Ricerca precaria: “Noi stiamo lavorando gratis per voi, voi non potete farci morire di fame” - Ismaele
Chiamatemi Ismaele. L’anno scorso, finita la magistrale, decisi di
tentare il dottorato. All’inizio in realtà non ne ero convintissimo e trascorrevo
le giornate a parlarne con il mio coinquilino. Avevamo condiviso molto, durante
tutto il periodo universitario. Non eravamo concordi su tutto e spesso le
nostre chiacchierate diventavano accese. Riconoscevamo entrambi l’utilità della
ricerca, ma non potevamo nasconderci che quella strada portava con sé anche
dell’altro. Ci dicevamo che certo, quando si fa ricerca, si può produrre sapere
critico, mettere tutto in discussione: si può “prendere posizione”. Si può. Non
è automatico.
Ma la ricerca non è solo questo. Significa anche accettare un sistema,
che ha a che fare con le esigenze economiche e politiche del MIUR (il
“Ministero dell’Istruzione, dell’Università, della Ricerca”), dell’ANVUR
(l’“Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e della
ricerca”) e della stessa Università in cui si ritrova a svolgere il proprio
lavoro. A tutto questo va sommata la lotta spietata fra gli studenti prima e
durante i colloqui di ammissione, negli stratagemmi pensati per fregare tutti
gli altri, dal decidere di proporre un tema di ricerca pensato appositamente
per la commissione presente – magari da stravolgere il giorno dopo essere stati
ammessi – al nascondere, prima del colloquio, il proprio tema di ricerca agli
altri, terrorizzati dalla possibilità che qualcuno possa “rubare” l’idea. Un
vero e proprio colloquio di lavoro con concorrenti spietati, architettato da
un’azienda che vuole lucrare da quest’antagonismo.
Alla fine, come scrivevo all’inizio, decisi comunque di tentare. Di
buona lena comincia a mettere assieme le pubblicazioni, gli esami fatti, i
voti, le certificazioni, le conferenze e tutto quello che poteva essere utile a
costruire un CV appetibile. Fu una tortura. Ogni volta che aggiungevo qualcosa
avevo sempre la sensazione di mettere da parte tutta quella rete di incontri,
relazioni, ambienti che quella cosa portava con sé. Niente era “merito” mio,
semmai frutto di costruzioni collettive, dallo studio, alla passeggiata, alla
chiacchierata da ubriachi, magari in piazza di notte, suonando la chitarra.
Ogni cosa aggiunta portava con sé un paesaggio e quell’operazione riduzionista
aveva il sapore di burocrazia, puzzava di morte.
Ultimato il CV mi feci convincere a creare un profilo su LinkedIn e su
Academia.edu. Nel frattempo, cominciai a studiare tutti i bandi aperti in quel
momento. Pur non avendo un punto di caduta
specifico, sapevo in quale direzione avrei voluto
fare ricerca, che bussola utilizzare. L’urgenza era chiara, il “nodo” in cui si
sarebbe risolta l’avrei scoperto strada facendo. Mi misi allora a viaggiare in
lungo e in largo per l’Italia, tentando i colloqui in quelle Università dove in
qualche modo sapevo che avrei potuto seguire quella strada che tanto avrei
voluto percorrere. Durante tutti gli studi universitari avevo pesato sulle
tasche dei miei genitori. A quasi 30 anni, il dottorato per me, oltre alla
possibilità di fare ricerca, significava anche rendermi indipendente, avere una
borsa (uno stipendio). Si trattava di lavorare e il lavoro dovrebbe prevedere
sempre uno stipendio. Dopo alcuni tentativi riuscii a vincere, ma senza borsa.
Avevo una scelta davanti: rinunciare e tentare l’anno dopo o accettare
e continuare a chiedere prestiti ai miei genitori. Il tempo per decidere era
poco e decisi di accettare. In fin dei conti il dottorato dura tre anni: tre
anni di spese (affitto, spesa, bollette, spostamenti, libri..). Fortuna vuole
che mi sia ritrovato a fare ricerca con degli amici, più che con dei colleghi.
Già la prima volta che abbiamo incrociato gli sguardi, almeno con alcuni, ci
siamo capiti. Stavamo percorrendo quel tratto di strada assieme per urgenze
simili, seppur attraverso linee di ricerca diverse. Fino a febbraio ci siamo
visti quasi ogni settimana, per più giorni. Ci incontravamo per un caffè al bar
vicino l’Università, spesso senza darci appuntamento, poi andavamo a seguire le
lezioni e poi tutti assieme a mangiare, discutendo per ore. Parlavamo di quanto
ascoltato a lezione, dei nostri interessi e dei problemi su cui ci stavamo
incaponendo. Nel secondo pomeriggio ci spostavamo in biblioteca o in sala
studio e la sera andavamo a cucinare a casa di chi abitava più vicino,
approfittandone per ricominciare a discutere. Non ci sentivamo solo dei dati,
dei codici, delle matricole: la percezione collettiva e condivisa era quella di
essere una comunità in divenire.
Poi è arrivato il coronavirus ed è cominciata la quarantena. Ci siamo
ritrovati – come tutti – isolati, divisi e preoccupati. Non potevamo né
incontrarci né fare ricerca, senza vere indicazioni. L’unica cosa che ci è
stata comunicata è che avremmo dovuto seguire delle lezioni online. Certo, non
sono che un surrogato della reale esperienza universitaria, inadatte alla
nostra ricerca, ma capisco che in questo momento emergenziale non si possa fare
altrimenti. Nulla di assurdo, se non fosse che per seguire le lezioni online
bisogna potersi permettere i soldi per le bollette di internet e della
corrente. Solo che i miei genitori, causa quarantena, si sono ritrovati di
colpo senza alcun tipo di introito. I miei colleghi possono sempre fare
affidamento alla borsa (più di 1000 euro al mese), ma io no. Confrontandomi con
i colleghi del dottorato, ho chiesto agli organi competenti se fosse possibile
per esempio avere una borsa emergenziale o qualche altra forma di sussidio.
Ovviamente tutti i tentativi si sono rivelati dei buchi nell’acqua.
Alla fine, questi colleghi, questi amici, hanno deciso di versarmi
parte del loro stipendio per permettermi di pagare l’affitto, le bollette, la
spesa. Sono dovuti intervenire loro, per sopperire a una mancanza delle
istituzioni competenti. Grazie a loro sto sopravvivendo e sto facendo
sopravvivere anche i miei, che in questo momento non possono permettermi di
mandarmi soldi. E chissà quante ricercatrici e quanti ricercatori si trovano nelle
mie stesse condizioni, magari senza che per loro si sia innescato un meccanismo
di solidarietà da parte dei colleghi.
Noi stiamo lavorando gratis per voi, voi non potete farci morire di
fame.
Dunque, chiamateci Ismaele, “Dio ascolta”, in ebraico, ma chi,
realmente, ci ascolta?
Economia e crimini
di guerra: il capitale getta la maschera - Sandro Moiso
“Lì
dove cresce il pericolo, cresce anche ciò che salva” (Friederich Holderlin)
Ci aspetta un bagno di sangue.
In tutti i sensi.
In un mondo che si intendeva pacificato, se non per contrasti locali e distorsioni dovute a dittatori e scelte errate o mirate di qualche deus ex-machina individuato di volta in volta con Trump o Putin, siamo tornati, grazie alla pandemia da Covid-19, a leggere titoli e articoli che parlano di guerra e di “economia di guerra”. Come si è già detto, però, ad aggirarsi per l’Europa e per il mondo, in realtà, non è il fantasma del virus, che pure contagia e uccide, ma quello della catastrofe economica del modo di produzione attuale.
In tutti i sensi.
In un mondo che si intendeva pacificato, se non per contrasti locali e distorsioni dovute a dittatori e scelte errate o mirate di qualche deus ex-machina individuato di volta in volta con Trump o Putin, siamo tornati, grazie alla pandemia da Covid-19, a leggere titoli e articoli che parlano di guerra e di “economia di guerra”. Come si è già detto, però, ad aggirarsi per l’Europa e per il mondo, in realtà, non è il fantasma del virus, che pure contagia e uccide, ma quello della catastrofe economica del modo di produzione attuale.
Nonostante il fatto che i politici, gli
economisti e gli opinionisti pongano l’accento sul “nemico invisibile”, da un
punto di vista di classe lo stesso è in realtà sempre più visibile. Così come
le sue autentiche malefatte. Peccato, però, che i primi parlino esclusivamente
dell’invisibile virus, mentre nel secondo caso in realtà l’avversario abbia
dimensioni gigantesche e pervasive di ogni tratto della vita sociale della
nostra specie. Si tratta infatti, come i lettori avranno già capito, del modo
di produzione capitalistico nell’età della sua globalizzazione.
Come ha affermato Frédéric Neyrat nel suo
libro “Biopolitique des catastrophes” (2008), «le catastrofi implicano una
interruzione disastrosa che sommerge il presunto corso normale dell’esistenza.
Nonostante il suo carattere di evento, si tratta di processi in marcia che
mostrano, qui e ora, gli effetti di qualcosa che è già in corso. Come segnala
Neyrat, una catastrofe sempre si origina da qualche parte, è stata preparata,
ha una storia.»1
Nel suo libro l’autore indica infatti una
maniera di gestire il rischio che non mette mai in questione le cause
economiche e antropologiche, precisamente le modalità di comportamento dei
governi, delle élite e di una parte significativa delle popolazioni mondiali,
affermazione particolarmente vera in relazione alla pandemia attuale.
Un atteggiamento, purtroppo, che ancora troppo spesso è adottato involontariamente anche da molti di coloro che, pur facendo parte di movimenti apparentemente volti alla contestazione dell’esistente, si soffermano ancora e soltanto su singoli aspetti della catastrofe che sembra aver travolto la società mondiale e, soprattutto, quella che siamo usi a definire come più avanzata e moderna.
Un atteggiamento, purtroppo, che ancora troppo spesso è adottato involontariamente anche da molti di coloro che, pur facendo parte di movimenti apparentemente volti alla contestazione dell’esistente, si soffermano ancora e soltanto su singoli aspetti della catastrofe che sembra aver travolto la società mondiale e, soprattutto, quella che siamo usi a definire come più avanzata e moderna.
Si puntualizzano specifiche responsabilità
politiche, partitiche o individuali, nella affannata gestione sanitaria della
crisi; si sottolinea la perdita di libertà individuale legata alla
militarizzazione della vita pubblica e delle strade; si immagina che le cose
sarebbero andate diversamente se diversa fosse stata l’organizzazione della
spesa pubblica o la gestione dell’ambiente oppure, ancora, se una politica di
nazionalizzazioni ed intervento statale avesse preso per tempo il posto della
gestione liberista dell’economia e dei suoi risvolti sociali o la speculazione
azionaria e la ricerca di nuovi prodotti farmaceutici da parte di Big Pharma
non avesse liquidato quasi del tutto l’indipendenza della ricerca scientifica.
Sono di per sé tutte affermazioni e
supposizioni che contengono parti anche importanti di verità ma, tralasciando
il discorso sulla possibilità di giungere ad una autentica e unica verità
assoluta generalmente condivisa, hanno nel loro insieme l’evidente difetto di
volersi limitare ad affrontare elementi parziali del quadro che la realtà ci
offre. Come se si volesse intuire la grandiosità di un’opera o di un mosaico
antico a partire dalle sue singole parti o da qualcuno dei suoi sparsi tasselli
costitutivi.
Come sanno gli appassionati di puzzle è
invece possibile giungere alla ricostruzione completa e corretta di un’immagine
soltanto se si ha già sotto gli occhi, oppure a mente, la raffigurazione nel
suo insieme. Far combaciare i pezzi e trovare la loro giusta collocazione sarà
comunque difficile e appassionante, e questo dipenderà anche dalle dimensioni
della stessa e dal numero dei pezzi che occorrerà far combaciare, ma sarebbe
del tutto impossibile farlo senza una immagine o delle linee guida. Marx
avrebbe semplicemente affermato che nell’indagine scientifica del modo di
produzione corrente e dei suoi aspetti sociali occorre
procedere dal generale al particolare e non viceversa per
giungere al disvelamento della sua reale essenza. Al fine di rivelare l’arcano,
o gli arcani, del modo di produzione capitalistico e delle sue conseguenze di
classe.
Ecco allora che si rende necessaria una
prospettiva, una visione d’insieme, una teoria generale o una linea di
condotta: lasciamo per ora ad ogni singolo lettore la definizione che più gli
aggrada.
Per questo motivo è importante stabilire, fin da subito, che la guerra è già stata dichiarata.
Una guerra di classe e senza quartiere che il capitale, nelle sue varie funzioni finanziarie e industriali, ha già scatenato contro la sua, spesso ancora inconsapevole, controparte: la specie nel suo insieme, dal punto di vista biopolitico generale, e la classe operaia e il proletariato internazionale nello specifico attuale della crisi economica che ha preceduto, accompagna e seguirà con violenza estrema l’attuale pandemia.
Per questo motivo è importante stabilire, fin da subito, che la guerra è già stata dichiarata.
Una guerra di classe e senza quartiere che il capitale, nelle sue varie funzioni finanziarie e industriali, ha già scatenato contro la sua, spesso ancora inconsapevole, controparte: la specie nel suo insieme, dal punto di vista biopolitico generale, e la classe operaia e il proletariato internazionale nello specifico attuale della crisi economica che ha preceduto, accompagna e seguirà con violenza estrema l’attuale pandemia.
Ogni crisi può rappresentare
un’opportunità e talvolta, come in questo caso, enorme.
I rappresentanti degli imprenditori e i funzionari del capitale l’hanno immediatamente compreso e si apprestano a celebrare nel minor tempo possibile la loro “Pasqua di sangue”.
Non si tratta di fare qui del banale complottismo, ma sicuramente in una fase di crisi economica in cui la militarizzazione e le norme repressive erano già in aumento in vista di una futura e più ampia sollevazione sociale, la scusa offerta dall’esplodere della pandemia ha rappresentato immediatamente un’occasione potenzialmente favorevole per giungere a una ulteriore e ancora più drastica ridefinizione del comando sul lavoro, della limitazione dei diritti sindacali, del costo del lavoro stesso e della ristrutturazione tecnologica e procedurale di tutte le attività produttive.
I rappresentanti degli imprenditori e i funzionari del capitale l’hanno immediatamente compreso e si apprestano a celebrare nel minor tempo possibile la loro “Pasqua di sangue”.
Non si tratta di fare qui del banale complottismo, ma sicuramente in una fase di crisi economica in cui la militarizzazione e le norme repressive erano già in aumento in vista di una futura e più ampia sollevazione sociale, la scusa offerta dall’esplodere della pandemia ha rappresentato immediatamente un’occasione potenzialmente favorevole per giungere a una ulteriore e ancora più drastica ridefinizione del comando sul lavoro, della limitazione dei diritti sindacali, del costo del lavoro stesso e della ristrutturazione tecnologica e procedurale di tutte le attività produttive.
Accanto a ciò si sta già scatenando
un’autentica corsa al rilancio delle grandi opere inutili e dannose, al rinvio
al futuro più lontano possibile di qualsiasi norma riguardante la tutela
dell’ambiente e al finanziamento pubblico delle ristrutturazioni o conversioni
industriali, spacciate per miglioramento o sopravvivenza delle aziende
necessarie, ma in realtà destinate soltanto a portare nelle tasche degli
imprenditori denaro fresco, a interesse basso o nullo2, con cui i maggiori imprenditori attueranno
in tutti i modi possibili un’autentica politica di aggressione economica e
repressiva nei confronti dei salariati, dei disoccupati e di tutte le categorie
sociali più deboli e ricattabili.
Assisteremo nel più breve lasso di tempo
ad un autentico assalto a ciò che rimane delle garanzie sociali e lavorative,
ai salari, all’orario di lavoro e ad una sua sempre più intensa
parcellizzazione (smart working e telelavoro). I rappresentanti delle imprese
del Nord (già aperte in numero impressionante proprio nei territori più colpiti
dal Coronavirus, settemila soltanto tra Brescia e Bergamo) minacciano già di
non poter più pagare gli stipendi a breve se le imprese non riapriranno al più
presto (qui).
Dopo aver versato lacrime di coccodrillo
sulle sorti dei morti per la pandemia, per i medici e gli infermieri “eroi” e
per i lavoratori che, a milioni, potrebbero perdere il posto di lavoro3, le aziende gettano la maschera e rivelano
il loro vero volto. Direttamente, davanti a tutti, dichiarando apertamente ciò
che già tutti dovremmo sapere ovvero che i governi rispondono e devono
rispondere soltanto alle esigenze del capitale e dei suoi esecutori incarnati.
Con un ricatto tanto vile quanto spietato. Davanti al quale non solo il
governo, ma anche i sindacati confederali chineranno ancor una volta il capo.
Senza nemmeno la finzione pietosa di uno sciopero generale che mai nessuno ha
voluto veramente dichiarare.
Confindustria ha in mano le redini della
partita4 e vuole dirigere il gioco senza dovere
più nascondersi dietro a uomini di pezza o prestanome ancora troppo impastoiati
dai giochi della politica istituzionale. Al massimo, dietro al virus.
Ha mandato avanti gli scagnozzi leghisti per un po’, facendo pagare loro il costo di una zona rossa dichiarata con due settimane di ritardo dalla Val Seriana alla bergamasca, come ha dovuto ammettere lo stesso assessore alla sanità lombarda Giulio Gallera.
Ha mandato avanti gli scagnozzi leghisti per un po’, facendo pagare loro il costo di una zona rossa dichiarata con due settimane di ritardo dalla Val Seriana alla bergamasca, come ha dovuto ammettere lo stesso assessore alla sanità lombarda Giulio Gallera.
“Ora è costretto ad ammetterlo anche
l’assessore Giulio Gallera: «Ho approfondito e effettivamente c’è una legge che
lo consente». La zona rossa ad Alzano e Nembro, i due comuni della Val Seriana
che già a fine febbraio avevano fatto segnare un picco di contagi, poteva
essere decisa dalla Regione Lombardia. Ma le pressioni fortissime a partire da
Confindustria per evitare l’isolamento hanno fatto attendere due settimane,
aumentando a dismisura la trasmissione dell’infezione con numeri dimorti
altissimi in tutta la provincia di Bergamo […] A conferma c’è anche un video
del 28 febbraio che Confindustria Bergamo guidata da Stefano Scaglia pubblica
in inglese per tranquillizzare: «Le nostre imprese non sono state toccate
eandranno avanti, come sempre» e pochi giorni dopo l’hashtag #yeswework.”5
Mentre Marco Bonometti, presidente di
Confindustria Lombardia, in un’intervista ha apertamente dichiarato: «Ai primi
di marzo con la Regione ci siamo confrontati, ma non si potevano fare zone
rosse , non si poteva fermare la produzione. Per fortuna non abbiamo fermato le
attività essenziali perché i morti sarebbero aumentati». E ancora: «Le
polemiche le facciamo alla fine».6
Sfacciataggine? Dissennatezza? No,
soltanto la tranquilla sicurezza, per ora, di poter fare ciò che si vuole per
chi sta al comando. Dell’economia, dello Stato e delle sue amministrazioni
locali.
Ma è solo un piccolo esempio, poiché come avevamo già annunciato pochi giorni or sono (qui) i balletti del governo intorno alla data della riapertura assomigliano sempre più alle cosiddette guerre barocche durante le quali i generali muovevano le truppe mercenarie come su una scacchiera, ben sapendo che un preventivo accordo tra i comandanti aveva già stabilito chi avrebbe vinto la battaglia.
Ma è solo un piccolo esempio, poiché come avevamo già annunciato pochi giorni or sono (qui) i balletti del governo intorno alla data della riapertura assomigliano sempre più alle cosiddette guerre barocche durante le quali i generali muovevano le truppe mercenarie come su una scacchiera, ben sapendo che un preventivo accordo tra i comandanti aveva già stabilito chi avrebbe vinto la battaglia.
Il trucco era già compreso nel Dpcm del 22
marzo, quando si era di fatto accettato che fossero le imprese a presentare
un’autocertificazione per la riapertura in deroga, inserendosi in una delle
filiere produttive ritenute essenziali e attendendo una risposta prefettizia
che, visto il grande numero di richieste, non poteva di fatto pervenire nei
tempi stabiliti.
Ecco allora che l’autentico bombardamento
di richieste pervenute ai prefetti ha funzionato come una sorta di autentico
mail bombing che ha fatto sì che tutte, o quasi tutte, le aziende che ne
facciano richiesta possano alla fine riaprire per “mancato diniego”.
Settemila aziende erano già aperte fino a martedì 7 aprile nelle province di Bergamo e Brescia, mentre nella sola Brescia, soltanto per dare l’idea del fenomeno, le richieste di riapertura in deroga aumentano al ritmo di 350 al giorno7.
Settemila aziende erano già aperte fino a martedì 7 aprile nelle province di Bergamo e Brescia, mentre nella sola Brescia, soltanto per dare l’idea del fenomeno, le richieste di riapertura in deroga aumentano al ritmo di 350 al giorno7.
Ma 70.000 almeno sono quelle che hanno
condiviso la richiesta per una riapertura immediata, dopo Pasqua. Mentre tra
mascherine, alcol e panico molti operai sono già rientrati al lavoro nel corso
di questi ultimi giorni, da Cuneo al Veneto8 . In aziende che rivendicano tutte una
indiscutibile utilità sanitaria e sociale del loro prodotto, anche là dove, ancora
in questi giorni, il prodotto realmente utile per le finalità che giustificano
la deroga costituisce lo 0,1% della produzione complessiva.
Sono le imprese della Lombardia, del
Veneto, dell’Emilia Romagna e del Piemonte a tirare la volata, ma è chiaro che
una volta saltato il cancello a tornello opposto da un governo asservito non ci
sarà più modo di frenare la corsa alla riapertura. Soprattutto con
l’avvicinarsi dell’estate e la necessità dell’industria del turismo di riaprire
i battenti. Alla faccia della salute pubblica, dei medici, della scienza e di
qualsiasi altra considerazione che non sia quello del rilancio della
produzione, dei consumi e del profitto.
Sia ben chiaro, anche per il nostro
avversario è una partita disperata. Le cose non vanno bene e in Europa non
molti hanno l’intenzione di allentare cordoni e aprire borsellini per
finanziare o rifinanziare il debito pubblico italiano. Debito che, occorre
ricordarlo sempre con buona pace dei nazionalisti di sinistra e dei polli
keynesiani, crescerà ancora ma soltanto per sostenere gli interessi privati e
che sarà ripagato col sacrificio collettivo di chi lavora, studia o ha soltanto
qualche misero risparmio. Come già è stato fatto qui in Italia a partire dal
2011 o, peggio ancora, come in Grecia con un ulteriore taglio dei servizi
pubblici, delle pensioni, della sanità e dei salari. Unico percorso che
finanzieri e impresari ritengono perseguibile per rilanciare la competitività
perduta.
In un paese in cui mai nessun tipo di
calmiere dei prezzi è stato applicato in tempi di crisi, dalla prima guerra
mondiale in poi (qui), e dove
l’affaire delle mascherine e dei supporti sanitari per medici, personale
sanitario e cittadini ha scatenato una autentica corsa alla truffa e alla
speculazione sui prezzi, saranno molte le aziende che vorranno accedere ai
fondi proposti dal governo per riconversioni o ristrutturazioni che poi non
avverranno mai. Altre invece ristruttureranno, e come se lo faranno, dopo
decenni di mancati investimenti, ma soltanto per ridurre ancora la manodopera
impiegata ed aumentare la produttività oraria di quella che rimarrà al lavoro
in condizioni peggiori e salari immobili o ridotti in nome della solidarietà nazionale.
Insomma, mentre gran parte dell’attenzione
dei social e dei militanti antagonisti si concentra ancora sui problemi della
sanità (pubblica o privata? Leghista o in mano alle cooperative e ai partiti di
sinistra? E su molto altro ancora) certamente ineludibili e un’altra parte,
altrettanto grande e numerosa, continuerà a volgere la propria attenzione ai
problemi della libertà individuale violata, della corsetta e del rimanere
blindati in casa, l’impressione è che la vera partita si stia già giocando intorno
al lavoro. Che in questa fase, grazie soprattutto alle mobilitazioni spontanee
degli operai nelle ultime settimane, ha ripreso la sua posizione centrale in un
mondo in cui ogni accumulo di ricchezza può provenire soltanto dal suo
iper-sfruttamento.
Ancora una volta saranno le fabbriche e i
luoghi di lavoro e i lavoratori costretti ad ‘abitarli’ a svolgere un ruolo
centrale, non solo nello scontro tra capitale e lavoro, ma tra capitale e vita
della specie, tra disciplina di regime e libertà collettiva, tra
militarizzazione dei territori e delle fabbriche (proprio come in guerra) e
libertà di autorganizzazione e di libera espressione.
Com’è giusto che in regime capitalistico ancora sia. Anzi, com’è inevitabile che sia.
Com’è giusto che in regime capitalistico ancora sia. Anzi, com’è inevitabile che sia.
Simone Weil ebbe a scrivere: ”Davanti ai
pericoli che la minacciano, la classe operaia tedesca si trova a mani nude.
Ovvero, si è tentati di chiedersi se per essa non sarebbe meglio trovarsi a
mani nude; gli strumenti che essa crede di tenere in pugno sono manipolati da
altri, i cui interessi sono contrari, o quanto meno estranei ai suoi.”
L’anno era il 1932 e il testo è tratto da una corrispondenza dalla Germania della stessa Weil, pubblicata in La Révolution prolétarienne dell’ottobre dello stesso anno. Da lì a poco il nazismo sarebbe andato al governo.
L’anno era il 1932 e il testo è tratto da una corrispondenza dalla Germania della stessa Weil, pubblicata in La Révolution prolétarienne dell’ottobre dello stesso anno. Da lì a poco il nazismo sarebbe andato al governo.
Per questo non possiamo ripetere gli
stessi errori e lasciare i lavoratori soli, mentre i movimenti continuano ad
avventurarsi sul terreno scivoloso della ricerca di nuovi soggetti politici o
di nuove cause parziali e locali. Soprattutto oggi, dopo che il fallimento di
qualsiasi politica di ‘solidarietà’ europea avrà stroncato qualsiasi speranza
di collaborazione tra stati canaglia e resuscitato con forza i fantasmi del
nazionalismo e della collaborazione interclassista. A solo vantaggio del nostro
unico vero nemico, il capitale.
Proprio perché, come scriveva Friedrich
Engels nel 1844-45:
”Se gli autori socialisti attribuiscono al
proletariato un ruolo storico mondiale, non è perché considerino i proletari
degli dei. E’ piuttosto il contrario. Proprio perché nel proletariato
pienamente sviluppato è praticamente compiuta l’astrazione di ogni umanità,
perfino dell’apparenza dell’umanità; proprio perché nelle condizioni di vita
del proletariato si condensano nella forma più inumana tute le condizioni di
vita della società attuale; proprio perché in lui l’uomo si è perduto ma, nello
stesso tempo, non solo ha acquisito la coscienza teorica di questa perdita, ma
è anche direttamente costretto a ribellarsi contro questa inumanità dal bisogno
ormai ineluttabile, insofferente di ogni palliativo, assolutamente imperiosa
espressione pratica della necessità: proprio per ciò il proletariato può e deve
liberarsi. Ma non può liberarsi senza sopprimere le sue condizioni di
esistenza. Non può sopprimere le sue condizioni di esistenza senza sopprimere
tutte le inumane condizioni di esistenza della società attuale, che si
condensano nella sua situazione. Non si tratta di ciò che questo o quel
proletario, o perfino l’intero proletariato s’immagina di volta in volta come
il suo fine. Si tratta di ciò che esso è, e di ciò che sarà storicamente
costretto a fare in conformità a questo essere.”9
Il capitale ha dichiarato e iniziato la
sua guerra. Ma potrebbe ancora perdere tutto e a breve vedere i suoi
rappresentati sul banco degli imputati in assemblee pubbliche e tribunali
composti da lavoratori, medici, scienziati, famigliari delle vittime e molti
altri soggetti espropriati ancora.
Tutti lucidi, tutti determinati. Per condannarlo una volta per sempre denunciandone e dimostrandone tutte le responsabilità nella distruzione delle vite di milioni di persone, attraverso omicidi non sempre preterintenzionali.
Vogliamo forse perdere questa occasione? Soltanto per guardare ancora una volta ad un mondo passato e a rapporti sociali di sottomissione, formale e giuridica, e di trattativa istituzionale che già il nostro avversario considera morto, in nome della sua dittatura eterna?
Sarebbe un grave e fatale errore. Probabilmente senza possibilità di ritorno.
Tutti lucidi, tutti determinati. Per condannarlo una volta per sempre denunciandone e dimostrandone tutte le responsabilità nella distruzione delle vite di milioni di persone, attraverso omicidi non sempre preterintenzionali.
Vogliamo forse perdere questa occasione? Soltanto per guardare ancora una volta ad un mondo passato e a rapporti sociali di sottomissione, formale e giuridica, e di trattativa istituzionale che già il nostro avversario considera morto, in nome della sua dittatura eterna?
Sarebbe un grave e fatale errore. Probabilmente senza possibilità di ritorno.
1.
Ángel Luis Lara, Covid-19, non torniamo alla
normalità. La normalità è il problema, il Manifesto 05.04.2020
2.
Anche se a tutt’oggi non si sa ancora da dove arriveranno i soldi (una
parte probabilmente dall’utilizzo dei fondi europei del Mes con cui si
impiccheranno lavoratori e cittadini italiani nonostante le fasulle e
buffonesche prese di posizione del premier Conte nei confronti dell’UE. Come
sembra confermare anche un articolo odierno di Stefano Fassina qui), i
rappresentanti degli imprenditori già avanzano l’ipotesi di rendere i prestiti
nell’arco di 12 o 15 anni invece dei 5 o 6 ipotizzati dal governo
3.
Secondo l’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL), che in un primo
momento aveva stimato in 195 milioni i posti di lavoro che sarebbero andati
persi quest’anno a livello globale a causa della crisi scatenata dalla
pandemia, la perdita vera di posti di lavoro su scala mondiale si aggirerebbe
in realtà intorno agli 1,25 miliardi. “«Le scelte che facciamo oggi
influenzeranno direttamente il modo in cui questa crisi si svilupperà e la vita
di miliardi di persone», dice il direttore generale dell’Oil, Guy Ryder.”,
Pietro Del Re, Il coronavirus produrrà effetti devastanti sul
lavoro, la Repubblica, 7 aprile 2020
4.
Almeno quella del Nord, che sembra in aperta rottura con quella nazionale
guidata da Vincenzo Boccia (qui)
5.
Massimo Franchi, Zona rossa nel Bergamasco,
Gallera ammette: «Potevamo farla», il Manifesto, 8 aprile 2020
7.
Paola Zanca, Nord al lavoro: 350 deroghe al giorno soltanto
a Brescia, il Fatto Quotidiano, 7 aprile 2020
8.
Teodoro Chiarelli, Aziende, è corsa alla
riapertura. “Servono a garantire i beni essenziali”, La Stampa, 7
aprile 2020
Pagherete caro, pagherete tutto! -
Cresce la rabbia e l'impotenza. Sono questi gli stati di animo sempre più diffusi a
fine Marzo 2020.
La rabbia dinanzi alle migliaia di morti che
finiranno negli annuari statistici. Defunti in attesa di sepoltura in
qualche camera mortuaria cimiteriale. Rabbia perché la crisi sanitaria
provocata dai contagi ha solo palesato quanto in pochi denunciavano da
anni: sanità al collasso tra tagli,
privatizzazioni e spending review.
I medici cinesi arrivati in nostro soccorso hanno
riconosciuto grande professionalità ai sanitari in trincea ma allo stesso tempo
ci hanno ricordato che ci sono troppi ospedali vecchi e fatiscenti, di vecchia
concezione e inadatti ad affrontare le emergenze. Hanno giudicato insufficienti
i Dpi (dispositivi di protezione
individuale) in dotazione e insostenibili i carichi di lavoro,
acuiti dalla carenza di personale. Per anni abbiamo contestato la
costruzione degli ospedali in project financing o
la chiusura di tanti presidi, gli accorpamenti compulsivi delle Asl senza mai
verificare quanti servizi erano stati ridotti o perfino cancellati.
La rabbia scaturisce anche dalla impotenza che ha
accompagnato la nostra azione sindacale, sociale e politica da 10 anni a questa
parte. Sono stati cancellati 70 mila posti letto, chiuse 175 unità ospedaliere
e in un solo biennio, tra il 2010 e il 2012, tagliati 25 miliardi di euro
favorendo la spesa delle famiglie per la sanità privata, dopo aver nel
frattempo impoverito quella pubblica.
Erano gli anni, siamo nel 2011, del pareggio di bilancio
con tanto di modifica dell'art 81 della
Costituzione, l'Europa chiedeva a noi tutti\e senso di
responsabilità e la contrazione delle spese pubbliche. Peccato che nel
frattempo continuavano a crescere le spese militari, gli interessi del debito,
si speculava, tra scandali e ruberie, sulla sanità pubblica.
La rabbia scaturisce dalla semplice rimembranza dei fatti
di cronaca o dalla lettura di vecchi articoli e volantini: solo pochi anni fa
scrivevamo che con i tagli imposti al sociale e alla sanità non saremmo stati
in grado di fronteggiare situazioni di emergenza. E le previsioni si sono
presto dimostrate fondate.
La rabbia aumenta come anche l'odio sociale degli esclusi
da ogni ammortizzatore sociale. È
cosa risaputa che l'Italia sia il paese dell'economia sommersa, di quanti in
assenza di un regolare contratto non potranno usufruire del Fis o della cassa o
del bonus da 600 euro.
Gli ammortizzatori sociali nell’attuale emergenza sono
poi quelli di sempre; a nessuno è venuto in mente che andavano
rivisti nell'ottica di estenderne i benefici. Capita per esempio che
le aziende dei settori in cui vigono contratti di lavoro che non prevedono
l’attivazione dei fondi di solidarietà e che ricorrono a un diffuso
ammortizzatore, il Fondo di Integrazione Salariale (Fis), non potranno pagare
gli assegni familiari (Anf) perché una circolare dell’Inps lo esclude
categoricamente. La vera ragione di questa esclusione è che il Fis opera solo
nei confronti dei lavoratori dei settori dove non sono attivi i fondi di
solidarietà degli enti bilaterali. Questi ultimi sono, al pari delle leggi
sulla rappresentanza sindacale, l’asse portante delle perverse relazioni
sindacali, costruite con la complicità dei sindacati confederali, che hanno
comportato sempre più disparità e hanno alimentato la previdenza integrativa.
In pratica è stato operato una sorta di ricatto: o si versano i soldi agli enti
bilaterali o, in alternativa, si può applicare il Fis. Ma in questo secondo
caso si penalizzano i dipendenti a cui sarà inibito l’accesso agli assegni
familiari.
Quando leggiamo dichiarazioni secondo cui gli Enti
bilaterali sono parte integrante di una democrazia pluralista che affianca lo
Stato, la maledetta sussidiarietà, dobbiamo amaramente constatare che neppure
l'emergenza Coronavirus e la strage di migliaia di innocenti ha imposto una
inversione di rotta, si continua a ragionare nella logica dei patti di
stabilità, del non accrescimento della spesa pubblica. Si persevera nella
costruzione di un sistema di relazioni sindacali attraverso strumenti
coercitivi, consociativi e corporativi.
A contagio terminato, se avessimo la forza di farlo,
dovremmo istituire dei tribunali del popolo e sul banco degli
imputati mettere non solo i fautori dei tagli e delle politiche di austerità ma
anche i loro complici sindacali.
Invece di assicurare ammortizzatori sociali uguali a tutti,
si mira a speculare sull'emergenza sancendo di fatto l’obbligo di aderire ad
enti bilaterali all'interno dei contratti nazionali, solo per favorire
l’assistenza sanitaria integrativa – in netto contrasto con il principio
costituzionale dell’universalità del diritto alla salute – e della previdenza
complementare, rendendo obbligatoria la presenza di questi enti a livello
aziendale e locale.
Ecco cosa sta accadendo nei giorni del contagio,
persistono con i tetti di spesa, lesinando perfino sull'acquisto di Dpi,
dilatano aziende e servizi per i quali corre l'obbligo di apertura e provano a
costruire nuove relazioni sindacali nell'alveo della legge sulla
rappresentanza. Vogliono costringerci a tornare vittime della normalità, di
quella normalità che avevamo più volte riscontrato come stato di eccezione tra
privatizzazioni dei beni comuni e impoverimento sociale e salariale.
Non arrendiamoci allora alla banalità del normale, niente
sarà come prima e quanti pensano di cancellare dalla nostra mente la strage degli
innocenti e la distruzione della sanità pubblica sappiano che non
dimenticheremo e alla occorrenza presenteremo il conto.
Coronavirus,
dal Cura Italia restano fuori troppi lavoratori. Non è meglio un sussidio
universale? - GigaWorkers
Il governo italiano, per il mese di marzo,
ha stanziato 25 miliardi con il decreto Cura Italia per sostenere l’economia
italiana chiamata a fronteggiare la riduzione dell’attività produttiva a causa
della pandemia Covid-19; è un primo passo per
rispondere alla probabile recessione che
ci colpirà nei prossimi mesi. Al riguardo le previsioni sono ballerine e, al
momento, poco attendibili. Si va dalla stima di un
calo del Pil italiano dell’11% secondo Goldman Sachs al
2,3% di Moody. Un intervento approvato dal Consiglio dei Ministri che dovrà
essere aggiornato intorno alla metà di aprile, un provvedimento d’emergenza che
vuole tamponare la situazione attuale ma che risulta insufficiente, e non potrà essere risolutivo. È
quindi certo che nei prossimi giorni verrà varata una seconda manovra, anche
alla luce della flessibilità che la Commissione Europea deciderà di concedere
all’Italia.
Possiamo, per il momento, iniziare a
considerare questa prima manovra, dalla
quale emerge che la cifra messa a disposizione per sostenere in modo diretto il
reddito dei lavoratori e delle lavoratrici è pari a 7.938 milioni di euro (il 31,9% del totale), di cui 4.640 milioni di euro per la cassa
integrazione e 1.261 milioni di euro per
congedo e indennità ai lavoratori dipendenti del settore privato. Per i
lavoratori iscritti alla Gestione Separata e
per i lavoratori autonomi iscritti alle Gestioni speciali dell’Ago (commercianti
e piccoli artigiani) sono stati messi a disposizione 2.160 milioni di euro attraverso
l’istituzione di un’indennità una tantum, per il solo mese di marzo, di 600
euro esentasse.
Si è scelto dunque di erogare il sostegno
al reddito sulla base della tipologia contrattuale e
della condizione professionale di partenza. Il ricorso allo strumento della cassa integrazione implica già
l’esistenza di un rapporto di lavoro stabile in essere (il 58,4% della somma
stanziata a sostegno del reddito). Il reddito che viene emesso dalla cassa
Integrazione è pari a circa l’80% dello stipendio.
La Uil ha calcolato che sulla base di uno stipendio medio di 1.316 euro al mese, in media lo stipendio
con la cassa integrazione è di poco superiore ai 940
euro netti. Rimane difficile calcolare il numero dei
beneficiari. Un rapido calcolo ci permette di stimare che il numero massimo dei
probabili ricettori si aggira attorno a 4,9 milioni di lavoratori
e lavoratrici dipendenti.
Per i lavoratori autonomi, stimati circa 3,6 milioni, viene erogato invece un bonus
straordinario di 600 euro (al
momento sono state inviate più di 2,6 milioni di domande, dopo il down del sito dell’Inps il 1 aprile all’inizio
della procedura). Da notare come questa cifra si ponga ben al di sotto della
soglia di povertà relativa che secondo gli ultimi calcoli dell’Istat
ammonterebbe a 750 euro mensili.
Permane tuttavia il rischio che una serie
di figure del mondo del lavoro non riescano ad accedere ad alcuna indennità, come gli
occasionali senza Partita Iva o i lavoratori on demand (a
chiamata e gli intermittenti); oppure che una fetta di lavoratori si
ritrovino con un reddito insufficiente a
garantire loro la sussistenza, come i part-time o i working poor messi in cassa a zero ore. Bisogna
inoltre tener conto del blocco, seppur parziale, delle attività economiche e
della libertà di movimento e dei loro effetti sul mancato rinnovo dei contratti
a termine e sul lavoro nero,
che per molte persone rappresenta la principale, se non l’unica, fonte di reddito.
Sulla base di queste considerazioni, viene
spontaneo chiedersi: non sarebbe stato forse più efficace e più semplice
disporre di una misura universalistica in
grado di garantire reddito a tutte/i coloro che si trovano in difficoltà
economica a causa del Coronavirus, a prescindere dalla loro condizione lavorativa? Perché non proporre almeno
in questa fase un allargamento dell’accesso al Reddito di Cittadinanza (RdC) nel senso di
una minor condizionalità, come è stato auspicato anche dal presidente
dell’Inps, Pasquale Tridico, o da Vito Crimi, attuale capo politico (ad
interim) del Movimento 5 Stelle?
Se consideriamo che in Italia le persone
che si trovano in una situazione di povertà relativa sono
circa 13 milioni e che al momento soltanto 2,5 milioni usufruiscono del RdC, ne
consegue che la platea dei possibili beneficiari è molto più ampia di quella
prospettata dal Parlamento e dal Decreto Cura Italia,
e che la cifra messa a disposizione appare distante dall’essere un’adeguata
risposta alla situazione attuale del Paese.
Covid-19: rendere
politica la rabbia – Sara Gandini
L’Italia è una enorme zona rossa, nessuno può uscire di
casa, se non per comprovati motivi.
In cosa consiste la crisi che ci ha portato a questa
situazione?
La gravità è data dalla mancanza di posti in terapia intensiva. Un articolo su Lancet stima che avremmo bisogno di 5000 posti in più. Già nel 2018 i medici denunciavano che la terapia intensiva a Milano era al collasso per via dell’influenza stagionale. D’altra parte sono stati fatti 37 miliardi di tagli alla sanità negli ultimi 10 anni. Con il taglio delle strutture ospedaliere e dei posti letto siamo passati da 4,5 posti letto per 1000 abitanti a 3,2 nel 2017, contro una media europea di ben 5 posti letto ogni 1000 abitanti. Nel 2018, secondo i dati OCSE, la spesa pubblica per abitante è stata di 2200 dollari. Nello stesso periodo in Francia e in Germania è stata più del doppio.
La gravità è data dalla mancanza di posti in terapia intensiva. Un articolo su Lancet stima che avremmo bisogno di 5000 posti in più. Già nel 2018 i medici denunciavano che la terapia intensiva a Milano era al collasso per via dell’influenza stagionale. D’altra parte sono stati fatti 37 miliardi di tagli alla sanità negli ultimi 10 anni. Con il taglio delle strutture ospedaliere e dei posti letto siamo passati da 4,5 posti letto per 1000 abitanti a 3,2 nel 2017, contro una media europea di ben 5 posti letto ogni 1000 abitanti. Nel 2018, secondo i dati OCSE, la spesa pubblica per abitante è stata di 2200 dollari. Nello stesso periodo in Francia e in Germania è stata più del doppio.
Lo scopo dei decreti messi in atto dal governo è evitare
il contagio con un virus mortale?
L’età media dei deceduti è 81 anni e il rischio riguarda soggetti con due o tre patologie croniche (l’aspettativa di vita in Italia è 83 anni). Molti precisano infatti che la causa di morte non è “per” Covid-19 ma “con” il Covid-19. In Cina i decessi sono stati circa 3 mila. I migliori modelli predittivi per l’Italia stimano che avremo al massimo 4 mila decessi Covid-19 alla fine dell’epidemia. Essendo dei modelli predittivi si basano su delle ipotesi e le stime hanno ampi margini di incertezza, ma non possiamo fare a meno dei modelli predittivi per fare delle scelte in ambito di salute pubblica. Di certo sappiamo che ogni anno in Italia i decessi per complicazioni influenzali variano tra i 10 e 20 mila.
L’età media dei deceduti è 81 anni e il rischio riguarda soggetti con due o tre patologie croniche (l’aspettativa di vita in Italia è 83 anni). Molti precisano infatti che la causa di morte non è “per” Covid-19 ma “con” il Covid-19. In Cina i decessi sono stati circa 3 mila. I migliori modelli predittivi per l’Italia stimano che avremo al massimo 4 mila decessi Covid-19 alla fine dell’epidemia. Essendo dei modelli predittivi si basano su delle ipotesi e le stime hanno ampi margini di incertezza, ma non possiamo fare a meno dei modelli predittivi per fare delle scelte in ambito di salute pubblica. Di certo sappiamo che ogni anno in Italia i decessi per complicazioni influenzali variano tra i 10 e 20 mila.
Come mai gli scienziati hanno posizioni contrastanti?
Nelle statistiche non c’è nulla di oggettivo. Le stime
sono fatte sulla base di ipotesi e scelte metodologiche che possono essere
differenti. Ad esempio il governo tedesco non include nella lista dei decessi
“per” Covid-19 le persone che presentano altre patologie, diversamente da
Italia e Cina. E questo fa sì che la percezione sociale sia
completamente differente.
Possiamo fidarci dei dati riportati dei media?
In una situazione generale di sfiducia nella scienza, i
media non aiutano a diffondere una comunicazione scientifica chiara. Sappiamo
che, pur di attirare l’attenzione e vendere la notizia, la creano. Questo ha effetti
deleteri su larga parte della popolazione, ma è anche vero che in questa
occasione si è diffusa una grande curiosità per la statistica, l’epidemiologia
e i modelli matematici. In tanti provano a fare stime e a creare grafici
sull’andamento dell’epidemia, grazie alle piattaforme online che permettono di
condividere immediatamente dati per analizzarli in tempo reale. Da questo punto
di vista, è un interessante esercizio di scienza dal basso.
Cosa avremmo potuto fare in alternativa alla misure
decise?
Nessuno contesta i primi provvedimenti presi dal governo e gli inviti alla precauzione, come ad esempio il decreto del presidente del consiglio dei ministri dell’8 marzo in cui si raccomanda a tutte le persone anziane o affette da una o più patologie croniche di evitare di uscire dalla propria abitazione, se non in caso di stretta necessità. Infatti si sa chi sono le persone che hanno maggiori probabilità di sviluppare forme gravi di malattia e sono loro quelle da tutelare. Le stesse direttive dell’OMS suggeriscono di isolare il maggior numero possibile di casi e mettere in quarantena i loro contatti più stretti, non altro.
I dubbi sorgono invece rispetto alla chiusura di interi comparti produttivi e alle limitazioni delle libertà individuali. Non abbiamo certezza che restrizioni così severe siano davvero efficaci. Per dimostrare che una certa misura abbia effetto è necessario confrontarla con una misura differente, e ora non abbiamo dati in questo senso. Per molti epidemiologi, chiudere le frontiere a patogeni altamente infettivi non garantisce nulla perché i confini sono una realtà estremamente “porosa”.
Nessuno contesta i primi provvedimenti presi dal governo e gli inviti alla precauzione, come ad esempio il decreto del presidente del consiglio dei ministri dell’8 marzo in cui si raccomanda a tutte le persone anziane o affette da una o più patologie croniche di evitare di uscire dalla propria abitazione, se non in caso di stretta necessità. Infatti si sa chi sono le persone che hanno maggiori probabilità di sviluppare forme gravi di malattia e sono loro quelle da tutelare. Le stesse direttive dell’OMS suggeriscono di isolare il maggior numero possibile di casi e mettere in quarantena i loro contatti più stretti, non altro.
I dubbi sorgono invece rispetto alla chiusura di interi comparti produttivi e alle limitazioni delle libertà individuali. Non abbiamo certezza che restrizioni così severe siano davvero efficaci. Per dimostrare che una certa misura abbia effetto è necessario confrontarla con una misura differente, e ora non abbiamo dati in questo senso. Per molti epidemiologi, chiudere le frontiere a patogeni altamente infettivi non garantisce nulla perché i confini sono una realtà estremamente “porosa”.
Il panico che si è scatenato e che non ha aiutato a
prendere decisioni con la necessaria calma nasce anche dall’uso di parole che
evocano immaginari catastrofici, ma che in termini tecnici hanno altri
significati. Infatti lo stesso direttore generale dell’OMS ci tiene a
precisare che “pandemia” è “una parola che, se usata in modo improprio, può
causare paura irragionevole”, e aggiunge: “descrivere la situazione come una
pandemia non cambia la valutazione sulla minaccia rappresentata da questo
coronavirus». Secondo la definizione dell’Oms, una pandemia è “la diffusione
mondiale di una nuova malattia”. È infatti l’elevata trasmissibilità – e
non tanto il tasso di mortalità – a fare di un’infezione una possibile
pandemia. Non è sufficiente che una malattia sia molto diffusa e potenzialmente
letale, infatti il cancro non è una pandemia, mentre lo è stata la febbre
suina. L’OMS, basandosi su uno studio pubblicato sulla rivista Lancet, ha
lanciato un forte allarme anche rispetto alla influenza stagionale. Per avere
un’idea delle proporzioni degli eventi di cui stiamo parlando, nel mondo ogni
anno sono state stimate fino a 650mila morti per problemi legati ai virus dell’influenza.
Infatti mentre la letalità dell’influenza è sottostimata, quella da coronavirus
è molto probabilmente sovrastimata perché non si sa quante siano le persone
realmente entrate in contatto con il virus.
Di fronte a scelte emergenziali di questo tipo, è
importante cercare di capire i numeri ma soprattutto porci domande di
senso. Per fare un confronto con realtà che conosco di più penso ai
tumori, per il quali la mortalità è almeno 10 volte più elevata.
L’organizzazione mondiale della sanità ha stimato che a causa dell’inquinamento
abbiamo avuto 3,2 milioni di decessi prematuri in tutto il mondo nel 2010,
eppure le misure adottate dai governi a questo riguardo sono sempre state
minime. Ma come dice un’amica dalle grandi intuizioni, i tumori non sono contagiosi,
mentre l’immaginario di un virus invisibile, che ti colpisce grazie alla
vicinanza del corpo dell’altro, viaggia veloce, forse più del virus stesso.
Sento quindi la necessità di ragionare sull’efficacia di
scelte così drastiche, per capire le giuste proporzioni di questi eventi,
perché in questi momenti c’è bisogno di avere un’intelligenza politica
strategica di lunga veduta. Mi chiedo quindi chi pagherà la crisi economica che
arriverà, chiudendo in casa l’Italia intera. Quante persone perderanno il
lavoro? Quanti negozianti/ristoranti/piccoli imprenditori dovranno chiudere? E
le badanti, i precari, i riders, i giovani che lavorano a progetto? Il mio
timore è che le conseguenze della cura saranno peggiori della malattia che si
vuole curare e che le malattie e i morti prodotti dalla recessione mondiale
saranno molti di più di quelli che moriranno a causa del virus.
Ma in questo momento ci vuole coraggio a prendere parola
per mettere in dubbio la sensatezza delle misure di contenimento senza
precedenti decise per l’emergenza Covid-19. Quando qualcuno ci prova subito
scatta il linciaggio. Invece di prendersela con le forze politiche che ci hanno
portato a questa situazione, la rabbia viene rivolta verso chi pone dei dubbi.
Non è ora di fare politica, mi dicono. Così, se provi ad esercitare senso
critico, diventi automaticamente un’incosciente insensibile. I media hanno
condizionato talmente l’opinione pubblica che chi esce per una passeggiata
diventa una specie di untore manzoniano e nascono “le sentinelle di
condominio”. Ci stanno bombardando giorno dopo giorno con dati di cui si fatica
a capire il senso. In prima pagina le notizie puntano su un immaginario
apocalittico, facendo leva su paure consce e inconsce. E trovare le parole, e
quindi il simbolico, che sappiano fare ordine, quando lo stato, i media e la
scienza hanno perso autorità, non è facile.
La rabbia può essere un’energia positiva ma ci vuole
indipendenza simbolica per capire come renderla politica e farne qualcosa di
buono. Così mi guardo indietro alle esperienze passate.
Tognoni, che è stato direttore scientifico del centro di ricerche farmacologiche e biomediche della Fondazione Mario Negri Sud, ricorda che ai tempi di Seveso, quando l’epidemiologia e la sanità erano più forti, la credibilità dell’istituzione è cresciuta perché si è appoggiata ad una comunità scientifica in dialogo con i cittadini. Ora invece un problema di salute pubblica è stato trasformato in uno scenario di “protezione civile”, tanto che nella narrazione il virus diventa un nemico invisibile che può colpire mortalmente ovunque e chiunque, e la paura e l’impotenza diventano le protagoniste. Di fronte ad una situazione di “sicurezza nazionale” contro questo invasore imprevedibile lo stato si è posto come garante, senza sentire il bisogno di fare riferimento ad una comunità scientifica. Da qui deriva il disordine simbolico e la mancanza di autorità.
Tognoni, che è stato direttore scientifico del centro di ricerche farmacologiche e biomediche della Fondazione Mario Negri Sud, ricorda che ai tempi di Seveso, quando l’epidemiologia e la sanità erano più forti, la credibilità dell’istituzione è cresciuta perché si è appoggiata ad una comunità scientifica in dialogo con i cittadini. Ora invece un problema di salute pubblica è stato trasformato in uno scenario di “protezione civile”, tanto che nella narrazione il virus diventa un nemico invisibile che può colpire mortalmente ovunque e chiunque, e la paura e l’impotenza diventano le protagoniste. Di fronte ad una situazione di “sicurezza nazionale” contro questo invasore imprevedibile lo stato si è posto come garante, senza sentire il bisogno di fare riferimento ad una comunità scientifica. Da qui deriva il disordine simbolico e la mancanza di autorità.
Il Covid-19 non è solo una emergenza sanitaria. È un
problema politico. D’altra parte non vi è problema scientifico che possa dirsi
neutrale. Se dovremo affrontare una crisi economica di proporzioni
imprevedibili, se stiamo accettando che vengano limitate libertà fondamentali,
non è a causa di un virus, ma di governanti dissennati che hanno tagliato i
fondi al sistema sanitario, e che ora hanno la pretesa di avere trovato la
soluzione giusta nel fermo immagine della vita sociale ed economica.
La narrazione che è passata è che i cittadini sono degli
“irresponsabili” e lo stato deve fare ordine.
Siamo d’accordo che vista l’eccezionalità della
situazione lo stato deve per Costituzione preoccuparsi di tutelare la salute
dei cittadini con ogni mezzo, ma fino a che punto e di fronte a quale emergenza
possono essere messe in discussione le libertà fondamentali? E se domani
l’emergenza saranno i sacrifici economici?
Quindi io, come donna e ricercatrice che lavora in ambito
medico e scientifico, non posso che diffidare di uno stato che punta tutto su
scelte emergenziali e che non rilancia, né nel dibattito pubblico né come
scelte politiche, le questioni strutturali di base della nostra società.
Proprio di fronte a crisi di questo tipo è necessario
pensare a come socializzare la rabbia e renderla politica. La rabbia verso uno
stato che doveva tutelare la salute pubblica e invece ci sta portando verso una
crisi economica dalle dimensioni imprevedibili.
Sara Gandini è epidemiologa e biostatistica. Laureata in
Statistica economica, ha conseguito il master in Biometria presso l’università
di Reading (UK) e il dottorato in Ricerca epidemiologica presso l’università di
Birmingham (Publich Health)
Il lavoro ai
domiciliari – Giorgio Moroni
Da diversi mesi volevo scrivere di una rivoluzione
strisciante che interessa l’organizzazione del lavoro, in realtà è un nuovo
paradigma che prende forma a partire dallo sganciamento del lavoro dal luogo
(dal “posto di lavoro”) e dal tempo (dalla “giornata contrattuale”). Ora ci
troviamo di fronte, improvvisamente, alle prove tecniche di una grande
rivoluzione dall’alto, mondiale come una “guerra mondiale”, che trasforma
agevolmente e senza resistenze i modi di vita, introduce nuove forme di
disciplinamento sociale, e porta anche simbolicamente alla ribalta una
trasformazionale epocale del lavoro rendendola – da timidamente sperimentale
che era – obbligatoria e ineluttabile.
Alcune premesse sono inevitabili, visto il contesto nel
quale si è immersi e all’interno del quale la riflessione deve pur continuare a
svilupparsi imperturbabilmente. L’oggetto di studio non è il coronavirus:
quindi non vengono presi in considerazione temi quali la validità,
l’opportunità o l’inevitabilità delle misure adottate in questo paese come
negli altri per fronteggiare la pandemia, perché non sono in grado di farlo, ed
è molto probabile che oggi nessuno lo sia (la sensazione prevalente è che molti
brancolino nel buio senza ammetterlo e che la discussione difficilmente si
elevi da quella pur legittima della pausa caffè). Né è qui di interesse
approfondire i danni collaterali della infezione, in particolare la rivoltante
rinascita di sentimenti nazionalistici evocati per alimentare e glorificare una
resistenza “italiana” (per il momento) al virus, o l’ottusa comunicazione con
invito a “starsene a casa” rivolto a tutti ma in presenza di una elevata
percentuale di popolazione che, fino allo scattare del lockdown,
ha continuato a decine di milioni al giorno a uscire per andare a lavorare, e
infine la psicosi mortifera di massa gabellata per senso di responsabilità a
sostegno della ricorrente ricerca di untori. Così come non vengono qui toccati
argomenti quali i nuovi dispositivi di governo nello stato di eccezione, come
l’uso disinvolto della decretazione – ivi incluso quella di più infimo grado
come il DPCM -, oppure l’esibizione in tempo reale dei numeri dei contagiati e
dei morti e la minaccia delle ammende per i contravventori, allo scopo di
incutere terrore e ottenere incondizionata obbedienza – tutti argomenti che
dovranno comunque farci riflettere, a pandemia rientrata, su questa prima e
assoluta epifania di una “economia di guerra” senza la guerra; e per lo più
mondiale. Sono tanti i temi che è necessario tralasciare, sia pur a fatica e con
fastidio mentre cerchiamo di salvarci con l’isolamento, per andare dritti al
punto -ci si tornerà quando l’analisi potrà tornare a cimentarsi con questa
svolta storica, non necessariamente l’unica o l’ultima dell’epoca in cui siamo
entrati.
Il punto su cui vogliamo insistere è un altro. Il
capitale, il modo di produzione capitalistico, è già all’opera dentro il virus
e oltre il virus. Il virus come un “cigno nero” ha generato una crisi mondiale,
di cui il capitale non è stato né causa né motivo, perché sia esclusa sin
dall’inizio qualsiasi fuorviante ipotesi complottistica (questo anche e
soprattutto se dovesse emergere a seguito di qualche inchiesta un qualche
laboratorio di guerra batteriologica o virale gestito da terroristi o agenti
segreti); e affinché inquinamento e polveri sottili, nonché le big
farms con i loro allevamenti intensivi, rimangano opportunamente
sullo sfondo, dove devono stare, più propriamente considerate come co-fattori.
Ma il general intellect del capitale, o se vogliamo il suo
“comitato di affari”, è già all’opera per valorizzare gli aspetti “igienici” di
questa crisi, per far sì che anche questa crisi – possibilmente con miglior
efficacia delle precedenti – possa essere usata per superare lo stallo dei
processi di valorizzazione di capitale, per individuare come insomma si possa,
per stare dentro la metafora digitale, approfittare di questo generale reset per
riavviare un programma da tempo frozen o crashed (“impallato”).
Le aree di intervento del capitale, in questo fermo
immagine che coglie una versione del suo sembiante che da tempo non era così
antropomorfica, ovvero così rozza, senza i tradizionali cappelli a cilindro ma
con teste diverse per il taglio o la foggia dei capelli, sono due. La prima, è
quella – tradizionale – del ricorso massiccio all’indebitamento. L’”economia di
virus” si avvale già di una politica monetaria compiacente, a giudicare dalle
sempre più strabilianti manovre finanziarie varate, riservandosi di programmare
gradualmente la selezione delle attività eligible, quelle su
cui investire perché con un coefficiente di “marginalità” superiore,
iniettandovi nuovo combustibile; assicurandosi inoltre il consenso
sociale attraverso nuove modalità emergenziali di welfare (soldi
in tasca, come nel Trump show). Tutti ci ritroveremo in contesti
economici e sociali completamente nuovi, alla cui progettazione e realizzazione
non avremo partecipato se non come testimoni passivi o meglio sudditi. Con
l’”economia di virus”, in una di quelle situazioni di emergenza assoluta che più
gli sono congeniali, il capitale riscoprirà la propria vocazione novecentesca
alla pianificazione, scrollandosi di dosso le incertezze quotidiane e le
rischiose volatilità della fase finanziaria. Ma di questo non voglio e non
posso occuparmi perché è superiore alle mie forze, salvo osservare che, in
fondo, qui non c’è nulla di particolarmente nuovo o sorprendente, ferma
l’usuale potenza e la possibile efficacia del deal; e che il
nuovo ed estremo piano del capitale – in quella che comunque si configurerà
come una fase di passaggio a una nuova epoca – si troverà di fronte una umanità
sconvolta, tendenzialmente disciplinata dalle regole obbligate dell’emergenza
totale e assuefatta alla loro fedele osservanza; così, almeno, all’inizio.
La seconda area di intervento riguarda il lavoro, e
questa volta nel ritorno all’antico c’è la novità. Poco dopo la seconda metà
del secolo scorso in tutto l’occidente capitalistico le lotte operaie con la
loro dinamica rivendicativa avevano estenuato e destrutturato il fordismo
portando a una espansione delle garanzie del welfare oltre i
limiti della compatibilità e rendendo critico il conseguimento del profitto a
partire dalla fabbrica tradizionale. La conseguente ricerca del margine, di
nuove forme di accumulazione fuori della fabbrica, attraverso i processi di
globalizzazione della produzione governati negli ultimi decenni dal capitale
finanziario, al di fuori di ogni razionalità economica, si è sostanzialmente
avviata verso il fallimento, e ora è il fattore lavoro che può tornare al
centro dell’interesse. Al termine di un lungo periodo in cui solo lo
spaventoso sfruttamento del lavoro delle periferie del mondo (periferie tali
rispetto a quello “occidentale”) ha garantito remunerazione al capitale
investito, si torna a investire centralmente sul lavoro. Di quale lavoro stiamo
parlando? Dopo che le macchine hanno assorbito gran parte del lavoro manuale,
anche ampie porzioni di questo sono state digitalizzate, mentre il residuo
lavoro manuale non digitalizzabile (quello edile e stradale, oppure quello dei
trasporti, o quello relativo alla manutenzione dei corpi incluso le consegne a
domicilio, ad esempio) è stato fortemente coinvolto dai processi migratori e si
avvale quindi di una forza lavoro di riserva tuttora ricattabile e comprimibile.
Il lavoro cognitivo, che aveva la sua premessa nella crisi del regime di
accumulazione fordista/industriale e si è autonomamente affermato nel
progressivo esaurirsi della razionalità economica del capitale, nella crisi del
rapporto tra profitto e ricchezza sociale, impone oggi la sua modalità
all’intera società attraverso il lavoro agile o smart,
attraverso lo smart-working.
Da tempo alcune società di servizi, spesso
multinazionali, si erano dotate delle tecnologie necessarie per introdurre gradualmente
forme di smart-working al proprio interno, imponendo ai
propri manager obiettivi di avviamento a tale modalità di tutti i dipendenti
fino ad almeno una settimana lavorativa per mese. Forse è opportuno a questo
punto uscire da un equivoco. Lo smart-working non è il telelavoro –
come quello disciplinato dalla normativa vigente in Italia, ad esempio. Il
presupposto dello smart-working non è infatti che si lavori
a casa esattamente come se si fosse in ufficio, quindi con gli stessi orari
dell’ufficio. Con lo smart-working, applicabile indifferentemente
a dipendenti consulenti o “partite iva”, cambia completamente lo scenario e la
prestazione si svincola dall’orario per articolarsi nell’obiettivo di impresa,
nella produzione di ricavi. Smart working è infatti una
filosofia manageriale che si fonda su un rovesciamento della prospettiva: alle
persone viene “restituita” flessibilità ed autonomia nella scelta degli spazi,
degli orari e degli strumenti da utilizzare, in cambio della
responsabilizzazione sui risultati. La fase preliminare ed essenziale del nuovo
corso è quindi il goal setting, l’individuazione – a inizio anno
– degli obiettivi da ottenere nell’anno lavorativo; possono essere obiettivi
economici legati al raggiungimento di un budget ma più spesso sono obiettivi
gestionali, dalla smaterializzazione dei documenti cartacei, alla
digitalizzazione dei processi amministrativi, alla creazione di prodotti,
all’efficienza di nuovi processi distributivi, al customer care,
ecc. L’accettazione di obiettivi comporta evidentemente l’introduzione di forme
crescenti di retribuzione variabile il cui volume può arrivare a eguagliare o
superare il salario base e la remunerazione fissa. Questi obiettivi saranno
prevalentemente slegati dalla presenza di un orario di lavoro, o meglio lo
saranno solo nel caso in cui lo smart-worker svolga servizio
di assistenza al pubblico, e in questo caso non potrà che esserci una rigorosa
turnazione. Ma in tutti gli altri casi il raggiungimento della performance sarà
ottenuto a prescindere dall’esistenza di un orario di lavoro. Anzi,
l’accettazione di obiettivi necessariamente sfidanti, considerata la
prospettiva del bonus, induce a oltrepassare la dimensione classica della
giornata lavorativa, quella contrattuale, lavorando dalle prime ore dell’alba e
talvolta fino a notte; e spesso anche nei giorni festivi. La lavorazione
a cottimo, sostanzialmente scomparsa nell’industria manifatturiera,
ricompare, magicamente riproposta al lavoro cognitivo di massa e da lì torna a
pervadere la società.
Come viene reso possibile e accettabile il passaggio a
nuove forme alienanti di cottimo? Si dà luogo inizialmente a forme di
dissuasione dalla permanenza dell’obsoleta “forma ufficio” attraverso
l’introduzione di open space con scrivanie spersonalizzate
precedute dall’obbligo di utilizzare modalità lavorative completamente paperless e
di portarsi il pc a casa. Scompaiono quindi le vecchie scrivanie con foto e
ninnoli personali, e ogni giorno sarà una scrivania nuova e diversa, senza che
questo possa restituire al lavoro quella patetica attrazione costituita dal
proprio “banco” con oggetti e pratiche personali, oppure dalla cerimonia del
caffè e delle battute post-partita con il collega a fianco. Segue
l’invito esplicito a “starsene a casa” (proprio così, e oggi dobbiamo dire: un
invito ante litteram) per almeno enne giorni nel corso della
settimana, sottolineando i vantaggi della serenità – niente stress pendolare da
viaggio in andata e di ritorno -, del tempo risparmiato (quello per raggiungere
il luogo di lavoro), del risparmio economico (ancora il viaggio, ma anche la
baby sitter in qualche caso), e infine del miglioramento del work-life
balance, che la soluzione proposta presenta. Questa presentazione induce
il lavoratore a pensare che nella proposta di “non presentarsi sul luogo di
lavoro”, nella scomparsa del cartellino, non si nasconda la volontà di
emarginarlo e alla lunga di ristrutturarlo o tagliarlo; anche perché parte del
bonus è proprio legato alla quantità di lavoro effettuato in modalità smart.
Così facendo gli uffici si svuotano costantemente di almeno un terzo dei posti
di lavoro, e in tale prospettiva i locali vengono velocemente ristrutturati
perché non possano accogliere più di due terzi degli addetti, con questo
tagliando i ponti alle proprie spalle circa il ritorno al canone lavorativo
precedente; mentre il resto dello spazio viene destinato a sale riunioni. È
evidente che questa soluzione consente di per sé risparmi sui costi di affitto
dei locali, in caso di trasloco, ma non è questa la ragione prevalente della
nuova strategia.
Già le prime statistiche sulle ore di utilizzo del pc
connesso al server aziendale nonché la quantità e la qualità del lavoro
prestato mostrano impennate record della percentuale di produttività, con
riferimento al tempo di lavoro in modalità smart. Scompare il
tasso di assenteismo, scompare l’assenza per malattie. Lo smart-working è
attivabile con flessibilità, e quindi in presenza di un malessere un lavoratore
commuta facilmente una potenziale assenza per malattia con la richiesta di una
o più giornate di smart-working in cui il lavoro sarà
ugualmente erogato. Perché nulla cambia agli effetti della prestazione, del
raggiungimento del goal, il cui ottenimento va perseguito a prescindere dalle
assenze per malattie, che si sia “in mutua” o meno. Lo smart-worker si
avvia quindi a diventare progressivamente un manager, più esattamente un
micro-manager, un manager di sé stesso. Il suo obiettivo di vita, perché
nello smart-working la giornata lavorativa si estende fino a
coincidere con quella esistenziale, integra e rispecchia quello dell’azienda.
Egli è parte cosciente del ciclo complessivo pur senza alcuna facoltà e
capacità di determinarlo, mentre il controllo sulle
condizioni della produzione, da parte del top-management, è
implicitamente garantito dalle nuove regole di ingaggio. Il lavoro cognitivo, a
lungo considerato, da imprenditori e manager, come poco produttivo, attraverso
l’uso estremo della digitalizzazione applicato al cottimo, è trasformato in una
nuova leva di ricchezza. Ecco che ci troviamo quindi in quella situazione in
cui nella produzione il principale capitale fisso diviene l’uomo stesso. Il suo
surplus comportamentale è estratto e messo a valore. L’incremento della
produttività raggiunge livelli tali da preoccupare il top management circa la
resistenza e a inviare warning ai propri dipendenti con
raccomandazioni a seguire delle regole quali quella di individuare un orario
lavoro, vestirsi come se si andasse al lavoro, prevedere delle pause. Esaminata
da un punto di vista operaistico, questa è la suprema diavoleria del capitale
cognitivo. Laddove esisteva il cartellino da timbrare rigorosamente e il
controllo dei tempi, ora abbiamo l’invito a lavorare da casa, a restare a casa,
a non venire in ufficio. La dotazione di devices molto
evoluti, collegati ai server aziendali, consente di lavorare da remoto (da
casa) come e meglio, oltre che di più, che in ufficio. Inoltre, la maniacale e
meticolosa cibernetizzazione di ogni funzione provoca la scomparsa del decisore,
sia intermedio che apicale: a decidere è la procedura o il manuale, mentre i
top manager ormai decidono solo le operazioni straordinarie.
Nell’epoca industriale il tempo diviene moneta di
scambio, ma l’organizzazione del lavoro è dominata e preordinata da fattori
scientifici di divisione del lavoro che lo rendono totalmente prevedibile nella
dimensione e nella qualità. Di qui sono arrivate le ore massime lavorabili, le
pause e le feste, gli straordinari; l’organizzazione sorveglia e presidia le attività
del lavoratore ma allo stesso tempo lo solleva da ogni responsabilità circa
l’obiettivo finale. Nei modelli di smart-working, il tempo si fa
liquido, come lo spazio, è condiviso tra organizzazione e “risorsa”, ma il suo
gestore assoluto è lo smart-worker, è lui che mette in atto le
azioni necessarie per raggiungere l’obiettivo, di cui è responsabile. Salta
conseguentemente la segregazione fordista tra tempo di lavoro e di non lavoro,
che peraltro non era presente nei sistemi rurali e artigianali precedenti alla
rivoluzione industriale. Nella modalità smart spazio e tempo
collassano, e la percezione del lavoratore è quella di riuscire a essere
presente in contesti diversi e in un tempo che approssima continuamente il
presente. Le tecnologie della connessione hanno prodotto un sistema di
relazioni in grado di trascendere le due dimensioni, e smart è
lavorare in tempi e luoghi diversi. Lentamente lo smart-worker si
rende conto di operare in un contesto organizzativo mutato nei suoi fondamenti,
muovendosi alla ricerca di un bilanciamento tra le richieste organizzative e le
proprie abilità e attitudini personali: così la esperienza lavorativa sfocerà
in una nuova definizione di sé, e la sua identità personale verrà costruita
attraverso la dimensione professionale. Egli praticando il proprio ruolo lo
ricrea continuamente (job crafting) e, schiavo del budget, incarna
l’ideale dell’impresa. Come è già stato detto più volte, lungi
dall’entrare nell’era della “fine del lavoro”, siamo in presenza dell’’era del
“lavoro senza fine”, dove alla sempre più totale separazione dei corpi
corrisponde l’attività sempre più interconnessa dei cervelli.
Milioni e milioni di lavoratori cognitivi in tutto il
pianeta stanno massicciamente per entrare in questo nuovo mondo, che al momento
non viene percepito così distopico o meglio orribile, come può apparire ictu
oculi al vecchio operaista. Perché l’esperimento strisciante è
diventato, attraverso l’emergenza del virus, rivoluzione. Oggi lo smart-working è
salvifico, protegge dall’infezione, fa intravedere risparmi energetici,
guarisce dall’assuefazione ai viaggi in automobile, dall’ossessione del
possesso di un’auto, riduce l’inquinamento, riporta alla dimensione suggestiva
del laboratorio artigianale aumentata dalla potenza della connessione. E
oggi il lavoro “ai domiciliari” si diffonde in modo inarrestabile; all’alba del
dopo pandemia, della prima pandemia interconnessa e mondiale, nulla sarà come
prima; e il “nuovo mondo”, disciplinare e smart assieme,
cercherà di imporsi come il migliore e l’unico dei mondi possibili, portando
agli estremi i propri benefici fino a trasformarli nei suoi limiti; serve
urgentemente un nuovo paradigma della critica.
It’s the capitalism, stupid! -
Maurizio
Lazzarato
«L’agroindustria, come forma di riproduzione sociale,
deve
terminare per davvero, anche solo per una questione di salute
pubblica. La produzione altamente capitalizzata di cibo dipende
da pratiche che mettono in pericolo la totalità della specie umana,
in questo caso contribuendo a provocare una nuova mortale pandemia»
Rob Wallace
terminare per davvero, anche solo per una questione di salute
pubblica. La produzione altamente capitalizzata di cibo dipende
da pratiche che mettono in pericolo la totalità della specie umana,
in questo caso contribuendo a provocare una nuova mortale pandemia»
Rob Wallace
Il
capitalismo non è mai uscito dalla crisi del 2007/2008. Il virus si innesta
sull’illusione di capitalisti, banchieri, politici di poter far tornare tutto
come prima, dichiarando uno sciopero generale, sociale e planetario che i
movimenti di contestazione sono stati incapaci di produrre.
Il blocco
totale del suo funzionamento mostra che in mancanza di movimenti rivoluzionari,
il capitalismo può implodere e la sua putrefazione cominciare a infettare tutti
(ma secondo rigorose differenze di classe). Il che non significa la fine del
capitalismo, ma solo la sua lunga e estenuante agonia che potrà essere dolorosa
e feroce. In ogni modo era chiaro che questo capitalismo trionfante non poteva
continuare, ma già Marx, nel Manifesto, ci aveva avvisati.
Non vi
contemplava solo la possibilità di una vittoria di una classe su un’altra, ma
anche la loro vicendevole implosione e una lunga decadenza.
La crisi del
capitalismo comincia ben prima del 2008, con la fine della convertibilità del
dollaro in oro e conosce una intensificazione decisiva a partire dalla fine
degli anni Settanta.
Crisi che è
diventata il suo modo di riprodursi e di governare, ma che inevitabilmente
sfocia in «guerre», catastrofi, crisi di ogni genere e caso mai, se ci sono
delle forze soggettive organizzate, eventualmente, in rotture rivoluzionarie.
Samir Amin,
marxista che guarda il capitalismo dal Sud del mondo, la chiama «lunga crisi»
(1978-1991) che si produce esattamente un secolo dopo un’altra «lunga crisi»
(1873-1890) .
Seguendo le
tracce lasciate da questo vecchio comunista, potremo cogliere similitudini e
differenze tra queste due crisi e le alternative politiche radicali che la
circolazione del virus, che sta rendendo vana la circolazione della moneta,
apre.
La prima
lunga crisi
Il capitale
ha risposto alla prima lunga crisi, che non è soltanto economica perché arriva
dopo un secolo di lotte socialiste, culminate nella Comune de Parigi «capitale
de XIX secolo» (1871), con una triplice strategia:
concentrazione/centralizzazione della produzione e del potere (monopoli),
allargamento della mondializzazione e una finanziarizzazione che impone la sua
egemonia sulla produzione industriale.
Il capitale
diviene monopolistico facendo del mercato una sua appendice. Mentre gli
economisti borghesi celebrano l’«equilibrio generale» che il gioco della
domanda e dell’offerta determinerebbe, i monopoli avanzano grazie a spaventosi
disequilibri, guerre di conquista, guerre tra imperialismi, devastazione di
umani e di non umani, sfruttamento, rapina. La mondializzazione significa una
colonizzazione che sottomette ormai il pianeta intero, generalizzando la
schiavitù e il lavoro servile, per la cui appropriazione si affrontano gli
imperialismi nazionali armati fino ai denti.
La
finanziarizzazione produce un’enorme rendita di cui approfittano soprattutto i
due più grandi imperi coloniali dell’epoca, l’Inghilterra e la Francia. Questo
capitalismo, che segna una profonda rottura con quello della rivoluzione
industriale, sarà l’oggetto delle analisi di Hilferding, Rosa Luxembourg,
Hobson. Lenin è sicuramente il politico che ha colto meglio e in tempo reale il
cambiamento della natura del capitalismo e con timing ancora
insuperato ha elaborato, con i bolscevichi, una strategia adeguata
all’approfondimento della lotta di classe che centralizzazione,
mondializzazione, finanziarizzazione implicano.
La
socializzazione del capitale, su una scala e a una velocità fino quel momento
sconosciute, farà rifiorire i profitti e le rendite, provocando una
polarizzazione dei redditi e dei patrimoni, un super sfruttamento dei popoli
colonizzati e una esacerbazione della concorrenza tra imperialismi nazionali .
Questo breve e euforico periodo, compreso tra il 1890 e il 1914, la «Belle
époque», apre al suo contrario: la prima guerra mondiale, la rivoluzione
sovietica, guerre civile europee, fascismo, nazismo, Seconda guerra mondiale,
l’avvio dei processi rivoluzionari e anticoloniali in Asia (Cina, Indocina),
Hiroshima e Nagasaki.
La «belle
époque» inaugura l’epoca delle guerre e delle rivoluzioni. Queste ultime si
succederanno lungo tutto il Ventesimo secolo, ma solo nel sud nel mondo, nei
paesi in grande «ritardo» di sviluppo tecnologico, senza classi operaie, ma con
molti contadini. Mai la storia dell’umanità aveva conosciuto una tale frequenza
di rotture politiche, tutte, come disse Gramsci a proposito della sovietica,
«contro il Capitale» (di Marx).
La seconda
lunga crisi
Comincia già
all’inizio degli anni Settanta, quando la potenza imperialista dominante,
liberando il dollaro dagli impacci dell’economia reale, riconosce la necessità
di cambiare strategia rompendo il compromesso fordista.
Durante la
seconda lunga crisi (1978-1991) i tassi di crescita dei profitti e degli
investimenti si dimezzano rispetto al dopoguerra e non torneranno mai più a
quei livelli. Anche in questo caso la crisi non è solo economica, ma interviene
dopo un potente ciclo di lotte in Occidente e una serie di rivoluzioni
socialiste e di liberazioni nazionali nelle periferie. Il capitale risponde
alla caduta del profitto e alla prima possibilità della “rivoluzione mondiale”,
riprendendo la strategia di un secolo prima, ma con una più forte
concentrazione del comando sulla produzione, una mondializzazione ancora più
spinta e una finanziarizzazione capace di garantire un’enorme rendita ai
monopoli e a gli oligopoli. La ripresa di questa triplice strategia costituisce
un salto di qualità rispetto a quella di un secolo fa. Lenin credeva che i
monopoli della sua epoca costituissero la «stadio ultimo» del capitale. Al
contrario, si sviluppa, tra il 1978 e il 1991, una nuova e più agguerrita
tipologia di ciò che Samir chiama «oligopoli generalizzati» perché controllano
oramai l’insieme del sistema produttivo, dei mercati finanziari e della catena
del valore. La celebrazione del mercato nel momento stesso in cui si affermano
i monopoli caratterizzerà anche la ripresa dell’iniziativa capitalista
contemporanea (Foucault parteciperà a questi fasti, infettando generazioni di
sinistrosi accademici).
Dopo la
seconda «belle epoque» segnata dallo slogan di Clinton «It’s the economy,
stupid», la fine della storia, il trionfo del capitalismo e della democrazia
sul totalitarismo comunista, e altre amenità del genere, come un secolo fa (e
in maniera differente) si apre l’epoca delle guerre e delle rivoluzioni. Guerre
certe, rivoluzioni solo (lontanamente) possibili.
Il trittico,
concentrazione, mondializzazione, finanziarizzazione è all’origine di tutte le
guerre, le catastrofi, economiche, finanziarie, sanitarie, ecologiche che
abbiamo conosciuto e che conosceremo. Ma procediamo con ordine. Come funziona
la fabbrica del disastro annunciato?
L’agricoltura
industriale, una delle cause maggiori dell’esplosione del virus, fornisce un
modello del funzionamento della nuova centralizzazione del capitale da parte
degli «oligopoli generalizzati» (1). Attraverso le semenze, i prodotti chimici
e il credito gli oligopoli controllano la produzione a monte, mentre a valle lo
smercio delle merci prodotte e la fissazione dei prezzi non è determinata dal
mercato ma dalla grande distribuzione che li fissa in maniera arbitraria
affamando i piccoli agricoltori indipendenti.
Il controllo
capitalistico sulla riproduzione della «natura», la deforestazione,
l’agricoltura industriale e intensiva altera profondamente il rapporto tra
umani e non umani da cui emergono, da anni, nuovi tipi di virus. Lo
sconvolgimento degli ecosistemi da parte di industrie che ci dovrebbero
nutrire, è sicuramente a fondamento delle ciclicità ormai assodata dei nuovi
virus.
Il monopolio
dell’agricoltura è contemporaneamente strategico per il capitale e mortale per
l’umanità e il pianeta. Lascio la parola à Rob Wallace, autore di «Big Farms
Make Big Flu», il quale sostiene che l’aumento dell’incidenza dei virus è
strettamente legato al modello industriale dell’agricoltura (e in particolare
la produzione del bestiame) e ai profitti delle multinazionali.
«Il pianeta
Terra è ormai diventato il Pianeta Azienda Agricola, sia per biomassa che per
porzione di terra utilizzate (…) La quasi totalità del progetto neoliberale è
basata sul supportare i tentativi da parte di aziende provenienti dai paesi più
industrializzati di espropriare terreni e risorse dei paesi più deboli. Come
risultato, molti di questi nuovi agenti patogeni precedentemente tenuti sotto
controllo dagli ecosistemi a lunga evoluzione delle foreste stanno venendo
liberati, minacciando il mondo intero (…) Allevare monoculture genetiche di
animali domestici rimuove ogni tipo di barriera immunologica in grado di
rallentare la trasmissione. Grandi densità di popolazione facilitano un più
alto tasso di trasmissione. Condizioni di tale sovrappopolamento debilitano la
risposta immunitaria [collettiva]. Alti volumi di produzione, aspetto
ricorrente di ogni produzione industriale, forniscono una continua e rinnovata
scorta di suscettibili, benzina per l’evoluzione della virulenza. In altri
termini l’agroindustria è talmente concentrata sui profitti che l’essere
colpiti da un virus che potrebbe uccidere un miliardo di persone è considerato
come un rischio che val la pena correre».
La
finanziarizzazione
La finanziarizzazione
funziona come una «pompe à fric» (pompa da soldi) operando un prelevamento
(rendita) sulle attività produttive e su ogni forma di reddito e di ricchezza
in quantità inimmaginabili anche per la finanziarizzazione a cavallo del XIX e
XX secolo. Lo Stato gioca un ruolo centrale in questo processo, trasformando i
flussi di salario e reddito in flussi di rendita. Le spese del Welfare
(soprattutto le spese per la sanità), i salari, le pensioni sono oramai
indicizzati sull’equilibrio finanziario, sul livello cioè della rendita
desiderato dagli oligopoli. Per garantirlo, i salari, le pensioni, il Welfare
sono costretti ad adeguarsi, sempre al ribasso, alle esigenze dei «mercati» (il
mercato non è mai stato né sregolato né capace di autoregolazione, nel dopoguerra
è stato regolato dallo Stato, negli ultimi 50 anni dai monopoli). I miliardi
risparmiati sulle spese sociali sono messi a disposizione delle imprese che non
sviluppano né impiego né crescita né produttività, ma rendita.
Il
prelevamento si esercita in maniera privilegiata sul debito pubblico e privato
che costituiscono fonti di una ghiotta appropriazione, ma anche focolai di
crisi quando si accumulano in maniera delirante come dopo il 2008 favoriti
dalle politiche delle banche centrali (la bolla dei debiti delle imprese che
hanno usato il quantitative easing per indebitarsi
a costo zero per speculare in borsa, sta esplodendo!) Le assicurazioni e i
fondi pensione sono degli avvoltoi che spingono continuamente alla
privatizzazione tutto il Welfare per gli stessi motivi.
La crisi
sanitaria
Questo
meccanismo di cattura della rendita ha messo in ginocchio il sistema sanitario
e indebolito le capacità di fronteggiare le urgenze sanitarie.
In questione
non sono soltanto i tagli alle spese sanitarie cifrati in miliardi di dollari
(37 negli ultimi dieci anni in Italia), il non reclutamento di medici e
personale sanitario, la chiusura continua di ospedali e la concentrazione delle
attività restanti per aumentare la produttività, ma soprattutto il criminale «zero
bed, zero stock» del New Public Management. L’idea è di organizzare l’ospedale
secondo la logica dei flussi just in time dell’industria:
nessun letto deve restare inoccupato perché costituisce una perdita economica.
Applicare questo management alle merci (senza parlare dei lavoratori!) era già
problematico, ma estenderlo ai malati è da pazzi. Lo zero stock riguarda anche
il materiale medico (le industrie sono nella stessa situazione per cui non
hanno dei respiratori disponibili in stock, ma devono produrli), i medicinali,
le maschere ecc. tutto deve essere «just in time».
Il piano
anti pandemia (dispositivo biopolitico per eccellenza) costruito dallo Stato
francese dopo la circolazione dei virus H5N1 nel 1997 e nel 2005, Sras nel
2003, H1N1 nel 2009, che prevedeva riserve di maschere, respiratori,
medicinali, protocolli di intervento, preparazione del sistema sanitario ecc.,
gestito da una istituzione specifica (Eprus), è stato, a partire dal 2012,
smantellato dallo logica contabile che si è affermata nella Pubblica
amministrazione ossessionata da un compito tipicamente capitalista: ottimizzare
sempre e comunque il denaro (pubblico) per cui ogni stock è una
immobilizzazione inutile, adottando un altro riflesso tipicamente
capitalistico: agire sul breve periodo. Per cui lo Stato francese perfettamente
allineato con l’impresa, mancando a ogni principio di «salvaguardia delle
popolazioni», si trova completamente impreparato di fronte a l’«imprevedibile»
emergenza sanitaria attuale.
Basta un
qualsiasi intoppo e il sistema sanitario salta producendo costi in vite umane,
ma anche costi economici molto più elevati dei miliardi che sono riusciti a
accaparrarsi sulla pelle della gente (con buona pace di Weber, il capitalismo
non è un processo di razionalizzazione, ma esattamente il suo contrario).
Ma è il
monopolio sui farmaci che è forse l’ingiustizia più insopportabile.
Con la
finanziarizzazione molti oligopoli farmaceutici hanno chiuso le loro unità di
ricerca e si limitano a comprare i brevetti da start-up per poter possedere il
monopolio dell’innovazione. Grazie al controllo monopolistico propongono in
seguito i medicinali a prezzi esorbitanti, riducendo l’accesso ai malati. Il
trattamento della epatite C ha fatto recuperare in pochissimo tempo 35 miliardi
all’impresa che aveva comprato il brevetto (costato 11), facendo degli enormi
profitti sulla salute dei malati (senza neanche più la solita giustificazione
dei costi della ricerca, trattasi di pura e semplice speculazione finanziaria).
La Gilead, proprietaria del brevetto è anche quella che possiede il farmaco più
promettente contro il Covid-19. Se non si espropriano questi sciacalli, se non
si distruggono gli oligopoli delle Big Pharms, ogni politica di salute pubblica
è impossibile.
I settori
della «salute» non sono governati dalla logica biopolitica del «prendersi cura
della popolazione» né dall’altrettanto generica «necropolitica». Sono comandati
da dei precisi, minuziosi, pervasivi, razionali nella loro follia, violenti nel
loro effettuarsi, dispositivi di produzione del profitto e della rendita (2).
La
governamentalità non ha nessun principio interno che ne determina gli
orientamenti, perché ciò che deve governare è il trittico concentrazione,
mondializzazione, finanziarizzazione e le sue conseguenze non sulle popolazioni,
ma sulle classi. I capitalisti ragionano in termini di classi e non di
popolazione, e anche lo Stato che gestiva i cosiddetti dispositivi biopolitici,
decide ormai apertamente su queste basi perché è letteralmente in mano ai
«fondés du pouvoir» del capitale da almeno cinquant’anni. È la lotta di classe
del capitale, il solo, per il momento, che la conduce coerentemente e senza
esitazione, che orienta tutte le scelte come dimostrano spudoratamente le
misure anti-virus.
Tutte le
decisioni e i finanziamenti presi da Macron sono per le imprese in perfetta
continuità con le politiche dello Stato francese dal 1983. Dopo aver represso a
manganellate le lotte del personale ospedaliero (medici compresi) che
denunciavano il degrado del sistema sanitario durante tutto l’anno appena
concluso, ha concesso, una volta scoppiata la pandemia, 2 miserabili miliardi
per gli ospedali. Su «pressione» dei padroni ha invece sospeso i diritti dei
lavoratori che ne regolano l’orario (adesso si può lavorare fino a 60 ore la
settimana) e le ferie (i padroni possono decidere di trasformare i giorni persi
a causa del virus in giorni di ferie), senza indicare quando questa
legislazione speciale del lavoro finirà.
Il problema
non è la popolazione, ma come salvare l’économia, la vita del capitale.
Non c’è
nessuna rivincita del Welfare all’orizzonte! Macron ha ordinato uno studio per
la riorganizzazione del settore della salute alla «Cassa di depositi e
prestiti» che incita a utilizzare ancor più il settore privato.
Il lockdown in
Italia è stato a lungo una farsa (come lo è in Francia attualmente), perché la
Confindustria si è opposta alla chiusura delle unità di produzione. Milioni di
lavoratori si spostavano quotidianamente, si concentravano in trasporti
pubblici, fabbriche e uffici, mentre si tacciavano di irresponsabili i runner e
si vietavano gli assembramenti di più di due persone.
Sono stati
gli scioperi selvaggi che hanno spinto per una chiusura «totale» alla quali gli
imprenditori si stanno ancora opponendo.
La
dichiarazione dello stato di emergenza di Trump ha trasformato la pandemia in
una colossale occasione di trasferimento di fondi pubblici a compagnie private.
Secondo quanto emerso lo stato di emergenza sanitaria permetterà a:
– Walmart di
condurre drive-thru testing nei 4769 parcheggi dei suoi negozi
– Target di
condurre test nei parcheggi dei suoi negozi
– Google di
mettere a lavoro 1700 ingegneri per creare un sito web per determinare se le
persone hanno bisogno di test – anzitutto nella Bay Area e non su tutto il territorio
nazionale
– Becton
Dickinson di vendere dispositivi medici
– Quest
Diagnostics di elaborare i test di laboratorio
– il colosso
farmaceutico svizzero Roche autorizzato da U.S. Food and Drug Administration a
usare i propri sistemi diagnostici
– Signify
Health, Lab Corp, CVS, LHC Group, di fornire test e servizi sanitari a
domicilio
–Thermo
Fisher, una società privata di collaborare con il governo per fornire i test
Le azioni di
queste compagnie stanno già andando alle stelle.
Dopo che
Trump ha smantellato con un timing perfetto il consiglio di
sicurezza nazionale per le pandemie nel 2018 (spese inutili!), la «risposta
innovativa» del governo, come ha detto Deborah Birx, supervisore della risposta
al coronavirus della Casa Bianca, è ora «centrata completamente sullo
scatenamento del potere del settore privato».
L’assurdità
assassina di questo sistema si rivela non soltanto quando la rendita si
accumula come «allocazione ottimale delle risorse» nelle mani di pochi, ma
anche quando, non trovando opportunità di investimento o resta nel circuito
finanziario o al sicuro nei paradisi fiscali, mentre i medici e gli infermieri
mancano di maschere, mancano i tamponi, i letti, il materiale, il personale.
Hanno
pompato tutto il denaro che potevano e questo denaro, nelle condizioni del
capitalismo attuale, è solo sterile e impotente, carta straccia perché non
riesce a trasformarsi in denaro – capitale. Anche i cosiddetti «mercati» se ne
stanno rendendo conto e ne domandano sempre di più pur non sapendo cosa farne.
I finanziamenti e gli interventi delle banche centrali rischiano di andare a
vuoto, perché non si tratta più di salvare le banche, ma le imprese. I miliardi
immessi con il quantitative easing sono finiti a finanziare la
speculazione delle banche, ma anche delle imprese e degli oligopoli e a
gonfiare il debito privato che ha superato da anni quello pubblico. La finanza
è più disastrata che dopo il 2008. Ma questa volta, à differenza del 2008 è
l’economia reale che si ferma (sia dal lato della domanda che dell’offerta) e
non le transazioni tra banche. Rischiamo di assistere a un remake della crisi
del ’29 che potrebbe trascinarsi dietro un remake di quello
che è successo subito dopo.
Un nuovo
piano Marshall?
Il denaro
funziona, è potente se c’è una macchina politica che lo utilizza e questa
macchina è costituita da rapporti di potere tra classi. Sono questi che si
devono cambiare perché sono questi che sono all’origine del disastro.
Continuare a iniettare denaro volendo mantenerli inalterati non fa che riprodurre
le cause della crisi, aggravandole con la costituzione di bolle speculative
sempre più minacciose. È per questo motivo che la macchina politica capitalista
sta girando a vuoto provocando danni che rischiano di essere irreparabili.
Le politiche
keynesiane non sono state solo una somma di denaro da inserire nell’economia in
funzione anti ciclica, ma implicavano, per poter funzionare, un cambiamento
politico radicale rispetto al capitalismo a egemonia finanziaria del secolo
scorso: il controllo ferreo della finanza (e dei movimenti dei capitali che,
adesso, si stanno ritirando velocemente, a causa del virus, dai paesi in via di
sviluppo) perché lasciata libera di espandersi e di allargare il potere degli
azionisti e degli investitori finanziari che si dividono la rendita, non potrà
che ripetere i disastri delle guerre, delle guerre civili e delle crisi
economiche del primo Novecento. Il compromesso fordista prevedeva un ruolo
centrale delle istituzioni del «lavoro» integrate alla logica della
produttività, un controllo dello Stato sulle politiche fiscali che tassavano il
capitale e i ricchi per ridurre i differenziali di reddito e patrimonio imposti
dalla rendita finanziaria ecc. Niente che assomigli anche lontanamente a queste
politiche sta dietro ai miliardi di miliardi che le banche centrali immettono
nell’economia e che servono solo a non fare crollare il sistema e a ritardare
la resa dei conti. Non cambia assolutamente niente se al posto del quantitative
easing ci sono miliardi investiti nella green economy, e
neanche se viene stabilito un surrogato di reddito universale (che intanto, se
lo danno, lo prendiamo per finanziare le lotte contro questa macchina di
morte).
Keynes che
conosceva bene queste canaglie diceva che per «garantire il profitto sono
disposti a spegnere il sole e le stelle». Questa logica non è minimamente
intaccata dagli interventi delle banche centrali, ma confermata. Non possiamo
che attenderci il peggio!
Basta
spingere un po’ più in là questa logica (ma di molto poco, vi assicuro) e conosceremo
nuove forme di genocidio che i diversi «intellettuali» del potere non sapranno
poi come spiegarsi («il male oscuro», il «sonno della ragione», la «banalità
del male» ecc.).
Le guerre
contro i «viventi»
Il
confinamento che stiamo vivendo assomiglia molto a una prova generale della
prossima, ventura crisi «ecologica» (o atomica, come preferite). Chiusi in casa
per difenderci da un «nemico invisibile» sotto la cappa di piombo organizzata
da quelli che sono responsabili della situazione creatasi.
Il capitalismo
contemporaneo generalizza la guerra contro i viventi, ma lo fa fin dall’inizio
della sua storia perché sono l’oggetto del suo sfruttamento e per sfruttarli
deve sottometterli.
La vita
degli umani, come tutti possono constatare, deve sottostare alla logica
contabile che organizza la salute pubblica e decide chi vive e chi muore. La
vita dei non umani si trova nelle stesse condizioni perché l’accumulazione del
capitale è infinita e se il vivente, con la sua finitudine, costituisce un
limite alla sua espansione, il capitale lo affronta come tutti gli altri limiti
che incontra, superandoli. Questo superamento implica necessariamente
l’estinzione di ogni specie.
Sia la
specie umana che le specie non umane sono accattivanti solo come occasioni di
investimento e unicamente come fonte di profitto.
Gli
oligopoli se ne sbattono altamente (bisogna dirlo come lo sentono!) di tutte le
Cop del mondo, dell’ecologia, di Gaia, del clima, del pianeta. Il mondo non
esiste che nel breve periodo, il tempo di far fruttificare i capitali
investiti. Ogni altra concezione del tempo è loro completamente estranea.
Ciò che li
preoccupa è la «rarità» relativa di risorse naturali ancora largamente
disponibili cinquanta anni fa. Sono assillati dal garantirsi l’accesso
esclusivo di queste risorse di cui hanno bisogno per assicurare la continuità
della loro produzione e del loro consumo che costituiscono uno spreco assoluto.
Sono perfettamente al corrente che non ci sono risorse per tutti e che lo
squilibrio demografico andrà accentuandosi (già oggi 15% della popolazione
mondiale vive al nord e 85% nei sud del mondo).
Lontani da
ogni preoccupazione ecologica, pronti a tagliare fino all’ultimo albero in
Amazzonia, coscienti che solo una militarizzazione del pianeta potrà garantire
loro l’accesso esclusivo alle risorse naturali. Non si stanno preparando solo
altre enormi catastrofi naturali, ma anche guerre «ecologiche» (per l’acqua, la
terra ecc).
Disposti
come sempre a regolare i loro conflitti con il sud del mondo attraverso le
armi, le utilizzano e le utilizzeranno senza alcun stato d’animo per prendersi
tutto di cui hanno bisogno, proprio come con le colonie. L’Africa con le sue
risorse è fondamentale, gli africani che ci abitano molto meno.
Ma
continuiamo con l’analisi del disastro prossimo venturo già in corso sempre
sulle tracce de Samir Amin
La
mondializzazione, apparentemente, non oppone più paesi industrializzati a paesi
«sottosviluppati». Opera invece una delocalizzazione della produzione
industriale in questi ultimi che funzionano come dei subappalti dei monopoli
senza alcuna autonomia possibile perché la loro esistenza dipende dai movimenti
dei capitali stranieri (tranne in Cina). Ma la polarizzazione centro/periferie
che dà all’espansione capitalista il suo carattere imperialista, prosegue e si
approfondisce. Si riproduce all’interno paesi emergenti: una parte della
popolazione lavora nelle imprese e nell’economia delocalizzata , mentre la
parte più importante cade, non nella povertà, ma nella miseria.
La
finanziarizzazione impone a questi paesi una «accumulazione originaria»
accelerata. Devono industrializzarsi, «modernizzarsi, ripercorrendo in qualche
anno quello che i paesi del nord hanno realizzato in secoli. L’accumulazione
originaria sconvolge in maniera assurdamente accelerata la vita di umani e non
umani e altera i loro rapporto creando le condizioni per l’apparizione di
mostri di ogni tipo.
La novità
della mondializzazione contemporanea è che questa distribuzione
centro/periferia, si installa anche all’interno dei paesi del Nord: delle isole
di lavoro stabile, salariato, riconosciuto, garantito da diritti e codici (in
via, comunque, di restringimento continuo) circondate da oceani di lavoro non
pagato o a buon mercato, senza diritti e senza protezioni sociali (precari,
donne, migranti). La macchina «centro/periferie» non è scomparsa. Non solo ha
assunto la forma neocoloniale, ma si è inserita anche nelle economie
occidentali.
Analizzare
l’organizzazione del lavoro partendo dal general intellect, dal
lavoro cognitivo, neuronale e via cantando, è assumere un punto di vista
eurocentrico, uno dei peggiori difetti del marxismo occidentale che continua,
imperterrito, a riprodursi.
I paesi
delle periferie non sono controllati e comandati solo dalla finanza, ma anche
dal monopolio della tecnica e della scienza strettamente in mano agli oligopoli
(il diritto ha messo a loro disposizione anche l’arma della «proprietà
intellettuale»). Qualunque sia la potenza della tecnica e della scienza , si
tratta di dispositivi che funzionano all’interno di una macchina politica. Il
capitalismo che stiamo subendo è, per dirlo con una formula, un XIX secolo
high-tech, con un sottofondo di darwinismo sociale, altro che «capitalismo
delle piattaforme», numerico, della conoscenza ecc. E’ la macchina del capitale
che impone centralizzazione, finanziarizzazione, mondializzazione e sicuramente
né la scienza e né la tecnica.
Guerre
certe! E le rivoluzioni?
La seconda
lunga crisi, come la prima, apre a una nuova epoca di guerre e di rivoluzioni.
La guerra ha
cambiato di natura. Non si scatena più tra imperialismi nazionali come nella
prima parte del XX secolo. Ciò che emerge dalla lunga crisi non è l’Impero di
Negri e Hardt, ipotesi largamente smentita dai fatti, ma una nuova forma di
imperialismo che Samir Amin chiama «imperialismo collettivo». Costituito dalla
triade Usa, Europa, Giappone e guidato dai primi, il nuovo imperialismo
gestisce dei conflitti interni per la spartizione della rendita e conduce delle
guerre sociali senza tregua contro le classi subalterne del nord per spogliarle
di tutto quello che è stato costretto a cedere loro durante il XX secolo,
mentre organizza invece guerre vere e proprie contro i sud del mondo per il
controllo esclusivo delle risorse naturali, le materie prime, il lavoro
gratuito o a buon mercato, o semplicemente per imporre il suo controllo e un
apartheid generalizzato.
Gli Stati
che non operano gli aggiustamenti strutturali necessari per farsi saccheggiare
saranno strozzati dai mercati e dal debito o dichiarati «canaglia» da dei gentlemen come
i presidenti americani che hanno un numero spaventoso di morti sulla coscienza.
I
neoliberali americani e inglesi, all’inizio dell’epidemia hanno cercato di
spingere ancora oltre la guerra sociale contro le classi subalterne, trasformandola,
grazie al virus, in eliminazione maltusiana dei più deboli. La riposta
liberista alla pandemia, prima ancora che da Boris Johnson, era stata
lucidamente articolata da Rick Santelli, analista della emittente economica
CNBC: «inoculare tutta la popolazione col patogeno. Si accelererebbe solo un
decorso inevitabile, ma i mercati si stabilizzerebbero». Questo è quello che
pensano veramente. Con condizioni più favorevoli non esiterebbero un istante a
mettere in opera «l’immunità di gregge».
Questi gentlemen,
spinti dagli interessi della finanza, sono ossessionati dalla Cina. Ma non per
i motivi che loro stessi danno in pasto all’opinione pubblica. Quello che non
li fa dormire non è la concorrenza industriale o commerciale, ma il fatto che
la Cina, unica grande potenza economica, ha integrato l’organizzazione mondiale
della produzione e degli scambi, ma rifiuta di essere inserita nei circuiti dei
pescecani della finanza. Banche, cambi, borse, movimento dei capitali sono
sotto lo stretto controllo del Partito comunista cinese. L’arma più temibile
del capitale, che succhia valore e ricchezza in ogni angolo della società e del
mondo, non funziona con la Cina. I grandi oligopoli non possono neanche
controllare la produzione, il sistema politico, e sono nell’impossibilità di
distruggere le economie, come hanno fatto con altri paesi asiatici a cavallo
del passaggio del secolo, quando non rispettavano gli ordini dettati delle
istituzioni internazionali del capitale. In questo caso potrebbero essere
tentati di aprire un conflitto. Ma vista l’approssimazione e l’incompetenza dei
governi e degli Stati imperialisti nella gestione della crisi sanitaria, ci
dovrebbero pensare due volte. Visti dall’Oriente, restano comunque delle «tigri
di carta».
Per essere
chiari: la Cina non è un paese socialista, ma non è neanche un paese
capitalista nel senso classico, né tantomeno neolibearale come molti sciocchi
dicono.
Lo stato
d’eccezione
Quello che
Agamben ed Esposito, sulla scia di Foucault, sembrano non voler integrare è che
la biopolitica, se mai è esistita, è ora radicalmente subordinata al Capitale e
continuare a usare il concetto non sembra avere molto senso. Difficile dire
qualsiasi cosa sull’attualità senza un’analisi del capitalismo che si è
completamente inghiottito lo Stato. L’alleanza Capitale e Stato che funziona
dalla conquista delle Americhe, ha subìto nel XX secolo un cambiamento
radicale, di cui Carl Schmitt stesso rende perfettamente e malinconicamente
conto: la fine delle Stato come l’Europa l’aveva conosciuto dal XVII secolo
perché la sua autonomia si è andata progressivamente riducendo e le sue
strutture, tra le quali anche le cosiddette biopolitiche, sono diventate delle
articolazioni della macchina del capitale.
I pensatori
dell’Italian Thought hanno preso lo stesso abbaglio di Foucault che nel 1979
(ma quaranta anni dopo, è imperdonabile!), anno strategico per l’iniziativa del
capitale (la Fed americana inaugura la politica del debito in grande stile),
afferma che la produzione di «ricchezza e povertà» è un problema del XIX
secolo. La vera questione sarebbe il «troppo potere». Di chi ? Non si capisce.
Dello Stato? Del biopotere? Dei dispositivi di governamentalità? Proprio in
quell’anno, si delinea invece una strategia tutta imperniata invece sulla
produzione di differenziali dementi di ricchezza e povertà, di ineguaglianze
mastodontiche di patrimonio e di reddito e il «troppo potere» è del capitale
che, se vogliamo usare le loro vecchie e logore categorie, è il «sovrano» che
decide della vita e della morte di miliardi di persone, delle guerre, delle
emergenze sanitarie.
Anche lo
stato d’eccezione è stato ammaestrato della macchina del profitto, tant’è vero
che convive con lo stato di diritto e sono, entrambi, al suo servizio.
Catturato dagli interessi di una volgare produzione di merci, si è
imborghesito, non ha più il significato che gli attribuiva Schmitt! Persa la
sua aulica e truce capacità di «decidere» di una fine tragica o un nuovo
inizio, è ridotto a semplice strumento di ordine pubblico!
Conclusione
sibillina
I comunisti
sono arrivati all’appuntamento con la fine della prima «Belle Epoque», armati
di un bagaglio concettuale d’avanguardia, di un livello di organizzazione che
ha resistito anche al tradimento della socialdemocrazia che ha votato i crediti
di guerra, di un dibattito sul rapporto capitalismo-classe operaia, rivoluzione
i cui risultati hanno fatto tremare, per la prima volta, capitalisti e Stato.
Dopo il fallimento delle rivoluzioni europee hanno spostato il baricentro
dell’azione politica all’est, nei paesi e nei «popoli oppressi», aprendo il
ciclo di lotte e rivoluzioni più importanti del XX secolo: la rottura della
macchina capitalistica organizzata dal 1942 sulla divisione tra centro e
colonie, lavoro astratto e lavoro non pagato, tra produzione manchesteriana e
rapina coloniale. Il processo rivoluzionario in Cina e in Vietnam è stato
d’impulso per tutta l’Africa , l’America Latina e tutti i «popoli oppressi».
Molto
rapidamente, subito dopo la Seconda guerra mondiale questo modello è entrato in
crisi. Lo abbiamo aspramente e giustamente criticato ma senza essere in grado
di proporre niente che si issasse a quel livello. Molto lucidamente dobbiamo
dire che siamo arrivati alla fine della seconda «Belle époque» e dunque
all’«epoca delle guerre e delle rivoluzioni» completamente disarmati, senza
concetti adeguati allo sviluppo del potere del capitale e con livelli di
organizzazione politica inesistenti.
Niente
paura, la storia non precede linearmente. Come diceva Lenin: «ci sono decenni
in cui non succede nulla, e ci sono settimane in cui accadono decenni».
Bisogna però
ripartire, perché la fine della pandemia darà inizio a scontri di classe molto
duri. Partire da quello che è stato espresso nei cicli di lotta del 2011 e del
2019-20, che continuano a mantenere delle significative differenze tra nord e
sud. Non c’è alcuna possibilità di ripresa politica se restiamo chiusi in
Europa. Capire il perché dell’eclissi della rivoluzione che ci ha lasciati
senza alcune prospettiva strategica e ripensare cosa significa una rottura
politica con il capitalismo oggi. Criticare i limiti più che palesi di
categorie che non rendono minimamente conto delle lotte di classe a livello
mondiale. Non abbandonare questa categoria e organizzare invece il passaggio
teorico e pratico dalla lotta di classe, alle lotte di classe al plurale. E su
questa affermazione sibillina mi fermo.
Note:
1. Gli oligopoli sono «finanziarizzati», il che non
significa che un gruppo oligopolistico sia costituito semplicemente da fondi
finanziari, assicurativi o pensionistici che operano in mercati speculativi.
Gli oligopoli sono gruppi che controllano sia grandi istituti finanziari,
banche, fondi assicurativi e pensionistici sia grandi gruppi produttivi.
Controllano i mercati monetari e finanziari che occupano una posizione
dominante su tutti gli altri mercati.
2. Il confinamento è sicuramente una delle tecniche
biopolitiche (gestione della popolazione tramite statistiche, esclusione e
individualizzazione del controllo che entra nei più infimi dettagli
dell’esistenza ecc.), ma queste tecniche non hanno una logica propria,
piuttosto sono, almeno dalla metà del XIX secolo , de quando il movimento
operaio è riuscito a organizzarsi, oggetto di lotta tra le classi (recupero da
parte dello Stato delle pratiche di “mutuo soccorso” operaie). Il Welfare nel
XX secolo è stato un elemento di scontri e negoziazioni tra capitale e lavoro,
strumento fondamentale per contrastare le rivoluzioni del secolo scorso e
integrare le istituzioni del movimento operaio, e poi delle lotte delle donne
ecc. Il Welfare contemporaneo, una volta che i rapporti di forza sono, come
oggi, in favore del capitale, è diventato un suo settore di investimento e
management come ogni altra industria e ha imposto la logica del profitto alla
sanità, alla scuola, alle pensioni ecc. Anche quando lo Stato contemporaneo
interviene come in questa crisi lo fa secondo un punto di vista di classe per
salvare la macchina del potere di cui non è che una parte. Non viviamo in una
sociétà biopolitica (R. Esposito) ma hypercapitalista.
La follia di lavorare a ogni costo - Mark Bergfeld
Dopo l’evacuazione dei passeggeri contagiati, la nave da
crociera Princess Diamond ha avuto bisogno di pulizie approfondite. Un appaltatore
australiano ha vinto la gara e puntualmente ha inviato ai suoi addetti alle
pulizie un messaggio in cui offriva una «grande opportunità» per una
settimana di lavoro. I lavoratori in questione erano addetti alle pulizie delle
scuole, privi dell’esperienza necessaria a rapportarsi a situazioni di pericolo
batteriologico. Ma visti i loro bassi salari, i cinque-seimila dollari promessi
per una settimana di lavoro avrebbero suscitato sicuramente interesse.
Per fortuna, l’United Workers Union non era disposta ad
accettare l’atteggiamento irresponsabile dei dirigenti. Hanno protestato
davanti al quartier generale dell’azienda e hanno esortato i lavoratori a non
accettare l’incarico. L’orario proposto e le condizioni di lavoro erano tutto fuorché trasparenti – e gli
addetti alle pulizie non avevano ricevuto nessuna formazione specifica. I
lavoratori non erano stati testati per precedenti problemi di salute, che li
avrebbero resi più vulnerabili.
La disputa sulla Princess Diamond esemplifica
bene il problema alla base del modo in cui i media stanno presentando la crisi
del Coronavirus. Si parla tanto di come i governi e le imprese stanno provando
a fronteggiare la crisi, ma molta meno attenzione è prestata a come questa
stessa crisi sta rimodellando il mondo del lavoro – e il peso che scarica sulle
spalle dei lavoratori e delle lavoratrici. Invece è la cosa che potrebbe
davvero fare la differenza e non solo tra i professionisti del comparto
sanitario.
Dai lavoratori del terzo settore a basso reddito fino ai
fattorini che a Wuhan hanno continuato a nutrire la popolazione in quarantena,
alcune categorie stanno subendo più di altre gli effetti di questa crisi – e
spesso sono quelle più a rischio. Gli addetti alle pulizie e gli impiegati
delle carceri, ad esempio, sono in molti casi la prima linea di difesa contro
la diffusione del virus. È assurdo che spesso siano anche i lavoratori pagati
peggio di tutti.
Di fronte a questa situazione – e ai cambiamenti crescenti
sulle modalità di lavoro per i lavori a bassissimo reddito – non dobbiamo
pensare al Coronavirus come a una sorta di disastro naturale. È urgente
stimolare i sindacati affinché proteggano la sicurezza dei lavoratori, per
assicurarci che quanti stanno in prima linea siano pagati adeguatamente, da un
lato, e dall’altro abbiano tutte le protezioni necessarie.
Il presenzialismo è pericoloso
I capi si lamentano sempre dell’assenteismo dei loro
dipendenti. Tuttavia, ai tempi del Coronavirus, dovremmo essere più preoccupati
del contrario: il presenzialismo di quanti dovrebbero
riguardarsi o avere accesso a trattamenti sanitari ma si sentono obbligati a
presentarsi al lavoro.
Ad esempio i lavoratori della ristorazione e affini, che
spesso guadagnano talmente poco che saltare un giorno di lavoro li metterebbe
nei guai. Come ha commentato un utente di Twitter, se questi lavoratori
non avranno accesso alla malattia retribuita, continueranno a presentarsi a
lavoro – e con ciò contribuiranno alla diffusione del virus. Nel 2017, secondo
l’Us Bureau of Labor Statistics solo il
46 percento dei lavoratori del settore dei servizi ha avuto accesso ai permessi
per malattia [negli Stati uniti, ndt].
In Gran Bretagna, invece, la malattia retribuita inizia
solitamente dopo il terzo giorno di assenza. Nondimeno, la catena di pub Jd
Wetherspoon – che conta più di 45 mila dipendenti – ha
dichiarato che tratterà il Coronavirus come qualsiasi altra
malattia, e cioè che i lavoratori malati che resteranno a casa per paura di
diffondere il virus rimarranno senza paga. La forza lavoro part-time della
catena di pub sarà particolarmente colpita da questa politica, dato che i
lavoratori inglesi hanno diritto alla malattia retribuita solo se guadagnano
più di 118 sterline a settimana.
In Cina, teatro del primo focolaio, le aziende private
hanno decurtato i salari o ritardato i pagamenti. In molti casi, i lavoratori
sono stati costretti a usare le proprie ferie e a prepararsi per congedi non
retribuiti. Alla Foxxconn, fornitore Apple, i lavoratori stanno tornando a
lavoro dopo la quarantena per un terzo del salario. Nel frattempo, nel settore
della ristorazione i lavoratori si trovano disoccupati perché privi di clienti.
Alcuni datori di lavoro stanno facendo dei cambiamenti.
Il Financial Times sta
dando consigli ai colletti bianchi su come lavorare da casa, e sostiene che il
tanto decantato avvento dello smart working al di fuori
dell’ufficio stia finalmente diventando realtà. Molti luoghi di lavoro
tradizionali stanno andando verso il lavoro agile, un tempo prerogativa della
Silicon Valley e dell’industria tecnologica, per impedire che i propri
dipendenti contraggano il virus perdendo ancora più giorni di lavoro per
malattia. L’azienda petrolifera Chevron ha chiesto ai suoi trecento e passa
lavoratori di Londra di lavorare da casa. Ma questi professionisti che passano
al lavoro da casa hanno ben poco impatto sulla diffusione della pandemia, dato
che milioni di lavoratori dei servizi e delle fabbriche devono necessariamente
operare nei luoghi di lavoro. Se qualche lavoratore si presenta a lavoro
malato, si corre il rischio di infettare i clienti; se li fai restare a casa,
potresti essere costretto a chiudere del tutto bottega.
Il problema è che la cultura del presenzialismo scarica
il peso della decisione sui lavoratori e le lavoratrici – e spesso fa sì che si
presentino al lavoro quando dovrebbero invece stare a casa. Il rapporto di
forza nei luoghi di lavoro – la tirannia dei capi e il bisogno di essere pagati
– porta spesso a prendere una decisione irrazionale che mette in pericolo tutta
la società. Anche se presentarsi al lavoro nonostante tutto viene considerato
«dedizione», non è affatto un bene per i propri colleghi – né per i clienti.
Il lavoro sta cambiando
Ma non è solo la cultura dei colletti bianchi a cambiare.
Sta anche cambiando il contenuto stesso del lavoro – cosa vuol dire lavorare.
Questo è soprattutto il caso di quanti lavorano nelle industrie che potrebbero
contribuire alla prevenzione delle malattie, come i lavoratori e le lavoratrici
di cura, nei settori delle pulizie e sanitario, lo staff medico, che può porre
un freno alle conseguenze peggiori del virus, così come per altre persone che
possono potenzialmente farsene vettore.
In Nigeria, dove il primo paziente positivo al Coronavirus
è stato identificato due settimane fa, le guardie giurate sono state mobilitate per distribuire
igienizzanti a tutti quelli che entrano negli edifici.
Utilizzare i lavoratori peggio pagati per impedire un focolaio deve andare di
pari passo con un aumento dei benefit per i lavori a rischio e, soprattutto,
con il diritto alla malattia, così che possano svolgere il loro lavoro in
maniera efficiente. Purtroppo, questo non sta assolutamente accadendo – con la maggior
parte dei lavoratori sotto pressione affaticati da ulteriori responsabilità
senza aumenti di paga.
È una cosa che ho notato durante una recente visita a un
museo di Brussels, dove lo staff del museo doveva sanificare le audioguide dei
visitatori. Anche se sembra un compito poco importante, i lavoratori quasi mai
ricevevano una formazione adeguata su come eseguire questo compito improvviso,
che spesso diventava parte del loro lavoro. E ancor più raramente venivano
pagati di più per questi compiti aggiuntivi: «fa parte del lavoro», dicevano i
capi. Chiunque lavori a contatto con il pubblico sa bene come spesso questi
piccoli compiti e attività si sommino finendo col diventare ingestibili. Fatto
particolarmente vero quando la malattia causa una carenza di personale.
Nell’industria delle pulizie, il Coronavirus sta
intensificando il regime di lavoro, con l’introduzione di nuovi standard di
igiene. Questi standard sono decisi da organismi di normalizzazione dominati da
compagnie che spesso codificano i propri metodi di lavoro per guadagnare un
vantaggio competitivo sul mercato. Ma i lavoratori non possono mettere bocca su
questi standard – né è scientificamente provato che producano effetti positivi.
I lavoratori della sanità incaricati di occuparsi della situazione
non stanno messi meglio. Una fonte interna all’Us Department of
Health and Human Services ha rivelato che il dipartimento non ha abbastanza
mascherine protettive per tutti i lavoratori. La mancanza di mascherine
protettive sta peggiorando, dato che la popolazione generale le sta acquistando
in dosi massicce. Persino l’Us Surgeon General ha dovuto chiedere
al pubblico di limitare l’acquisto di mascherine, così che i professionisti del
settore sanitario che ne hanno davvero bisogno possano contenere il Coronavirus
e curare i lavoratori senza infettarsi a loro volta.
Il focolaio cinese illustra molto bene come sovraccaricare
i lavoratori degli ospedali mini alla base tutti gli sforzi nel contrastare il
virus. Qui, più di tremila operatori sanitari cinesi hanno contratto il
Coronavirus, e otto di loro sono morti. In un caso, un paziente ricoverato nell’ospedale di Wuhan ha
infettato dieci medici. La mancanza di rifornimenti sanitari, l’aumento
esponenziale del numero di pazienti, e l’alta contagiosità del virus si sono
combinati con lo stress, i lunghi orari di lavoro, e la carenza di personale,
creando un circolo vizioso per coloro a cui era affidata la gestione della
crisi.
Mentre il Coronavirus viaggia da paese in paese, non c’è
quasi alcun dubbio che sempre più lavoratori saranno responsabili di doverne
gestire gli effetti. Quello che resta da capire è se questo carico di lavoro
extra comporterà un aumento dei salari, una maggiore formazione e una maggiore
sicurezza e salute nei luoghi di lavoro. Tutte cose fondamentali per garantire
alle prime linee di mantenere la propria dignità nello svolgimento del lavoro
che sono chiamati a fare.
La fine della gig economy?
I lavoratori della gig economy corrono un rischio
particolarmente alto di contrarre il virus – eppure sono fra quelli peggio
retribuiti. In Cina come altrove, i rider del food delivery sono in prima linea
nel far sì che la popolazione in quarantena sia ben nutrita. Eppure non sanno
se la persona che sta ordinando del cibo è malata oppure no.
È vero che il turismo sta rallentando, ma i lavoratori dei
servizi che si trovano a stretto contatto con i turisti hanno spesso contratto
il Coronavirus, a volte con conseguenze mortali. A Taiwan, un autista di taxi
che ha trasportato passeggeri dalla Cina e da Hong Kong è morto lo scorso
febbraio. Mentre il turismo rallentava, gli autisti di taxi in Thailandia hanno visto i loro mezzi di sussistenza venire distrutti da
paghe che passavano da trenta a dieci dollari al giorno.
Gli ammalati sono spesso invitati a usare taxi o app di
ridesharing al posto delle ambulanze. A Londra, una paziente di Coronavirus
quando è stata male non ha chiamato l’ambulanza, ma al suo
posto ha preso un taxi Uber per andare al pronto soccorso più vicino, dove ha
varcato la soglia e si è presentata allo staff della reception. È stata una
corsa breve, e l’autista non è stato contagiato. Tuttavia, queste storie
sottolineano il pericolo a cui i lavoratori della gig economy sono esposti.
I lavoratori indipendenti della gig economy non hanno
diritto alla malattia retribuita o ad agevolazioni per l’assistenza sanitaria.
Il Washington Post ha riportato che gli autisti
stanno pulendo le loro macchine. Ovviamente, questi autisti non sono pagati per
il tempo passato a pulire. A differenza di Lyft, Uber ha mandato ai propri
autisti un messaggio interno con le precauzioni dettagliate che devono
prendere. Questo non fa altro che sottolineare il fatto che sono suoi impiegati
– e dovrebbero essere trattati come tali.
Il modello di lavoro di queste aziende, e la loro gestione
algoritmica e il controllo che hanno sui lavoratori, sono insostenibili al
tempo del Coronavirus. La mancanza di trasparenza o dei basilari diritti dei
lavoratori – con datori che non fanno niente per proteggere i propri dipendenti
dalla diffusione del virus – sta contribuendo anche a un razzismo
anti-asiatico, e alcuni autisti si rifiutano di accettare passeggeri con tratti asiatici.
Le richieste dei lavoratori, le risposte
dei sindacati
Attualmente, sembra che il Coronavirus stia continuando a
esacerbare le diseguaglianze del mercato del lavoro. Il movimento dei
lavoratori non dovrebbe smettere di fare pressioni sui datori di lavoro, come
se fossero semplicemente vittime della situazione. Le aziende dovrebbero
garantire mascherine protettive, offrire opportunità di lavoro da casa, e
fornire giorni di malattia aggiuntivi e più agevolazioni per l’assistenza
sanitaria.
Il Trades Union Congress (Tuc) della Gran Bretagna sta
facendo da esempio nel chiedere dei cambiamenti per la malattia retribuita. Per
il Tuc, ai lavoratori al di sotto della soglia delle 118 sterline a settimana
dovrebbe essere garantita la malattia a partire dal primo giorno. Un cambiamento
simile coinvolgerebbe 2 milioni di lavoratori. Il 3 marzo, il primo ministro
Boris Johnson ha detto alla Camera dei Comuni che la paga legale per la
malattia (94,25 sterline a settimana) sarà garantita a partire dal primo
giorno, ma si è rifiutato di rispondere alla domanda del leader del Labour Jeremy Corbyn se
questa estensione sarà applicata ai lavoratori part-time.
Nel frattempo, i lavoratori della sicurezza aeroportuale
dell’Aeroporto di Francoforte, in Germania, hanno chiesto che gli siano
garantite le mascherine protettive. Anche se le mascherine non impediscono
necessariamente la diffusione del virus, i sindacati dovrebbero sicuramente
chiedere più misure di sicurezza e di salute per i lavoratori della prima
linea.
Soprattutto, i sindacati dovrebbero chiedere più giorni di
«lavoro da casa» o da remoto – una domanda crescente nella forza lavoro
odierna. Anche se il lavoro da casa può presentare dei problemi, come quello di
lavorare nei fatti molte più ore, questa misura avrebbe dei vantaggi
considerevoli soprattutto per le donne – che hanno più difficoltà nel
bilanciare il lavoro con la cura dei bambini e degli anziani.
Senza dubbio, la crisi del Coronavirus porterà a numerosi
cambiamenti nel mondo del lavoro. Ma, come per ogni crisi, la domanda è chi ne
dovrà pagare il conto. Per i lavoratori e le lavoratrici, un’opzione è il
fatalismo – accettare le pretese dei capi che affrontare questi rischi sia oramai
«parte del lavoro». Oppure, possiamo insistere sul fatto che i datori di lavoro
si prendano le loro responsabilità, e implementino i cambiamenti necessari a
far sì che i lavoratori e tutti quanti siano al sicuro.
*Mark Bergfeld è direttore del Property Services &
Unicare at Uni Global Union – Europa. Questo articolo è uscito su Jacobinmag.com. La traduzione è di
Gaia Benzi.
La produzione inarrestabile - Gianluca De Angelis, Marco Marrone
Analizzando i dati sui settori rimasti
in attività con il decreto del governo si scopre che almeno il 40.3% di chi
lavora oggi non sarebbe necessario. Ma per fermarli serve un controllo pubblico
non solo su cosa produrre ma anche su come si produce
Aprescindere dal come la si pensi, il Decreto del 22 Marzo è un
evento storico. Dalla sua costruzione, alle modalità di diffusione, fino alla
sua effettiva efficacia, si tratta di un atto eccezionale che conferma la
particolarità del tempo che stiamo vivendo. La stretta, l’ennesima in poche
settimane, arriva nella tarda serata del 21 dalla viva voce del Presidente del
Consiglio Giuseppe Conte, via Facebook. Stavolta però non si guarda alle
attività dei singoli, ma a quelle produttive: la chiusura di tutto ciò che non
è «rilevante». Stiamo rallentando il motore – spiega Conte – non lo stiamo
fermando.
Il principio sembra andare incontro a quanto richiesto espressamente e
unitariamente da Cgil Cisl e Uil nella stessa giornata: chiudere le produzioni
non cruciali onde evitare ulteriori contagi. Nonostante le rassicurazioni da
parte di Confindustria, infatti, gli scioperi dovuti al mancato rispetto delle
norme sanitarie nei luoghi di lavoro e le denunce di abusi hanno evidenziato un
problema concreto sia per quanto riguarda il rischio di contagio, sia per il
contemporaneo spostamento di migliaia di persone che rischia di vanificare gli
sforzi psicologici ed economici richiesti fin qui alla popolazione. Tuttavia,
molta è stata la confusione di queste ore, tra il lobbismo di Confindustria e
le minacce di sciopero dei sindacati. Confusione generata soprattutto
dall’impiego degli ormai celebri codici Ateco – uno dei principali strumenti di
analisi statistica, economica e fiscale del mondo produttivo, che però in
questi giorni mostra tutti i suoi limiti nel fotografare in modo affidabile la
nostra economia. Viene però da chiedersi: sono i limiti di questo strumento ad
aver determinato le oscillazioni di questi giorni o, piuttosto, il modo in cui
esso è stato impiegato?
Una delle ambiguità decisive emerse dal discorso di Conte è cosa debba
intendersi per attività «essenziali» e quanti lavoratori sarebbero coinvolti
dal blocco, che era poi la vera questione «essenziale». Mentre sul primo punto,
sin da subito e per tutta la giornata successiva, sono circolate liste più o
meno estese con l’elenco delle attività incluse nel provvedimento, sul secondo,
ossia quante persone saranno al sicuro nelle loro case, ben pochi dati sono
stati diffusi dai media ufficiali o dalle parti coinvolte. Per questo, al di là
dello sforzo per individuare le dimensioni della platea che non potrà aderire
al martellante invito a stare a casa, la domanda a cui provare a dare risposta
non è soltanto in che modo si è giunti a questa decisione, ma anche «che cosa
si sta effettivamente decidendo?».
Cosa ci dicono i dati?
Negli ultimi anni la volontà di quantificare ogni aspetto della realtà è
diventata un’ossessione tanto degli scienziati quanto dei legislatori. Spesso –
basti pensare al decennio dell’austerità – i numeri sono stati un vero e
proprio strumento di governo, volto tanto a rassicurare la popolazione quanto a
spoliticizzare ogni questione di natura economica. Eppure, mai come durante la
pandemia l’informazione numerica è stata sottoposta a un tale sovraccarico di
significati. I contagi, le vittime, i tamponi, le vittime, i fondi stanziati,
le vittime, i letti in terapia intensiva, le vittime, le offerte, le vittime:
un flusso di valori assoluti che invece di avvicinarci alla dimensione umana
dei fenomeni descritti, ha finito per allontanarcene. Un’astrazione che ci
spinge ad andare oltre la scala dell’umanità, come ha ben
colto Fred Uhlman nel suo romanzo L’amico
ritrovato. Quelli che non fanno narrativa, e con i
numeri decidono e lavorano, sanno però che il valore assoluto di un fenomeno
rischia di non dire molto rispetto al suo significato sociale. È forse anche
per questo che sin dalle prime ore del 22 marzo diversi sono stati i tentativi
per rispondere alla questione lasciata inevasa dallo stesso Conte: quante
persone saranno messe in condizione di #stareacasa?
In realtà, la domanda è tutt’altro che semplice. Nonostante la produzione
di dati sia diventata una costante dell’agire umano, il loro utilizzo ai fini
conoscitivi dipende da coloro che determinano sia la struttura della raccolta
sia quella dell’accesso ai dati stessi. Il loro utilizzo, infatti, presuppone
una sequenza di azioni specifica determinata dagli scopi e dagli obiettivi che
la animano. Nel quadro della ricerca pubblica, quella serie di azioni permette
di comprendere la logica di un intervento normativo e prevederne gli effetti
immediati. È questo, in primo luogo, a rendere la mancata individuazione della
platea dei lavoratori coinvolti dal Dpcm del 22 Marzo una questione politica.
Quanti sono i lavoratori delle attività
essenziali?
L’obiettivo di ridurre l’esposizione al contagio non ha nulla a che vedere
con il tipo di attività svolta, piuttosto con le sue caratteristiche di
svolgimento. Il punto non è l’attività in sé ma la possibilità di ridurre i
contatti con altre persone durante il suo svolgimento nonché gli spostamenti
necessari per compierla. In questo senso l’essenzialità di un’attività è meno
interessante della possibilità di una sua realizzazione in remoto, ad esempio.
Ci sono poi altri aspetti da considerare, non da ultimo il rischio fisico che
l’attività comporta, che incide anche sull’esposizione dovuta a eventuali interventi
di soccorso. Tali complessità spiegano in parte perché molti imprenditori
avessero già optato per una riduzione della produzione, sfruttando a questo
fine gli ammortizzatori sociali di sostegno al reddito messi a disposizione con
il decreto «Cura Italia». L’intervento del 22 Marzo arriva invece come
un’approssimazione successiva alle iniziative spontaneamente già prese. Con la
continua crescita esponenziale dei contagi, le misure adottate sin qui
risultano insufficienti, motivando il governo a estendere il blocco della
produzione su tutte le attività non essenziali. La complessità del compito di
individuare quali esse siano è stato risolto dall’ormai noto «allegato 1»
comprendente 75 voci.
L’elenco è una parte del complesso sistema di codifica merceologiche delle
attività produttive che conosciamo come Ateco.
Più avanti si avrà modo di entrare nel dettaglio della sua origine e struttura.
Per ora basti sottolineare che la classificazione merceologica riguarda le
imprese e non il lavoro che si svolge al loro interno. Il
codice Ateco non spiega, quasi mai, che lavoro si svolge. Può dare una mano a
identificare il tipo di azienda o a individuare il campo in cui si è occupati.
Per questo anche i più informati scorrendo la lista delle attività hanno
incontrato difficoltà a comprendere se dovevano restare a casa o meno.
Il codice Ateco è strutturato come un albero, in cui ogni cifra indica
l’ambito produttivo generale rispetto a quello più specifico individuato con le
cifre successive. Questa informazione è importante perché maggiore è il numero
delle cifre più è specifica l’attività da misurare, e più è difficile tradurre
quell’attività in una quantificazione certa. Da un lato, infatti, anche ove
disponibile, un’eccessiva puntualità nelle rilevazioni potrebbe essere lesiva
della privacy dei lavoratori e delle lavoratrici coinvolte, dall’altro, però,
la progressiva riduzione dei campioni di rilevazione nelle indagini che
raccontano il lavoro in Italia espongono la misura a errori, detti campionari,
che rendono sconsigliabile avventurarsi in considerazioni al di là di un certo
limite.
Nei file diffusi trimestralmente per la rilevazione
continua sulle forze di lavoro, l’Istat mette a disposizione tre
diversi livelli di specificità delle attività merceologiche: a una e a due
cifre nei file resi pubblici e a quattro cifre in quelli destinati agli enti di ricerca che, in altri
termini, dovrebbero sapere come usarla al meglio. Ora, il dettaglio specificato
dal Dpcm è misto. Si passa da alcune aree identificate con una sola cifra (J o
K), fino ad attività identificate alla sesta. Questo basta a far comprendere
come l’utilizzo della banca dati fornita dall’Istat sia un’approssimazione
dell’approssimazione del numero che cerchiamo. In primo luogo, infatti, non è
possibile arrivare alla specificità richiesta da una misura di contenimento
dell’epidemia come questa; in secondo, per quanto solida e affidabile, quella
che abbiamo resta un’indagine campionaria e non la rilevazione dell’intero
universo delle imprese effettivamente esistenti. Questa strada è quella che ha
portato la Fondazione Di Vittorio (istituto afferente alla Cgil) a individuare
in 15 milioni i lavoratori impiegati in attività essenziali secondo
la definizione adottata dal Dpcm in questione e gli interventi precedenti, in
special modo quello dell’11 marzo dedicato alle attività di commercio e servizi
al dettaglio di determinati prodotti.
Un tentativo diverso è stato quello svolto da Davide Dazzi, ricercatore
dell’Ires Emilia-Romagna (istituto anch’esso affiliato alla Cgil), che ha
scelto la via dei bilanci depositati dalle imprese, raccolti in una banca dati
privata, per allestire una mappa dell’essenzialità. Nel caso
specifico, questo approccio coglie la questione di fondo: se il codice Ateco
descrive le imprese, allora è dall’impresa che si deve partire. La difficoltà
per questa strategia è che in Italia i bilanci delle imprese sono soggetti a
pubblicazione solo in determinati casi, e tanto la loro raccolta quanto la loro
standardizzazione costituisce un passaggio ulteriore che non va dato per
scontato.
A fare questo lavoro è la rete delle Camere di Commercio e viene reso
disponibile dal sistema del Registro Imprese. Nel sito, però, solo la
ricerca puntuale sull’impresa è in parte accessibile. Il microdato, invece,
quello che permette di fare delle elaborazioni ad hoc aggregando le
informazioni di più imprese, è soggetto a pagamenti differenziati per tipologia
di informazione richiesta e numero di record estratti. Lo stesso vale per le
altre banche dati che si rifanno a quella delle Camere di Commercio. Di
tutt’altra origine è invece la banca dati Aida, utilizzata da Davide Dazzi
nel’ambito del progetto Open Corporation e resa disponibile
da Bureau van Dijk – società afferente a Moody’s – nel listino dei suoi
prodotti nazionali e globali.
La scelta dell’utilizzo di questa banca dati pone non poche difficoltà
relative alla sua struttura e natura. In primo luogo è uno strumento che nasce
per soddisfare i bisogni conoscitivi a fini di mercato e di marketing,
rivolgendosi a tipologie di utenti diverse con varie possibilità di abbonamento
che ammettono gradi di copertura diversi e quindi risultati variabili. In
secondo luogo, la banca dati è soggetta a due limitazioni significative: la
parzialità delle imprese censite e l’aggiornamento delle informazioni
contenute. Da un lato, infatti, il grado di copertura è differenziato per la
tipologia d’impresa; dall’altro, l’aggiornamento incostante dei bilanci fa sì
che l’informazione controllata oggi non sia più verificabile domani. Inoltre,
come specifica lo stesso ricercatore, l’estrazione è fatta per «ultimo bilancio
disponibile» dell’azienda e quindi tiene insieme dati riferiti a momenti
diversi. Per questo, nel ragionamento che fa Dazzi, i valori assoluti sono
lasciati in secondo piano rispetto ai valori percentuali.
A partire da queste limitazioni, Dazzi specifica che le imprese coinvolte
nelle attività essenziali sono il 39,9% di quelle presenti nel database a cui
corrispondono circa il 56,6% dei lavoratori dipendenti rilevati nei bilanci,
quindi 7,5 milioni di persone. Tenendo presente che nei bilanci il lavoro
considerato è solo quello dipendente – mentre quello autonomo è parte dei costi
per l’acquisto di beni e servizi – il calcolo fatto dal ricercatore non può che
essere parziale. Il focus del suo ragionamento, infatti, non è tanto quello di
individuare il numero esatto dei lavoratori coinvolti, quanto mostrare la
territorializzazione del tessuto produttivo e, quindi, la differenziazione
territoriale dell’impatto del Decreto, riportandoci alle ragioni alla base
dell’intervento normativo e mostrando la debolezza delle fondamenta su cui
poggia.
Nel tentare di rispondere alla domanda dalla quale siamo partiti, ossia il
numero dei lavoratori coinvolti dal decreto del 22 Marzo, si potrebbe dire che,
prendendo per buona approssimazione dell’esistente il campione presente in Aida
e quindi la percentuale dei lavoratori dipendenti essenziali fornita da Dazzi
(56,6%) e applicandola al numero totale dei dipendenti conteggiati nella
Rilevazione Continua sulle Forze di Lavoro per il 2019 (18,048 milioni), il
provvedimento permetterebbe di stare a casa a 10,215 milioni di dipendenti,
lavoratori autonomi esclusi. Si tratta di condizioni, insomma, che rendono
qualsiasi sforzo conoscitivo un esercizio di stile tardivo nei tempi, fine a sé
stesso nei contenuti e inutile rispetto agli obiettivi che ci premono. D’altra
parte, è speranza di chi scrive, questa approssimazione delle decisioni, e
ancor più la carenza delle informazioni a disposizione dei ricercatori e dei
decisori politici, è una delle tante cose che non potrà tornare a essere come
prima.
Quanti sarebbero invece dovuti restare a
casa?
Per poter comprendere la difficoltà di avere un chiaro metro con cui
orientarsi all’interno dell’attuale economia, basta guardare alla complessità
del processo che ha portato alla costruzione dei codici Ateco, coinvolgendo
enti che vanno dall’Agenzia delle Entrate alle Camere di Commercio, Ministeri e
persino associazioni imprenditoriali, con l’obiettivo di: «adottare
la stessa classificazione delle attività economiche per fini statistici,
fiscali e contributivi, in un processo di semplificazione delle informazioni
gestite da pubbliche amministrazioni e istituzioni». Una
tecnologia vera e propria che però incide in maniera decisiva sulla vita
economica di molte imprese. Basti pensare che la stessa macchina che taglia e
lucida il legno serve sia per fare le porte che i mobili; ma mentre nel primo
caso il premio Inail sale perchè le porte nel sistema Ateco sono considerate
«Edilizia» – un settore più a rischio – nel secondo scende. Non sorprende,
dunque, che la sua stesura abbia richiesto diversi decenni di raffinazione.
L’attuale versione, infatti, è datata Gennaio 2008 e va a sostituire quella del
2002, che a sua volta ha preso il posto di quella del 1991 – per non parlare
degli interventi minori, anche più frequenti. Le ragioni di questo continuo
aggiornamento riguardano le profonde trasformazioni che la produzione ha avuto
nell’ultimo ventennio. L’innovazione tecnologica, la nascita di nuovi settori,
l’ibridazione degli altri, oltre che una progressiva tendenza alla
frantumazione della produzione, non potevano dunque che implicare un continuo
sforzo di adattamento della classificazione.
Nonostante lo sforzo, la dinamicità delle trasformazioni sembra destinare
il tentativo di fotografare l’economia compiuto da questi codici a un costante
fallimento. Si pensi ad aziende come Deliveroo, che sono configurate come
servizi informatici, ma anche al fatto che, nell’attuale modello produttivo
basato su una rete di inter-scambi di fornitura tra le aziende, l’appartenenza
a una di queste categorie non è indicativa della filiera in cui è inserita. Da
un lato l’ascesa della globalizzazione neoliberista, dall’altro l’affermarsi dei
modelli produttivi del just-in-time, con politiche di
esternalizzazione e riduzione dei costi, hanno letteralmente stravolto il
sistema produttivo, e così la capacità descrittiva del codice Ateco è oggi
fortemente ridotta.
È questa complessità, secondo lo studio fatto da Matteo Gaddi e Nadia Garbellini della Fondazione
Sabattini, ad aver tratto in inganno il governo nell’arduo
compito di definire le imprese essenziali. Invece «di partire dai settori
fondamentali – ossia Agricoltura e agroindustria, Sanità e assistenza sociale,
Ricerca scientifica e istruzione, Pubblica amministrazione, Telecomunicazioni,
Servizi pubblici – e, a cascata, individuare con puntualità tutti i loro
fornitori diretti ed indiretti, indipendentemente dalla branca di afferenza […]
hanno incluso attività fondamentali più altre attività al loro servizio facente
parti della filiera a loro associata». Se a ciò si aggiunge il lavoro di lobbying di
Confindustria che ha esteso le maglie dell’elenco, ciò che si è venuto a
determinare è il coinvolgimento di un numero ben maggiore di persone.
Ragionando sulla base delle ore lavorative necessarie a far funzionare i
settori fondamentali – non quelli che il governo definisce
come essenziali – viene fuori che a una larga parte di
lavoratori è stato chiesto di andare a lavorare quando non necessario. Pur con
i limiti già indicati relativi all’utilizzo delle banche dati disponibili, le
ore necessarie a far funzionare i settori fondamentali sarebbero appena il
31,8% del totale, mentre, quelle svolte ammesse dal decreto rappresentate dalla
somma di quelle blu e rosse del grafico seguente, sono ben il 46,5%: «In
pratica – concludono gli autori – ben il 40.3% di chi lavora oggi dovrebbe in
realtà essere a casa». E si tratta di una sottostima, perché anche nei settori
fondamentali sono compresi una serie di sottocodici che attività fondamentali
non sono, oltre a non includere settori come aerospazio, petrolchimico e siderurgia
che non sono inclusi nel decreto ma restano comunque attivi secondo il
Dpcm.
Con tutti i limiti dell’aggregazione nazionale che non risponde alla
questione del «rischio contagio», è quest’ultimo il ragionamento che ci si
sarebbe aspettati per garantire il governo dell’emergenza e scongiurare la
sventura di un Governo in emergenza.
Che cosa si sta effettivamente
decidendo?
L’errore compiuto dal governo non è solo di natura metodologica. L’ultimo
Dpcm, infatti, consente alle imprese che partecipano alle filiere produttive di
quelle che il governo definisce come attività essenziali, la
possibilità di continuare la propria produzione previa segnalazione al
Prefetto. Un meccanismo farraginoso rispetto agli obiettivi tanto più che,
nella frammentazione produttiva di oggi, consente virtualmente a chiunque di
millantare una qualsiasi connessione con i settori elencati nel celebre
Allegato 1. Inoltre, tale formula ricalca ancora una volta il principio secondo
cui le aziende pensano di godere della più assoluta libertà nel decidere
l’organizzazione del lavoro e della produzione. Ossia, il principio che sino a
oggi ha guidato tanto molte delle trasformazioni nei processi produttivi,
quanto le riforme del mercato del lavoro nel nome della «flessibilità» e persino
le riforme fiscali che in questi anni hanno sottratto risorse preziose alla
stessa salute pubblica. Non sorprende, dunque, che oltre al numero delle
imprese coinvolte, questo sia stato uno dei punti di maggiore controversia per
i sindacati che, nella trattativa che ha seguito la minaccia di convocazione
dello sciopero da parte delle sigle confederali, sono riusciti a mitigare la
questione con un ruolo consultivo.
In questo senso, il governo non ha solo sbagliato le risposte, ma anche le
domande. La domanda giusta, in un momento come questo, non era se intervenire o
meno nel limitare una parte della produzione, o come farlo, ma se questa
dovesse temporaneamente passare sotto un controllo pubblico della sua
organizzazione e destinazione o meno. L’unico modo per riuscire a rallentare la
produzione, garantendo la fornitura dei servizi essenziali alla popolazione
prevenendo allo stesso tempo la diffusione del contagio, è infatti programmare
almeno temporaneamente l’economia: definire quantità e tipologie di prodotti
necessari e da lì individuare le filiere necessarie alla sua produzione.
In altre parole, non è possibile effettuare un passaggio di questo genere
rimettendo in discussione soltanto cosa produrre, ma anche come produrre, a
partire da quella frammentazione creata in questi anni che ha letteralmente
fatto «spiccare il volo» all’economia, rendendola imperscrutabile con le
vecchie mappe a disposizione dei governi. Tra le contraddizioni che il Covid-19
sta facendo esplodere c’è anche quella di un sistema produttivo reso sempre più
fragile dalla ricerca del profitto e del consenso tra gli azionisti. La scelta
di tagliare stock e magazzini e di spingere verso una produzione sempre più
globalizzata ha reso la produzione contemporanea «inarrestabile», perché immersa
in reciproci legami di interdipendenza, ma anche ingestibile.
Per poter rallentare il motore, come dice Giuseppe Conte, è dunque
necessario rimettere in discussione non solo i settori essenziali, ma anche i
modelli di organizzazione della produzione e del lavoro, rendendoli non più
funzionali al profitto, quindi all’impresa, ma al bene collettivo. Invece di
rendere i lavoratori protagonisti di questa emergenza, impiegando le loro
competenze nel ridefinire nel più breve tempo possibile una produzione al
servizio della società, sono stati invece posti al margine dal governo
chiedendogli solo di accettare passivamente le loro condizioni,
«sacrificandosi» per il paese. Ma la romanticizzazione della quarantena è una
questione di classe: non ci sono angeli o eroi, ma lavoratori e lavoratrici e
come tali vanno rispettati, non sacrificati.
*Gianluca De Angelis, ricercatore sociale, è assegnista di ricerca presso
l’Università di Bologna. Marco Marrone, sociologo e attivista, è
assegnista in sociologia presso l’Università di Bologna. Gli autori ci tengono
a ringraziare Davide Dazzi di Ires Emilia-Romagna, i ricercatori della
Fondazione Di Vittorio e Matteo Gaddi e Nadia Garbellini della Fondazione
Sabattini per i preziosi studi che hanno ispirato questo articolo.
La fase due - Guido Viale
Il compito, la mission, del neonominato
“doctor Wolf” Vittorio Colao e del suo team quasi tutto composto da manager e
consulenti della grande industria è chiaro: accelerare il ritorno
alla “normalità produttiva”: quella che ci conduce, in allegra compagnia con
molti altri paesi, alla catastrofe climatica e ambientale prossima ventura. In
gran parte la sua sarà mera opera di copertura, perché più di metà delle
fabbriche ha già ripreso o non ha mai smesso di produrre. Ma per chi? E perché?
Per
fare fronte a ordini già in corso; o per non perdere le commesse future; o per
impedire che ce le porti via un altro; o per dimostrare che si è in grado di
rispondere a futuri nuovi ordini, rispondono gli imprenditori. Non importa se
si tratta di produzioni essenziali o no; se si vuole evitare una recessione, o
ridurne la gravità, tutte le fabbriche sono essenziali. Tutto deve
riprendere come prima, a costo di sacrificare salute e vita degli operai, delle
loro famiglie, dell’intera comunità. Prima gli italiani? No, prima la
produzione, il mercato, il profitto.
Ma
proprio le imprese e i settori oggi in prima fila nell’imporre che si lavori
costi quel che costi saranno anche, tra non molto, le prime a fare ricorso alla
cassa integrazione e a mandare a casa gli operai che oggi costringono a
lavorare.
Per
la produzione di armi – F35, sottomarini e cannoni – forse il problema non si
pone, perché i committenti sono lo Stato, che continuerà a indebitarsi per
pagarle, e altri governi, che
fino a che l’ultima goccia di petrolio sgorgherà dal sottosuolo ne useranno i
proventi per armarsi fino ai denti. Poi, forse, si dovrà ridimensionare anche
quel mercato di morte.
Ma chi
comprerà le auto del 2020 e del 2021, quando gran parte di quelle prodotte nel
2018 e nel 2019 sono ancora nei piazzali in attesa – a prezzi scontati – di un
compratore? E chi mai riuscirà a risollevare in pochi mesi o pochi anni un
mercato crollato dell’83%?
Certo,
con la fine dello lock-down ci sarà una corsa a riprendere in mano il volante:
è quello che invitano il sindaco di Milano e quelli come lui, perché sui mezzi
pubblici si viaggerà distanziati e loro non intendono potenziare il servizio e
organizzare uno scaglionamento degli orari di ingresso e di uscita da fabbriche
e scuole. Ma tra riprendere a guidare l’auto vecchia e comprarne una nuova il
salto è grande; e non alle viste.
E
dietro al mercato europeo dell’auto entrerà in crisi gran parte dell’industria
meccanica e della siderurgia, imponendo, tra l’altro, ai lavoratori e ai
cittadini (liberi e pensanti) di Taranto di trovare quello che in dieci e più anni Governo e sindacati
non hanno avuto il coraggio o la capacità di cercare: un’alternativa
occupazionale a un’impresa comprata – come tutti sanno – solo per chiuderla e
accaparrarsene il mercato.
E
la moda? Altro pilastro del cosiddetto “made in Italy”, opera per lo più del
lavoro di altri paesi. Molti
ci penseranno due volte prima di rinnovare il proprio guardaroba: se ne è
accorto anche Armani. E senza una “ricaduta” popolare, l’alta moda delle
sfilate rischia la fine di tutte le altre forme di turismo di lusso e dei
“Grandi eventi”: fiere, expò, grandi mostre, campionati, grandi gare,
olimpiadi. Il Giappone ne ha già avuto un assaggio.
De profundis, quindi, anche per l’aeronautica civile. E anche per le
crociere, rivelatesi veri focolai di contagio (e per la cantieristica italiana, in gran parte
votata a questo mercato). Ma anche per le vacanze esotiche: l’dea di ritrovarsi
in mezzo a un contagio, un incendio, un uragano, una guerra, una rivolta di
popolo, impossibilitati a tornare a casa, farà scegliere a molti mete più a
portata di mano (e non è detto che sia un male). Reggerà forse il turismo
religioso: c’è tanto bisogno di miracoli.
Il
problema maggiore riguarda però agricoltura e alimentazione e ha poco a che
fare con il coronavirus, ma molto con la crisi idrica, i cambiamenti climatici
e la mancanza di manodopera schiava (quella fornita dagli immigrati
“clandestini”, da sempre sfruttati, ma ora bloccati). Si rischia una vera e
propria crisi alimentare (con supermercati semivuoti; e sarà sempre più
difficile importare cibo dall’estero) che farà capire a tutti che times
are a-changing.
Insomma,
correre ai ripari non vuol dire massacrare lavoratori e comunità per riattivare
le vecchie produzioni, ma mettere in cantiere quelle nuove: impianti per le
rinnovabili e l’efficienza energetica, ristrutturazione del già costruito,
gestione accurata di risorse e rifiuti, mezzi di trasporto collettivi o
condivisi, agricoltura biologica e di prossimità, riassetto
idrogeologico dei territori e tutto ciò che è legato alla prevenzione: ce n’è
abbastanza per impiegare e riqualificare eserciti di disoccupati.
Gli
operai delle produzioni “non essenziali” sono i primi a sapere che il loro
posto è a rischio; per questo, quando possono, scioperano o si oppongono
all’inutile apertura delle loro fabbriche. E se non lo sanno, è
perché autorità (anche quelle che hanno dichiarato l’emergenza climatica e
ambientale) e sindacati non gli hanno mai detto la verità. Gliela hanno
nascosta per paura di dover cambiar tutto, a partire da loro stessi e dal loro
ruolo.
Ma se
non lo fanno loro lo devono fare movimenti come Fridays for
future ed Extinction Rebellion. Partendo da scuole e
università, oltre che dalle piazze, per coinvolgere di lì famiglie, quartieri,
istituzioni e sindacati. Senza mai rinunciare però all’azione diretta, e
all’appoggio – non solo per denunciare, ma anche per progettare – dei saperi di
scienziati ed esperti.
Ce ne
sono molti in giro, disoccupati o non valorizzati da chi li impiega, ma
desiderosi, se gliene si offre l’occasione, di mettersi al servizio di una vera
riconversione. Costruiamo insieme un futuro diverso.
https://comune-info.net/la-fase-due/
Business as usual - Alessandra Daniele
L’Italia va a puttane di default.
Anche quando non c’è nessuna particolare emergenza, l’Italia va comunque a puttane di suo.
I ponti crollano, i fiumi esondano, le mafie prosperano, le fabbriche esalano fumi cancerogeni e colano gli operai nell’acciaio fuso.
I politici istigano all’odio razziale o cantano Bella Ciao solo per rastrellare voti, e una volta eletti fanno esclusivamente gli interessi dei loro padroni, nazionali e internazionali.
E vanno a puttane.
In Italia milioni di persone sono costrette all’eroismo quotidiano per sopravvivere a un sistema socio-economico che mette la vita umana all’ultimo posto della sua lista – dopo “varie ed eventuali” – e da una classe dirigente di scarafaggi stercorari che ad ogni emergenza s’arrampica sul tricolore, e fa appello all’orgoglio e alla coesione nazionale.
“Siamo tutti sulla stessa barca”.
Cazzate.
C’è chi ha ricevuto il tampone per la diagnosi del Covid-19 al primo sternuto, e chi è morto soffocato dopo settimane di abbandono in un ospizio-lager.
C’è chi fa la lagna via Skype perché gli manca la movida, e chi ogni mattina è costretto a rischiare il contagio per andare a produrre o cercare di vendere carabattole che adesso non ci servono, e che forse non ci serviranno mai.
Gli italiani sognano di tornare alla normalità, ma non dovrebbero.
La normalità fa schifo.
La normalità sono le fabbriche cancerogene, le formiche negli ospedali, i cravattari delle banche e dell’Unione Europea, il precariato a vita, i manganelli dei Decreti Sicurezza, i tagli sanguinosi a Sanità e Ricerca.
La normalità è quello che ha prodotto questa emergenza come tutte le altre, e che cercherà di sfruttarla a suo uso e consumo. Nella Fase 2 si potrà tornare a circolare, ma solo nei binari, come tram: divieto di qualsiasi assembramento non finalizzato alla produzione di beni e servizi.
Una vita da droni.
“Ci salveremo tutti insieme”.
Cazzate.
Con questa classe dirigente di parassiti sulla schiena non ci salveremo mai.
Se non di Covid-19, moriremo di Covid-21, di cancro, di acciaio fuso.
Ci beccheremo una fucilata accidentale dal vigilante davanti al discount.
“Andrà tutto bene”.
Cazzate.
Se continueremo ad accontentarci della normalità, andrà tutto a puttane.
Anche quando non c’è nessuna particolare emergenza, l’Italia va comunque a puttane di suo.
I ponti crollano, i fiumi esondano, le mafie prosperano, le fabbriche esalano fumi cancerogeni e colano gli operai nell’acciaio fuso.
I politici istigano all’odio razziale o cantano Bella Ciao solo per rastrellare voti, e una volta eletti fanno esclusivamente gli interessi dei loro padroni, nazionali e internazionali.
E vanno a puttane.
In Italia milioni di persone sono costrette all’eroismo quotidiano per sopravvivere a un sistema socio-economico che mette la vita umana all’ultimo posto della sua lista – dopo “varie ed eventuali” – e da una classe dirigente di scarafaggi stercorari che ad ogni emergenza s’arrampica sul tricolore, e fa appello all’orgoglio e alla coesione nazionale.
“Siamo tutti sulla stessa barca”.
Cazzate.
C’è chi ha ricevuto il tampone per la diagnosi del Covid-19 al primo sternuto, e chi è morto soffocato dopo settimane di abbandono in un ospizio-lager.
C’è chi fa la lagna via Skype perché gli manca la movida, e chi ogni mattina è costretto a rischiare il contagio per andare a produrre o cercare di vendere carabattole che adesso non ci servono, e che forse non ci serviranno mai.
Gli italiani sognano di tornare alla normalità, ma non dovrebbero.
La normalità fa schifo.
La normalità sono le fabbriche cancerogene, le formiche negli ospedali, i cravattari delle banche e dell’Unione Europea, il precariato a vita, i manganelli dei Decreti Sicurezza, i tagli sanguinosi a Sanità e Ricerca.
La normalità è quello che ha prodotto questa emergenza come tutte le altre, e che cercherà di sfruttarla a suo uso e consumo. Nella Fase 2 si potrà tornare a circolare, ma solo nei binari, come tram: divieto di qualsiasi assembramento non finalizzato alla produzione di beni e servizi.
Una vita da droni.
“Ci salveremo tutti insieme”.
Cazzate.
Con questa classe dirigente di parassiti sulla schiena non ci salveremo mai.
Se non di Covid-19, moriremo di Covid-21, di cancro, di acciaio fuso.
Ci beccheremo una fucilata accidentale dal vigilante davanti al discount.
“Andrà tutto bene”.
Cazzate.
Se continueremo ad accontentarci della normalità, andrà tutto a puttane.
I disumanizzati della working class – recensione di Girolamo De Michele
Recensione di “Chav. Solidarietà coatta”, di D. Hunter, a cura e traduzione di Alberto Prunetti, per Alegre
I primi venticinque anni di Hunter sono dipesi dall’economia informale del capitalismo, un’economia sommersa che agisce dietro la facciata del libero mercato capitalista. Per lui questo ha implicato essere sex worker, ladro e spacciatore. Negli ultimi quattordici anni Hunter è stato un organizzatore attivo della comunità anti-capitalista, e ora ha scritto un libro sulle sue esperienze di vita»: questa, su Plan C, è la scheda biografica di D. Hunter, autore di Chav Solidarity, tradotto col titolo Chav. Solidarietà coatta da Alberto Prunetti all’interno della collana Working Class che cura per Alegre (pp. 160, euro 15).
La parola chav «è un modo semplice per disumanizzare un vasto gruppo di persone»: i chav, i coatti, sono i marginalizzati e demonizzati dalle politiche neoliberiste dei governi britannici degli ultimi 40 anni. Liquidati come «coglioni bestiali o feccia da sussidio di disoccupazione» dai bravi cittadini liberali, sono il prodotto dell’atomizzazione della working class. Per Hunter, sono persone che si prendono cura a vicenda, fiere e allo stesso tempo tenere, sfruttate e ignorate. Non hanno problemi a reagire per proteggere la propria gente: quando lo fanno, nella difesa delle strade come nei riots del 2011, sono liquidati come teppisti, e alla stessa working class è chiesto di voltare loro le spalle. Sono attraversati dalle segmentazioni sociali, collocati al di sotto di quella classe lavoratrice che, stratificata in maniera da rendere quasi impossibile ogni trasformazione rivoluzionaria, vive delle briciole di chi sta in alto, senza avere coscienza del fatto che «se loro mangiano le briciole, chi sta ancora più in basso resta a stomaco vuoto».
La parola chav «è un modo semplice per disumanizzare un vasto gruppo di persone»: i chav, i coatti, sono i marginalizzati e demonizzati dalle politiche neoliberiste dei governi britannici degli ultimi 40 anni. Liquidati come «coglioni bestiali o feccia da sussidio di disoccupazione» dai bravi cittadini liberali, sono il prodotto dell’atomizzazione della working class. Per Hunter, sono persone che si prendono cura a vicenda, fiere e allo stesso tempo tenere, sfruttate e ignorate. Non hanno problemi a reagire per proteggere la propria gente: quando lo fanno, nella difesa delle strade come nei riots del 2011, sono liquidati come teppisti, e alla stessa working class è chiesto di voltare loro le spalle. Sono attraversati dalle segmentazioni sociali, collocati al di sotto di quella classe lavoratrice che, stratificata in maniera da rendere quasi impossibile ogni trasformazione rivoluzionaria, vive delle briciole di chi sta in alto, senza avere coscienza del fatto che «se loro mangiano le briciole, chi sta ancora più in basso resta a stomaco vuoto».
BRICIOLE CHE VENGONO rivendicate con una solidarietà negativa mascherata da etica del lavoro – sono guadagnate in quaranta ore di fatica settimanale, dunque bisogna darsi da fare per conservarle: «fin quando quelli di noi che vengono premiati con le briciole per fare quaranta ore di lavoro alla settimana pensano che ci meritiamo quelle briciole, e che ognuno deve pensare da solo a sopravvivere, allora siamo fottuti».
Hunter parla dei sobborghi londinesi – ma potrebbe essere la banlieue parigina piuttosto che Tor Pignattara o qualunque altra periferia nelle quali le sinistre, i «movimenti dai denti finti» non mettono piede. Parla di quello che viene derubricato, cancellando il legame fra le relazioni interpersonali «degradate» e le strutture e forme del capitale, come degrado sociale: il prodotto di una società classista che ha bisogno di disumanizzare le persone per rendere sopportabile le diseguaglianze. «Troviamo ogni tipo di motivazione per considerare gli altri un po’ meno umani di noi, e diventa più semplice e più devastante se le vittime sono persone meno forti da un punto di vista economico, sociale e culturale»: perché our bodies are classed, i nostri corpi sono intrisi di connotazioni di classe, e i corpi delle persone senza capitale valgono meno.
Hunter parla dei sobborghi londinesi – ma potrebbe essere la banlieue parigina piuttosto che Tor Pignattara o qualunque altra periferia nelle quali le sinistre, i «movimenti dai denti finti» non mettono piede. Parla di quello che viene derubricato, cancellando il legame fra le relazioni interpersonali «degradate» e le strutture e forme del capitale, come degrado sociale: il prodotto di una società classista che ha bisogno di disumanizzare le persone per rendere sopportabile le diseguaglianze. «Troviamo ogni tipo di motivazione per considerare gli altri un po’ meno umani di noi, e diventa più semplice e più devastante se le vittime sono persone meno forti da un punto di vista economico, sociale e culturale»: perché our bodies are classed, i nostri corpi sono intrisi di connotazioni di classe, e i corpi delle persone senza capitale valgono meno.
QUESTI CORPI «DEGRADATI» sono tutt’altro che nuda vita – posto che ne esista, al di fuori delle elucubrazioni che tanto piacciono all’invisibile anarchismo piccolo-borghese: sono corpi che conoscono relazioni o conflittualità quotidiane che sono sempre collegate alle nostre storie individuali e alle storie che condividiamo con gli altri, dunque sempre politiche. Esprimono un senso dell’essere in comune che precede la politicizzazione – la lettura di Marx nei libri di famiglia, si sarebbe detto un tempo – e si manifesta in un istintivo rifiuto dell’obbedienza, perché la vita delle persone obbedienti è la vita di chi continua ad arrabbiarsi, a perdere la casa, ad andare in prigione, a morire per strada.
Hunter ha attraversato questa condizione intrisa di violenza, e ne è stato attraversato, sin dalla sua infanzia. La narra senza compiacimento morboso, ma anche alcun moralismo. Anche se adesso ha l’aspetto di un bibliotecario, è ancora un coatto; non si aspetta di uscirne del tutto, gli basta non sanguinare più: «adesso ho deciso come vivere, come contribuire alla liberazione delle comunità da cui provengo, come difenderle, come sostenere chi non ha potuto godere dei benefici del capitale come ho potuto in certo qual modo fare io».
Hunter ha attraversato questa condizione intrisa di violenza, e ne è stato attraversato, sin dalla sua infanzia. La narra senza compiacimento morboso, ma anche alcun moralismo. Anche se adesso ha l’aspetto di un bibliotecario, è ancora un coatto; non si aspetta di uscirne del tutto, gli basta non sanguinare più: «adesso ho deciso come vivere, come contribuire alla liberazione delle comunità da cui provengo, come difenderle, come sostenere chi non ha potuto godere dei benefici del capitale come ho potuto in certo qual modo fare io».
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