Il covid-19
è arrivato in circostanze storiche particolari. Da un lato l’umanità, dopo aver
creduto per trent’anni che un allineamento di capitalismo globale e democrazia
liberale fosse l’unico scenario immaginabile, si stava gradualmente svegliando
dal coma: l’idea che le cose potessero andare meglio, ma anche molto peggio,
non sconvolgeva più nessuno.
D’altro
canto negli ultimi quattro anni la Brexit, l’elezione di Donald Trump, l’ascesa
e la caduta di Jeremy Corbyn e di Bernie Sanders hanno rivelato l’immensa
resilienza del capitalismo globale. I semplici cambiamenti d’ideologia, dal
globalismo al nativismo o dal neoliberismo alla socialdemocrazia, hanno fatto
poco per trasformare le relazioni sociali ed economiche. Di fronte alla
prospettiva di trasformare il capitalismo, le ideologie che in passato
apparivano così radicali si sono dimostrate impotenti.
Che dire,
quindi, dell’attuale emergenza sanitaria? Chi ha speranze nelle potenzialità di
trasformazione ed emancipazione dell’attuale crisi del covid-19 è destinato a
un brusco risveglio. Il problema non è che abbiamo aspettative troppo alte. Dal
reddito di base al new deal verde,
gli interventi proposti sono ragionevoli e necessari. La realtà, semmai, è che
sottovalutiamo la resilienza dell’attuale sistema e sopravvalutiamo la capacità
delle idee di trasformare il mondo in assenza di solide infrastrutture
tecnologiche e politiche che rendano effettivi questi interventi.
Va di moda
dare la colpa dei nostri problemi al dogma del neoliberismo, ma questa è solo
una parte della verità. Da quasi dieci anni, sostengo che c’è anche un altro
colpevole: l’ideologia apparentemente postideologica del “soluzionismo”. Al
cuore del “soluzionismo” c’è una serie di misure, in teoria pragmatiche, in
grado di mantenere in funzione la macchina del capitalismo globale risolvendo
le contraddizioni che emergono nel corso del suo funzionamento: il tutto,
sorprendentemente, con notevoli profitti. I suoi effetti più deleteri non vanno
cercati nelle startup, ma nei governi.
Il mantra della tecnologia della sopravvivenza
Lo stato soluzionista, una versione più umana ma anche più sofisticata dello stato di sorveglianza che lo ha preceduto, ha una doppia missione. Da un lato vuole dissuadere sviluppatori, hacker, imprenditori e altri dall’usare le loro capacità e le risorse esistenti per sperimentare forme alternative di organizzazione sociale. Il fatto che sia necessario creare una startup ben finanziata per sfruttare appieno l’intelligenza artificiale e il cloud informatico non è una coincidenza, ma il risultato di politiche deliberate. Il risultato è che gli sforzi più rivoluzionari, che potrebbero dar vita a istituzioni di coordinamento sociale senza fini di lucro, muoiono in fase embrionale. Non è un caso se da vent’anni non nasce una nuova Wikipedia.
Lo stato soluzionista, una versione più umana ma anche più sofisticata dello stato di sorveglianza che lo ha preceduto, ha una doppia missione. Da un lato vuole dissuadere sviluppatori, hacker, imprenditori e altri dall’usare le loro capacità e le risorse esistenti per sperimentare forme alternative di organizzazione sociale. Il fatto che sia necessario creare una startup ben finanziata per sfruttare appieno l’intelligenza artificiale e il cloud informatico non è una coincidenza, ma il risultato di politiche deliberate. Il risultato è che gli sforzi più rivoluzionari, che potrebbero dar vita a istituzioni di coordinamento sociale senza fini di lucro, muoiono in fase embrionale. Non è un caso se da vent’anni non nasce una nuova Wikipedia.
D’altra
parte, visto che viviamo tutti in un mondo che è stato digitalizzato da grandi
aziende affamate di dati, lo stato cerca di incassare una parte dei profitti
che derivano dalla sorveglianza. La digitalizzazione guidata dalle aziende ha
permesso ai governi di fare a loro volta vari interventi soluzionisti
favorevoli al mercato. La teoria del nudge, secondo cui
l’aiuto o il sostegno indiretto possono influenzare il processo di decisione, è
un esempio perfetto di pratica soluzionista: si basa sull’idea che si possa
evitare di affrontare le cause di un problema, concentrandosi invece
sull’“adeguare” i comportamenti individuali alla crudele, ma immutabile,
realtà.
Oggi siamo
tutti soluzionisti: il covid-19 sta allo stato soluzionista come l’11 settembre
sta allo stato di sorveglianza. Tuttavia le minacce che pone alla democrazia
sono più sottili, e quindi più insidiose. Si è molto parlato di come Cina,
Corea del Sud e Singapore, con il loro approccio verticistico alla crisi del
covid-19, abbiano usato applicazioni, droni e sensori per dire ai cittadini
cosa possono e non possono fare. Gli autoproclamati difensori del capitalismo
democratico in occidente, come prevedibile, si sono affrettate a rimproverarle.
L’alternativa,
formulata in modo persuasivo sulle pagine del Financial Times dallo storico
Yuval Noah Harari (Il mondo dopo il coronavirus,
Internazionale 1351), il più eloquente celebratore dell’opinione dominante
nell’élite, sembra provenire da un manuale di propaganda della Silicon valley:
dobbiamo emancipare i cittadini dandogli la conoscenza! I soluzionisti
umanitari vogliono che i cittadini si lavino le mani perché sono consapevoli di
cos’è giusto per loro e per la società, non perché sono obbligati a farlo, come
a Pechino, dove lo stato minaccia di tagliargli il riscaldamento se disubbidiscono.
Una simile
retorica non può che finire con una app-ificazione della politica. L’appello di
Harari all’emancipazione dei cittadini attraverso interventi cognitivi e
comportamentali non è molto diverso dalle misure proposte da Cass Sunstein, Richard
Thaler e altri sostenitori della teoria
del nudge. È così che la politica della più grande emergenza
sanitaria del secolo viene ridotta a discussioni “pragmatiche” sulla
progettazione di erogatori di sapone e lavandini.
Nell’idea
dei soluzionisti è più o meno tutto quello che serve, perché i corpi e le istituzioni
intermedie scompaiono. Per persone come Harari e Sunstein esistono
cittadini-consumatori, aziende e governi. In mezzo non c’è molto altro: né
sindacati, né associazioni di cittadini, né movimenti sociali, né istituzioni
collettive tenute insieme da sentimenti di solidarietà.
Il mantra
dell’emancipazione attraverso il sapere, il fondamento del liberalismo
classico, oggi può significare solo una cosa: più soluzionismo. Mi aspetto
quindi che i governi riversino miliardi in quella che, un anno fa, ho definito
la “tecnologia della sopravvivenza”: tecnologie digitali che permetteranno al
capitalismo di andare avanti, alleviando nel frattempo alcuni dei suoi
problemi. Questo rafforzerà anche la legittimità dello stato soluzionista, che
potrà vantarsi di aver respinto “l’opzione cinese”. Abbiamo bisogno di una
politica post-neoliberista che ci porti fuori da questa crisi. Ma abbiamo ancor
più bisogno di una politica post-soluzionista. Si potrebbe cominciare con il
distruggere l’artificiale opzione binaria che definisce il nostro modo di
pensare all’innovazione e alla cooperazione sociale: startup da un lato ed
economia pianificata e centralizzata dall’altro.
La domanda
al cuore del nuovo dibattito politico non dovrebbe essere “quale forza può
controllare la concorrenza di mercato?”. Ma semmai, “quale forza può sfruttare
appieno le immense opportunità di avere nuove forme di solidarietà e
coordinamento sociale fornite dalle nuove tecnologie?”.
Il
soluzionismo non è altro che una versione applicata del famoso slogan di
Margaret Thatcher “non c’è alternativa”. Negli ultimi quarant’anni i pensatori
di sinistra hanno rivelato la crudeltà e l’impraticabilità di questa logica. Ma
l’incoerenza logica non impedisce l’accumulazione di potere politico. E così il
mondo tecnologico in cui viviamo oggi è stato progettato per garantire che non
possa emergere alcuna alternativa a un ordine globale basato sulle logiche di
mercato.
I dilemmi
attuali sulla giusta risposta tecnologica al covid-19 dimostrano quanto abbiamo
bisogno di politiche post-soluzioniste. In un paese come l’Italia (sono a Roma,
alla terza settimana di quarantena) le alternative sono poco esaltanti. Il
dibattito è incentrato, da un lato, sul compromesso tra privacy e salute
pubblica e, dall’altro, sulla necessità di promuovere l’innovazione delle
startup per una “tecnologia della sopravvivenza” in grado di emancipare i
cittadini, sulla falsariga della proposta di Harari.
Perché non
ci sono alternative? Perché serve un compromesso tra privacy e salute pubblica?
Forse perché le infrastrutture digitali di cui disponiamo sono costruite da
aziende tecnologiche per favorire i loro affari? Sono state progettate per
identificarci e fare di noi micro-bersagli d’interesse commerciale. Poca
riflessione è stata dedicata alla costruzione d’infrastrutture digitali che
proteggano la privacy. Perché? Semplicemente perché nessun progetto politico ha
bisogno di una simile analisi.
Le
infrastrutture di cui disponiamo sono, è triste dirlo, infrastrutture di
consumo individualizzato, non di solidarietà e assistenza reciproca. Come ogni
piattaforma digitale, possono essere usate per vari scopi, tra i quali
attivisimo, difesa dei diritti e collaborazione, ma simili usi solitamente
implicano un costo elevato e spesso invisibile. Costituiscono delle fondamenta
molto fragili per un ordine sociale non liberista e post-soluzionista, che
dovrà essere popolato da attori che non siano consumatori, startup e
imprenditori. L’idea di costruire questo nuovo ordine sulle fondamenta digitali
offerte da Amazon, Face-book o dall’operatore di telefonia mobile del vostro
paese può sembrare allettante, ma non ne verrà niente di buono. Sarà, nel
migliore dei casi, l’ennesimo parco giochi per soluzionisti. Nel peggiore, una
società totalitaria fondata su controllo e sorveglianza diffusi.
Molte
persone di sinistra incitano i paesi democratici a dimostrare che possono
affrontare questa crisi meglio degli stati autoritari. Ma questa esortazione
suona vuota, perché le democrazie esistenti dipendono talmente dall’esercizio
antidemocratico del potere privato da essere democrazie solo di facciata.
Quando celebriamo la “democrazia” omaggiamo, senza saperlo, il complesso
invisibile di startup e tecnocrati su cui si basa lo stato soluzionista.
Se la nostra
incerta democrazia sopravvivrà al covid-19 il suo primo compito dovrebbe essere
quello di tracciare una via post-soluzionista. Altrimenti rivivremo
probabilmente l’opzione totalitaria. Ma con molta più ipocrisia da parte delle
élite quando parleranno di “valori democratici”, “sistema di pesi e
contrappesi” e “diritti umani”.
(Traduzione di Federico Ferrone)
Questo articolo è uscito sul numero
1352 di Internazionale
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