneggiato abbastanza. Dobbiamo chiedere di più. Dobbiamo sconfiggere il terrorismo , dobbiamo  bendare  gli occhi e schiacciarlo, dobbiamo smettere di vedere il nemico come una vittima. Vittima? Quale vittima? Hanno ucciso sette combattenti di Palmah a Beit Keshet nel 1948.
Poi affronta l'argomento principale, che costituisce il cuore del sionismo: le rivendicazioni palestinesi sulla proprietà della terra sono prive di fondamento e ingiustificate. Un popolo senza terra giunse  in una terra senza popolo,  cosa hanno a che fare questi nomadi , finiti qui per caso, con la nostra terra che è solo nostra   e tutta nostra . Questa non è l' 'opinione di una  minoranza; se lo  fosse stata, lo stato non sarebbe mai stato istituito  così come è
Su quale base hanno diritti qui? Perché vivevano qui da centinaia di anni? Perché erano la stragrande maggioranza prima che gli ebrei arrivassero  a frotte, la maggior parte fuggendo dall'orrore europeo? Perché anche oggi sono metà della popolazione della terra tra il fiume e il mare, la metà  della quale  nativa, radicata, non immigrata? Ma non hanno  ricevuto una promessa divina e la Bibbia non dice una parola sui loro diritti, quindi non esistono. Le storie bibliche forniscono più diritti di proprietà rispetto a qualsiasi atto di proprietà ottomana. In parole povere i palestinesi non sono ebrei e quindi non hanno diritti.
"Ma questo conflitto è stato imposto  a noi", geme il progettista delle immagini di resa. Il nostro piccolo Srulik, al quale è stato imposto questo conflitto, vuole davvero solo la pace. Come Dromi. Pace come quel nauseabondo poster della vittoria a Tel Aviv raffigura . "Occupazione" è una parola che non esiste nel dizionario israeliano di Dromi. I palestinesi sono spazzatura . E' mai  accaduto che  un popolo accettasse di arrendersi come lo ritrae il poster della vittoria? E' mai  successo nella storia che un popolo decidesse di non combattere per la sua libertà, per i suoi diritti nazionali e  contro il suo occupante?
Dromi non è un fenomeno marginale, una curiosità ideologica. Il manifesto  deliberatamente provocatorio , rappresenta fedelmente il sionismo dai suoi inizi fino ai giorni nostri. Questo è quello che pensavano i fondatori dello stato ed è quello che  pensano oggi gli israeliani.

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Il sacro compito di impedire ai palestinesi di raggiungere il posto di lavoro - Amira Hass

Dal 2016 Israele ha revocato i permessi di ingresso  alle persone che hanno  cognomi identici a quelli degli assalitori palestinesi. Si chiama deterrenza
C'è un ufficiale responsabile della libertà di informazione presso il Coordinatore delle attività governative nei Territori, ma non ha familiarità con la Legge sulla libertà di informazione. Circa un mese fa lo ha ribadito in un'audizione giudiziaria . Una  petizione chiedeva  al Ministero della Difesa di chiarire i criteri  utilizzati per revocare i permessi di ingresso  ai  parenti di aggressori contro israeliani.
L'autrice della petizione, l'avvocato Tamir Blank, ha chiesto all'agente se aveva considerato la sua richiesta di informazioni  a tal proposito . La sua risposta è stata : “Non lo so. Non ho familiarità con la legge. "
Questa strana rivelazione non fa che peggiorare l'ordine fuori dal comune dell'allora ministro della Difesa Avigdor Lieberman nell'agosto 2016: cancellare i permessi di ingresso  in Israele ai  parenti di aggressori palestinesi. La petizione ,ai sensi della legge sulla libertà di informazione, è la ciliegina sulla cima di una battaglia legale - che non ha ricevuto pubblicità - ma alla fine  ha ridotto l'arbitrarietà della direttiva di Lieberman e la sua applicazione..

Coloro che hanno attuato la direttiva nell'ottobre 2016 sono stati COGAT e l'Amministrazione di collegamento ad esso subordinato. I soldati delle unità di collegamento inizialmente hanno chiamato questo tipo di revoca di permesso  :"Operazioni Branch Prevention: Sanction". Nel 2018 hanno modificato il termine in :  "Sanction" in "Deterrence". Operation Branch Prevention, di natura amministrativa, in  contrasto con lo stesso Shin Bet, che definisce chiaramente  quando una persona è"un rischio per la sicurezza".
Durante il primo anno di attuazione della direttiva di Lieberman (fino alla fine del 2017), ai lavoratori che possedevano permessi  con nomi identici a quelli dei palestinesi che avevano attaccato o  erano sospettati di aver compiuto azioni contro  gli israeliani, non era permesso passare attraverso i checkpoint .
In realtà tali  le autorizzazioni,  che permettono ai datori di lavoro di assumere lavoratori palestinesi - non sono state mai  effettivamente revocate . e, se scadute , veniva rinnovate  senza alcun problema.
Questo, tuttavia, non era il caso dei commercianti,che ricevono i loro permessi direttamente dagli uffici di collegamento. Quando hanno cercato di chiedere la rimozione dell'ostacolo, spesso con l'aiuto delle donne  di  Machsom Watch, è emerso che non esisteva nemmeno un modulo di domanda adeguato.. Alla fine, le donne di Machsom Watch hanno capito che in ogni ufficio di collegamento il decreto era attuato in modo diverso: non esisteva una procedura uniforme .
Il 14 dicembre del 2017   un gran numero di permessi sono stati revocati tutti in una volta, danneggiando centinaia di persone  appartenenti allo stesso  clan. La loro connessione familiare con l'autore dell'attacco o del tentativo di attacco era molto distante o addirittura inesistente. Solo  .il cognome era identico.
Nel marzo 2018 gli avvocati hanno iniziato a presentare alla corte distrettuale di Gerusalemme (nella sua qualità di tribunale amministrativo) petizioni di palestinesi che erano stati danneggiati dalla direttiva e dalla sua attuazione.
La Procura della Repubblica ha rivelato la confusione esistente  nella legge, nulla era previsto per la revoca di un permesso. L'accusa ha ripetutamente richiesto il rinvio delle audizioni, spiegando che la posizione delle autorità in materia non era ancora stata formulata.
Inizialmente i giudici hanno aderito alle richieste di rinvio. Quando non hanno aderito, lo stato non ha presentato una dichiarazione in risposta ai firmatari e ha semplicemente annullato la revoca dei permessi di ingresso dei firmatari che  sono tornati al lavoro.
La diga è stata aperta nel luglio 2018 con la cancellazione delle "Operazioni Branch Prevention" . Ciò è stato ripetuto in dozzine di petizioni . Alla fine i tribunali hanno stabilito che lo stato doveva pagare le spese processuali.
Nell' ottobre 2018,  due anni dopo che la burocrazia militare ha negato l'ingresso in Israele a migliaia di titolari di permessi palestinesi, in modo radicale e arbitrario, il procuratore generale ha annullato la giustificazione per la revoca di molti permessi. Questo è un risultato notevole per i firmatari e gli avvocati.
Finalmente , dopo aver presentato nuove petizioni, l'avvocato Blank ha ricevuto la risposta dello stato: "La persona in questione è parente di un aggressore e quindi non soddisfa i criteri per l'ingresso in Israele",ma non ha  trovato alcun criterio  sul sito web  del COGAT.
Nel novembre 2018 ha presentato a COGAT una richiesta ai sensi della legge sulla libertà di informazionee, chiedendo  dove fosse stato pubblicato il criterio, quale fosse la sua esatta formulazione, da quando era in vigore, quale era la procedura per presentare un ricorso e per quanto tempo il divieto di ingresso  sarebbe durato e quali erano i criteri per abolirlo. 
Ha ricevuto una risposta che non ha risposto alle sue domande.
Nel frattempo, all'inizio di febbraio 2019  la Procura distrettuale di Gerusalemme ha dichiarato che le autorità stavano elaborando i criteri e alla fine di quel mese ha annunciato che i lavori erano stati completati. Quindi ,più di tre anni dopo l'inizio dell'attuazione della direttiva di Lieberman.

Nell'agosto 2019 presso il tribunale del distretto di Tel Aviv, Blank, in rappresentanza di 18 volontarie  di Machsom Watch, ha presentato una petizione per la pubblicazione dei criteri .
Solo una volta presentata la petizione, l'ufficiale COGAT incaricato della libertà di informazione ha dato una risposta parziale  a tale richiesta.
Sottolinea Blank. “Vedo che i criteri tengono conto della gravità del caso. Vedo  che i criteri distinguono tra un cugino che vive vicino all'assalitore e qualcuno che vive in un'altra città e non ha alcun legame con lui:Si vuole  sapere come tutte queste variabili influenzano il periodo di prevenzione dell'ingresso del parente ”.
Ha aggiunto che le ordinarie prevenzioni di ingresso sono valide per sei mesi. " E' come mettere una persona in una stanza non illuminata, dove  viene calpestato e non sa da chi . In molti casi che conosciamo, le persone che hanno lavorato per 10 o 20 anni in Israele sono state danneggiate. Non erano mai stati in precedenza in questa cerchia di problemi sulla sicurezza e all'improvviso una procedura mette in conflitto un'intera famiglia ”.
La procura del distretto di Tel Aviv ha respinto le accuse di denigrare la legge sulla libertà di informazione ritardando la presentazione di una risposta. "Un'autorità non è obbligata a creare nuove informazioni su richiesta di un richiedente o ad adattare le informazioni esistenti alle sue esigenze", ha scritto l'ufficio in una sintesi presentata al tribunale questa settimana.
L'ufficio ha aggiunto che la definizione di aggressore rispecchia  "la definizione di  attacco terroristico  e  tutte le informazioni che non sono state fornite, incluso il periodo di prevenzione, sono prodotte dallo  Shin Bet]  “.
La legge sulla libertà di informazione  ha osservato l'ufficio del procuratore, esonera tutte le informazioni che Shin Bet ha raccolto, prodotto o detenuto, quindi in conformità con la legge la petizione deve essere respinta. Per quanto riguarda la testimonianza dell'ufficiale COGAT responsabile della legge :  "Non è un avvocato e il fatto che non abbia ricordato il numero delle disposizioni della legge non significa che non sia competente nel suo lavoro."
Già prima della pubblicazione della sintesi dalla procura, Haaretz ha chiesto a COGAT come spiega che "la persona ,nominata  responsabile della legge sulla libertà di informazione ,non ha familiarità con la legge?"
Questa  è la  risposta a questa singola frase : “Contrariamente a quanto è stato affermato, l'ufficiale in questione svolge le sue funzioni fedelmente tutto il giorno e con la professionalità richiesta nell'ambito della sua area di responsabilità.  I  valori delle forze di difesa israeliane costituiscono un faro per tutti gli ufficiali  delle attività governative nei territori che vedono il loro servizio militare come una missione e agiscono per preservare la sicurezza dello Stato di Israele e dei suoi cittadini.Anche se non consideriamo favorevolmente il tentativo di rappresentare l'incidente con derisione , ignorando il quadro completo e la pressione di quel momento, il verbale della riunione sarà esaminata a fondo dai professionisti interessati.
Ci rammarichiamo per la scelta di infangare la reputazione di un ufficiale dell'unità che fa tutto ciò che è in suo potere per far avanzare il diritto del pubblico a conoscere e ad applicare rigorosamente le leggi. Sottolineiamo  che il Dipartimento per le indagini pubbliche  continuerà  nel sacro compito. "

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Richard Silverstein : Daniel Pipes pubblica manifesti genocidi anti-palestinesi nel centro di Tel Aviv

Uno dei gruppi affiliati di Daniel Pipes , l' Israel Victory Project , ha pagato  cartelloni delle dimensioni di un grattacielo a Tel Aviv con immagini di Mahmoud Abbas e Ismail Haniyeh con gli occhi bendati, con in mano una bandiera bianca che chiedono misericordia in ginocchio. Intanto  elicotteri israeliani si librano sopra un paesaggio palestinese decimato. La didascalia è: "Puoi solo fare pace con i nemici che sono stati completamente umiliati". Questa può essere giustamente definita una versione giudeo-fascista della Soluzione Finale.La  fondazione di  Pipes è  il  Middle East Forum , un think tank pseudo-accademico creato per promuovere l'islamofobia e la propaganda filo-israeliana, come conferma il sito web  IVP . In passato ha espresso opinioni simili   appoggiando lo sterminio di Gaza a meno che non ponga fine agli attacchi terroristici contro Israele. Pipes fondò anche Campus Watch, che servì da modello per il gruppo fascista israeliano di maggior successo , Im Tirzu . Quel gruppo controlla professori e i programmi dei corsi che non aderiscono a un orientamento strettamente pro-Israele. Esorta le università a licenziare i professori che attraversano le linee rosse stabilite da questa organizzazione .Il sindaco di Tel Aviv, Ron Huldai, ha chiesto alla società pubblicitaria di rimuovere  i manifesti  . Così è avvenuto con sgomento del gruppo Pipes, che ha promesso di portare il caso davanti alla Corte Suprema. La logica di Huldai per la rimozione del cartellone pubblicitario offensivo è interessante : :"Il manifesto  incita alla violenza e ricorda l'ISIS e i nazisti.  Degradare l'altro non è il nostro modello" 
.L'unica cosa falsa  del manifesto  sono le immagini in primo piano di Abbas e Haniyeh in ginocchio. La distruzione di  Gaza è avvenuta ripetutamente da parte israeliana . Generali  israeliani  e leader politici hanno avvertito che le città palestinesi e libanesi sarebbero state bombardate  e fatte ritornare all'età della pietra. Quindi, c'è chiaramente un pensiero verso il genocidio  tra gli israeliani nella loro battaglia con i loro vicini arabi, compresi i palestinesi. L'annuncio rappresenta  questo  graficamente.
Queste immagini  sono  imbarazzati quando sono appese su edifici di dieci piani nella principale città del paese, costringendo a riconoscere ciò che si preferisce nascondere. Ecco perché Huldai li ha tirati giù così in fretta. La sua città ha una reputazione cosmopolita da difendere per i milioni di turisti che la visitano ogni anno. Sarebbe terribilmente imbarazzante per loro vedere con i propri occhi l'obiettivo finale di Israele: eliminare la Palestina attraverso il degrado assoluto e lo sterminio genocida.
Nel tentativo di confutare questo post gli apologeti israeliani  all'estero hanno affermato che il cartellone pubblicitario non rappresenta realmente le opinioni degli israeliani. È il prodotto di alcuni pazzi, ecc. Chiunque sappia davvero qualcosa sulla società e sulla politica israeliane sa che tale odio dilaga  nella società israeliana. È uno dei motivi per cui l'estrema destra israeliana ha dominato nel  governo e nella politica per decenni (con alcuni brevi intervalli che sono stati eccezioni).
Huldai ha ragione in un'affermazione: il tabellone è un grande incitamento per i militanti palestinesi che lo percepiscono come una provocazione alla quale devono rispondere con una violenza  adeguata  alla violenza dell'immagine. In questo modo Pipes incoraggia il terrorismo sia dei palestinesi che degli ebrei israeliani. È un vero erede di Kahane. Come lui ha importato in Israele una forma mostruosa di odio. esacerbando  le tensioni .  I  giudeo-nazisti sono un mostruoso tumore  per il popolo ebraico.
Se Israele fosse un paese veramente democratico, dichiarerebbe Pipes e il suo gruppo persona non grata, vietandone  l' attività politica .Invece l'Università Ebraica ha annunciato che gli studenti volontari che lavorano per il gruppo fascista riceveranno un credito accademico .Si tenga presente che il governo rifiuta di fornire volontari alla ONG per i diritti dei lavoratori, Kav L'Oved, a causa della sua "politica controversa". Im Tirzu è onorato dal mondo accademico israeliano e dalla classe politica del paese.
Se  si nutre qualche esitazione  nel sostenere un boicottaggio accademico, dopo questo degrado  dei valori accademici  i dubbi non dovrebbero più sussistere  L'estate scorsa, durante una delle prime tornate elettorali, un partito omofobico ortodosso ha montato enormi cartelloni pubblicitari a Tel Aviv che dicevano:"Orgoglio è far  sposare tuo figlio con una donna.  Israele sceglie di essere normale."Anche in questo caso il comune ha rimosso l'annuncio, ma   un tribunale ha dichiarato di non poterlo censurare.  In sintesi  l'omofobia, l'odio e il genocidio sembrano andare di pari passo nell'attuale Israele.

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La censura prevarrà sul Primo Emendamento? - Paul Craig Roberts

Ricordo quando la censura in America era un fenomeno limitato. Venne applicata durante il periodo di guerra: “la lingua sciolta affonda le navi”. Si applicava alla pornografia. Si applicava a parolacce sulle onde radio pubbliche e nei film. Si applicava alla violenza nei film. Poteva esserci violenza, ma non al livello che è ora diventato comune.
Oggi la censura è onnipresente. È ovunque. Negli Stati Uniti la censura è sia imposta dall’alto, sia fluisce dal basso verso l’alto. La censura è imposta dall’alto, ad esempio, dalla TV e dalla stampa, da Google, Facebook, Twitter e dalle leggi di 28 stati che vietano le critiche e la partecipazione ai boicottaggi di Israele e dall’ordine esecutivo del presidente Trump che impedisce il finanziamento federale delle istituzioni educative che consentono critiche di Israele. La censura scorre dal basso verso l’alto, a esempio, da persone di razze protette, generi e preferenze sessuali che affermano di essere offese.
L’onnipresente censura che oggi è caratteristica degli Stati Uniti ha chiuso i comici. Ha chiuso le critiche contro i non bianchi, gli omosessuali, i transgender, le femministe e Israele. Le spiegazioni ufficiali sono schermate etichettando gli scettici “teorici della cospirazione”. L’onnipresente censura negli Stati Uniti è uno sviluppo eccezionale  poiché la Costituzione degli Stati Uniti garantisce la libertà di espressione e una stampa libera.
Dobbiamo apprezzare la giornalista Abby Martin per averci ricordato il nostro diritto alla libertà di parola. Abby sta facendo causa allo Stato della Georgia, uno dei 28 stati che hanno violato la protezione costituzionale della libertà di parola.
Abby doveva  tenere il discorso di apertura durante una conferenza alla Georgia Southern University. Scoprì che per parlare pubblicamente in un college della Georgia doveva firmare un giuramento di fedeltà di non criticare Israele. (Qualunque tipo di lavoro o prestazione si dovrà fare, se supera il compenso di mille dollari, richiederà la dichiarazione che non si partecipi al BDS ndt.)  Il suo rifiuto di firmare ha comportato l’annullamento della conferenza. (Per la solidarietà dei colleghi ndt.)
Qui abbiamo  lo stato della Georgia che blocca la libertà di parola per chi non sosterrà la posizione israeliana sulla Palestina. Vedi: https://www.lewrockwell.com/2020/02/no_author/journalist-abby-martin-sues-state-of-georgia-over-law-requiring-pledge-of-allegiance-to-israel/

Pensaci un attimo. Più della metà dei 50 stati che compongono gli Stati Uniti hanno approvato leggi che rappresentano una chiara violazione della Costituzione degli Stati Uniti. Inoltre, questi 28 stati hanno imposto la censura a nome di un paese straniero. Gli americani hanno i bavagli appiccicati in bocca perché 28 governi statali mettono l’interesse di Israele al di sopra del Primo Emendamento della Costituzione degli Stati Uniti. Cosa  ne è della democrazia e del governo responsabile, quando lo stesso governo si oppone alla libertà di parola?
Perché 28 stati dovrebbero legiferare contro la Costituzione degli Stati Uniti? Una spiegazione è che i governi statali sono stati acquistati dalla lobby israeliana con denaro sotto banco, promesse di donazioni di campagne politiche o minacce di finanziamento di candidati rivali. In che altro modo si può spiegare che 28 governi statali  impongano la censura a nome di un paese straniero?
Abby Martin è una persona che non lo tollererà. Ha intentato una causa che, se la Corte Suprema degli Stati Uniti è ancora un protettore del Primo Emendamento, si tradurrà che in 28 leggi statali  l’ordine esecutivo di Trump verrà annullato. La protezione di Israele contro il boicottaggio è parallela alle leggi statali approvate negli anni ’50, che impedivano al movimento di Martin Luther King di boicottare le imprese che praticavano la segregazione razziale. Queste leggi furono annullate dalla Corte Suprema.
Il risultato della causa di Abby Martin ci dirà se la Costituzione degli Stati Uniti è ancora un documento vivo.

(Trad. Carmela Ieroianni – Invictapalestina.org)