SARAJEVO, VENTICINQUE ANNI DOPO - Alessandro
Leogrande
A
venticinque anni dall’inizio della guerra in Bosnia e dell’assedio di Sarajevo,
creare un terreno di incontro tra le diverse memorie del conflitto è la cosa
più difficile che si possa immaginare.
In un tale
contesto, il teatro è forse l’unico luogo all’interno del quale è stato fatto
un piccolo passo al di là dei reciproci steccati. Il MESS, il più antico
festival di teatro dei Balcani, è ormai giunto alla sua 56esima edizione. Nato
nel 1960 sotto la vecchia Jugoslavia, non si è arrestato neanche negli anni
dell’assedio, tanto che nell’agosto del 1993 fu mandato in scena uno
straordinario Aspettando Godot diretto da Susan Sontag.
Oggi
continua a definirsi uno spazio “alternativo, progressista, antifascista”.
Sulla locandina dell’edizione 2016 la scritta MESS era sovrastata dai capelli
rossi dell’allora candidato repubblicano alla Casa Bianca Donald Trump,
pettinati all’indietro.
Basta citare
due degli spettacoli visti a inizio ottobre, per capire come il festival sia
effettivamente uno dei pochi baluardi della terra di mezzo. Il primo è Patrioti del
regista belgradese Andras Urban: un’autocritica feroce delle radici
ottocentesche dal nazionalismo serbo che a Belgrado gli ultranazionalisti hanno
più volte provato a bloccare. A Sarajevo è andato regolarmente in scena.
Il secondo
è La nostra violenza e la vostra violenza del bosniaco Oliver
Frljic, l’enfant terrible del teatro balcanico, che mette in relazione
la violenza delle guerre e dei terrorismi dei giorni nostri con quella degli
anni novanta. “Quando abbiamo cominciato a credere”, si chiede Frljic, “di
essere i signori della verità e che il nostro Dio fosse più potente del Dio
degli altri?”
La Chiesa cattolica
bosniaca ha fatto pressioni sul governo perché lo spettacolo, ritenuto
offensivo, non andasse in scena. Temendo disordini, la sera della prima un
cordone di polizia cingeva le scale del Teatro nazionale. Alla fine lo
spettacolo non è stato bloccato, ma l’indomani il governo cantonale ha
annunciato l’istituzione di una commissione d’inchiesta sul lavoro del MESS.
Per il primo ministro del Cantone di Sarajevo Elmedin Konakovic “Sarajevo non
si merita un simile circo”.
***
Nel
settembre scorso, Elmedin Konakovic ha annunciato che gli alunni di tutte le
scuole avrebbero dovuto studiare “l’aggressione contro la Bosnia Herzegovina e
i crimini commessi durante la guerra”. Ma, nella Bosnia del XXI secolo,
sostanzialmente divisa tra le tre entità croata, musulmana e serba (le prime
due raccolte nella Federazione croato-musulmana, la terza costituita dalla
Republika Srpska), una frase del genere non è affatto innocua. Il punto su cui
va a sbattere ogni tentativo di creare un programma scolastico minimamente condiviso
tra le tre entità è proprio l’insegnamento della storia.
Quella che
per Konakovic è stata un’aggressione costituita da una serie di crimini contro
civili inermi culminata nel genocidio di Srebrenica, per i leader della
Republika Srpska come Milorad Dodik è stata invece una “guerra civile”,
combattuta da due parti contrapposte, che si sono macchiate delle medesime
colpe.
Ogni tentativo di creare una commissione tripartita per varare dei testi che includessero il punto di vista degli altri è sistematicamente saltato nell’ultimo ventennio. Il risultato è che nei dodici distretti in cui è divisa oggi la Bosnia si adottano dodici programmi scolastici differenti.
Ogni tentativo di creare una commissione tripartita per varare dei testi che includessero il punto di vista degli altri è sistematicamente saltato nell’ultimo ventennio. Il risultato è che nei dodici distretti in cui è divisa oggi la Bosnia si adottano dodici programmi scolastici differenti.
Ne parlo con
il generale Jovan Divjak nel suo ufficio, una stanza tinta di arancione in una
palazzina che sorge al di fuori del centro di Sarajevo. Divjak è un eroe di
guerra. Di origini serbe, è stato lui a organizzare e guidare la difesa della
città assediata. Nel suo studio conserva ancora le foto che lo ritraggono in
divisa militare. Sebbene il ciuffo bianco che attraversa la sua fronte sia lo
stesso di allora, Divjak oggi è un ottantenne atletico che ha dismesso la
divisa e indossa jeans e camicie a quadretti. Guida una piccola associazione
che si chiama Education Builds Bih: il suo obiettivo è favorire
l’inserimento dei bambini disagiati (“Tutti i bambini. Anche i serbi, anche i
rom…”, mi dice) nei percorsi scolastici. In vent’anni di vita l’associazione ha
aiutato oltre duemila ragazzi. D’estate, poi, organizza campi estivi che sono
tra i pochi reali momenti di condivisione per le nuove generazioni appartenenti
ai tre diversi gruppi.
Divjac non
nutre molta fiducia nelle dichiarazioni del primo ministro. Gli sembrano
riproporre lo stesso modo di vedere le cose dei partiti di maggioranza delle tre
rispettive entità: “Tutti e tre vedono solo i crimini degli altri, non i
propri. Dichiarazioni come queste non tendono alla riconciliazione e alla
tolleranza.” Divjak si dice pessimista perché questo reciproco arroccarsi nel
proprio orto non si limita alla guerra degli anni novanta, ma si estende
all’intero Novecento.
Lo stesso
Gavrilo Princip (che nel 1914 sparò contro l’arciduca Francesco Ferdinando
proprio sul lungofiume che taglia in due la città) è visto come un eroe dai
serbi di Bosnia, e come un nazionalista esaltato dai croati e dai bosniaci
musulmani. “Forse ci vorranno settant’anni per fare qualcosa di simile a quei
manuali di storia condivisa che anno fatto in Alto Adige/Sudtirolo. Ma qui la
situazione è ancora più complicata: trovare un terreno di incontro tra tre
parti è molto più difficile che tra sole due parti.”
Anche Andrea
Rizza Goldstein della Fondazione Langer di Bolzano, tra i maggiori conoscitori
italiani della città, la pensa come il generale che si occupa di infanzia:
“Recentemente con il gruppo Adopt Srebrenica abbiamo provato a documentare
delle storie di ordinary heroes, di serbi che durante la guerra
avevano aiutato i musulmani, ma pur avendole scovate non siamo riusciti a
farcele raccontare dai protagonisti. Troppe pressioni, troppa paura… Non è
concesso nessuno spazio alle narrative che escono dalla versione ufficiale.”
La pianta
urbana di Sarajevo restituisce pienamente queste ferite. Capita, ad esempio, al
termine di uno stradone che lambisce la periferia ancora segnata dalla guerra
di ritrovarsi a Sarajevo Est. Non si è passati attraverso alcun check point,
eppure tutte le insegne sono improvvisamente in cirillico, la polizia indossa
divise diverse, alle finestre spuntano delle bandiere serbe e sulle pareti non
c’è un solo graffio delle bombe di ieri. Si è già nella Republika Srpska, che
non ha niente a che fare con il Cantone di Sarajevo. Il fossato tra le due
entità inizia con la parete invisibile che separa le due Sarajevo, ognuna delle
quali è segnata dai propri cippi.
***
Alle spalle
dell’aeroporto sorge il Museo del Tunnel. Progettato nell’estate del 1992 da un
ingegnere allora trentacinquenne, Nedzad Brankovic, permise negli anni di
assedio di rompere l’isolamento della città: migliaia di uomini e donne
riuscirono a fuggire grazie a esso, mentre in senso inverso la città riuscì a
rifornirsi di viveri. Alto un metro e sessanta e largo non più di uno, il
tunnel correva per circa 800 metri sotto la pista dell’aeroporto, per poi
sfociare sotto l’unico tratto di montagne intorno alla città non controllato
dall’esercito serbo.
Nei pressi
del punto d’uscita è sorto un Museo. Dapprima organizzato privatamente dalla
famiglia Kolara, nella cui cantina il tunnel sbucava, è poi passato sotto il
controllo del Cantone di Sarajevo. Oggi se ne possono percorrere una ventina di
metri scarsamente illuminati. Accanto al percorso è possibile visitare tre
stanze che ne ricostruiscono la storia e altre tre in cui vengono proiettati
dei video dell’epoca. Il Museo ha molti visitatori ogni giorno. Molti sono
arabi provenienti dai paesi del golfo, gruppi famigliari con bambini e donne
velate, per i quali il Tunnel rappresenta una sorta di memoriale della
“resistenza islamica”, come si può leggere dai commenti lasciati sul quaderno
delle visite. Del resto, grazie anche agli investimenti sauditi, oggi a
Sarajevo ci sono oltre 120 moschee. Prima della guerra erano 80.
L'esperienza
del Teatro SARTR e del Kamerni 55: una tenace opposizione culturale alle
barbarie dell'assedio di Sarajevo.
All’alba del 1993 Sarajevo era simile ad una città stregata, sembrava che
fosse stata soggetta ad una maledizione, vittime e carnefici sembravano vivere
sotto una medesima barriera d’isolamento. L’ipocrisia della politica continuava
a recitare il proprio copione affannandosi a cercare una soluzione pacifica al
conflitto, mentre le truppe ricevevano ordini contrastanti, le organizzazioni
internazionali mostravano i propri limiti in una continua alternanza di
alleanze, e le verità si confondevano fino a sovrapporsi abbandonando la
popolazione alle più variegate interpretazioni. C’era la sensazione di esser
lasciati soli, che il mondo intero avesse posto lo sguardo in un’altra
direzione, che il tanto desiderato intervento NATO non sarebbe mai arrivato.
L’unica cosa che sembrava esser certa era la segregazione in cui viveva la
città bosniaca. Non sorprende dunque che nei vari esperimenti artistici
sarajevesi la descrizione – attraverso una multidisciplinarità artistica –
dell’immaginario popolare fosse centrale. La riproduzione della realtà della
guerra attraverso l’arte ebbe uno dei suoi massimi centri nevralgici nella
dimensione teatrale, a cui i cittadini si abbandonarono completamente essendo
privati di altre forme di intrattenimento che richiedevano la presenza di
elettricità.
Fu proprio sotto assedio che, su iniziativa dei due registi Dubravko
Bibanović e Gradimir Gojer, l’ingegnere Đorđe
Mačkić e l’autore Safet Plakalo, nacque il Teatro
SARTR. Dal 17 maggio 1992 fino al termine della guerra ciò che in
seguito ai bombardamenti era rimasto della sede ospitò 97 spettacoli,
riunendo attori e collaboratori degli altri teatri attivi in quel periodo a
Sarajevo e compagnie di numerosi paesi europei come Norvegia, Inghilterra,
Italia, Slovenia, Croazia, Svizzera e Macedonia. Tra le performance locali
ricordiamo la commedia Ay, Carmela (è, Carmela) diretta
da Robert Raponja, Sklonište (rifugio) di Dubravko
Bibanović e Zid (muro). Con la regia di Dino
Mustafić, in quest’ultimo spettacolo il pubblico viveva il dramma di
non poter uscire da uno spazio: la sala principale era chiusa ai lati da un
legno di dieci metri che veniva spostato durante la performance. Si trattava di
una chiara metafora dell’assedio, che costringeva quotidianamente i cittadini
alla prigionia e l’isolamento dal resto del mondo, quelle stesse condizioni
fisiche e mentali che spinsero intellettuali e artisti a combattere attraverso
la cultura.
Distruggere la violenza mediante la sua rappresentazione, ovvero, detto
altrimenti, esorcizzare la violenza reale per mezzo della violenza teatrale.
(Antonin Artaud, da Il teatro e il suo doppio, 1938)
(Antonin Artaud, da Il teatro e il suo doppio, 1938)
Nel frattempo anche il Kamerni 55, nato nel 1955 grazie
al regista, teorico e produttore croato Jurislav Korenić, non cessò
la sua attività teatrale, ospitando, come riporta FAMA, ben 431
eventi solo nel 1993 tra spettacoli, concerti rock e mostre di pittura.
Nonostante il coprifuoco e le numerose bombe che dall’inizio della guerra
avevano raggiunto l’edificio già sette volte, il teatro era ritenuto uno dei
luoghi più “sicuri” della città, dove i sarajevesi potevano prendere una
boccata d’aria artistica e collettiva.
Le performance si svolgevano in condizioni di decoro minimali, tra cui
oggetti sottratti nei magazzini abbandonati o materiali reperiti dalla strada,
ma soprattutto in totale assenza di elettricità, con l’ausilio di candele
spesso procurate dai cittadini stessi. A proposito del festival Estate
al teatro Kamerni (1993) Oslobođenje scrisse che i pochi
momenti in cui tornava l’elettricità infastidivano addirittura il pubblico, che
si era abituato ormai a vedere gli spettacoli in assenza di luci da scena.
Nell’anno 1993 due volte alla settimana veniva messo in scena, a volte anche
all’aperto, il musical Hair, mentre gli altri giorni si potevano
fruire anche performance pre-belliche jugoslave oppure opere classiche come
quelle di Shakespeare. Dibattiti politici si susseguivano a esposizioni d’arte
concettuale, mostre fotografiche, celebrazioni di feste locali e serate
alcoliche in cui si assaggiavano cocktail realizzati con ingredienti assurdi e
per lo più scaduti prelevati dagli aiuti umanitari.
Kamerni55 ospitò anche il concerto folk di Joan Baez (1993),
l’orchestra di Radio Sarajevo e offrì i suoi spazi al club
culturale Napredak (processo), il quale organizzava concerti
di musica classica, rock, e lezioni di danza. Insomma, questi centri nevralgici
della cultura, come il Teatro Sartr o il Kamerni 55,
essendo dei punti di riferimento stagni per i cittadini, davano spazio anche
alle attività dei circoli culturali dalla sede più contenuta o che i cecchini
avevano reso inagibili a suon di granate. La connessione tra artisti e
operatori della cultura andava addirittura oltre la dimensione cittadina per
dare forma a una fitta rete internazionale. Pen International, ad
esempio, era ed è tuttora un’associazione di scrittori e letterati di carattere
mondiale che, nonostante si predichi apolitica, ha svolto diverse lotte in
contesti di guerra per la libertà d’espressione. Proprio attraverso questa
organizzazione nell’aprile del 1993 la scrittrice e intellettuale statunitense
Susan Sontag riuscì a raggiungere Sarajevo per incontrare altri membri Pen.
Trascorse nella città solo alcune settimane, ma presto si decise a tornare,
questa volta non in veste di testimone passivo ma con l’obiettivo di dirigere
uno spettacolo che nascesse, si modellasse e si consumasse nella Sarajevo
assediata.
Per varie analogie con la situazione socio-politica della capitale bosniaca
la scrittrice pensò al dramma beckettiano Waiting for Godot, che
rispecchiava completamente l’attesa da parte dei cittadini di un intervento da
parte delle forze politiche occidentali. Come prima cosa contattò il regista
teatrale Haris Pašović, che a quel tempo insegnava Arti
Performative presso l’Accademia cittadina ancora funzionante e stava lavorando
per la creazione di Grad (città), un collage di musica,
declamazioni e testi di Constantine Cavafy, Zbigniew
Herbert e Sylvia Plath. Haris le propose di dirigere una
produzione nell’ambito del Festival Internazionale del Teatro di Sarajevo
(MESS), che quell’anno vedeva anche la partecipazione di Peter Shumann.
Susan alloggiava all’Holiday Inn, una delle zone più pericolose
all’ingresso della città, e quotidianamente si spostava al teatro Kamerni 55
prima per svolgere i provini e poi per incontrare il cast di cinque attori. Le
prove avevano una durata variabile, che dipendeva innanzitutto dalla quantità di
candele che riuscivano a procurarsi, le quali a loro volta resistevano a
seconda del volume della cera. Inoltre la preparazione dello spettacolo si
protrasse di alcune settimane perché gli attori parlavano solo serbo-croato e
l’intervento dell’interprete richiedeva un passaggio in più.
Quando la performance fu pronta, la notizia della prima di Waiting
for Godot fu fatta circolare rigorosamente con il passaparola, poiché,
come testimonia anche la giornalista Gordana Knezevic se i
dettagli fossero stati pubblicati la sulla testata attiva durante
l’assedio Oslobođenje, la notizia avrebbe presto raggiunto
l’artiglieria serba. Il luogo ideale a contenere il maggior numero di
spettatori sarebbe stato il National Theater, tuttavia si preferì
optare per lo Youth Theater a causa della sua posizione
strategica. La sede era infatti nidificata e protetta dagli altri edifici, che
in caso di bombardamento avrebbero attutito gli spari provenienti dalle
colline.
La fascia oraria meno pericolosa per raggiungere il teatro era quella
pomeridiana: l’oscurità avrebbe trasformato i cittadini in bestie da macello.
Così il 17 agosto del 1993 i cinque attori selezionati da Susan recitarono in
un silenzio tombale quasi idillico che fu rotto solo dai saltuari rumori delle
granate e dai vivaci applausi al termine dello spettacolo. Le candele non
sopperivano completamente l’assenza delle luci da scena, perciò il pubblico fu
invitato a fruire la performance tanto vicino agli attori che la prima fila
veniva fatta accomodare direttamente sul palco, divenendo un tutt’uno con la
rappresentazione. Così come Vladimir e Estragon nel dramma beckettiano
attendevano l’arrivo del famigerato Godot, i cittadini di Sarajevo speravano
ormai quasi inutilmente che la NATO ponesse fine al conflitto.
Il discorso sull’intervento NATO nella guerra jugoslava restava molto
complicato e d’ardua soluzione. Il fronte internazionale era spaccato tra chi
predicava un maggiore intervento punitivo e chi invece preferiva delegare la
spinosa questione nelle mani dei caschi blu. In entrambi i casi i comportamenti
dei protagonisti della politica mondiale rispecchiavano gli interessi
particolari delle rispettive nazioni sul futuro dei paesi balcanici. Il
riconoscimento internazionale della Bosnia, avvenuto il 6 aprile del 1992,
poneva inesorabilmente delle questioni giurisprudenziali da risolvere.
L’intervento di Belgrado, ad esempio, era da considerare aggressione straniera
su un territorio sovrano o guerra civile? La diversa risposta al quesito
avrebbe consentito proiezioni ben differenti per la risoluzione del conflitto.
Il 1993 con i suoi 76 colloqui di pace si era rivelato inconcludente, i
caschi blu dislocati sul territorio assolvevano un ruolo più d’apparenza che di
sostanza, valicando spesso il limite da vittime a carnefici. Il mondo
intero sembrava esser impotente davanti alle atrocità serbe.
Dopo aver sostenuto a lungo che la crisi bosniaca non toccava gli interessi
strategici degli stati uniti, i politici american scoprirono tra il ’93 e il
’94 che la credibilità stessa del loro paese nel mondo vacillava proprio per la
sua impotenza nella crisi dell’ex Jugoslavia.
La sensazione che circolava negli ambienti diplomatici internazionali
sembrava fosse quella di una totale estraniazione dal conflitto bosniaco, come
se il mondo occidentale non avesse i mezzi per intervenire. Nel 1994 Clinton affermò
in merito alla guerra e alla sua possibile risoluzione:
Sono loro che devono decidere di finirla d’uccidersi l’un l’altro.
Il summit delle NATO che si svolse tra il 10 e l’11 gennaio 1994 a
Bruxelles ebbe come comunicato finale una nuova sentenza di condanna verso
Belgrado e la relativa minaccia di un attacco aereo alleato se le truppe
dell’ex Armata Popolare non avessero ritirato l’assedio su Srebrenica e
Sarajevo. Il presidente dello Stato maggiore dei serbi bosniaci Manilo
Milovanovic non mostrava però una considerevole preoccupazione:
l’eventuale bombardamento Nato avrebbe messo in pericolo anche le unità UNPROFOR
dislocate in Bosnia, così come nello spettacolo di Susan Sontag l’intervento
NATO si rivelò un Godot ritardatario. La strage del mercato di Markele fu un
nuovo apice dell’imbarbarimento del conflitto. Il 5 febbraio del 1994 una
granata appartenente all’artiglieria dell’ex esercito titino esplose su una
folla di gente occupata a compiere la “normale” spesa settimanale, causando la
morte di 68 persone e ferendone 197. Come da copione i serbi rigettarono le
colpe al mittente, accusando i musulmani di aver inscenato l’attacco per
guadagnare le simpatie e l’appoggio internazionale. Il legittimo presidente
bosniaco Izetbegovic replicò:
Se un giorno i serbi mi ammazzeranno, diranno che mi sono ucciso.
L’ennesimo affronto di Belgrado alle sanzioni internazionali condusse ad
intraprendere una strada senza ritorno: il 28 febbraio 1994 Washington permise
a due caccia F-16 della NATO di abbattere nei cieli di Bania Luka quattro
Galeb, appartenenti alle forze armate jugoslave. Si trattò del primo reale
attacco NATO ai danni dei serbi. Godot era arrivato, e la via per
Dalton sembrava più vicina. Godot era giunto e tutti l’aspettavano, vittime e
carnefici: chi voleva testarlo e sfidarlo, chi implorava il suo aiuto, ma nella
realtà nessuno conosceva la sua vera natura. Godot dunque era giunto, e nessuno
sembra si fosse soffermato a chiedersi se potesse essere un mostro.
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