Io ne ho viste cose che solo voi insegnanti potreste
immaginarvi: webinar da remoto naufragare
al largo di connessioni lente, conference call balenare
nel buio vicino alle porte dell’Auser, smartphone diventare
oggetti ipnotici soprattutto per i bambini al ristorante, flipped classroom dimenticare chi ha bisogni
speciali, LIM infangare la scuola di un
LIMo appiccicoso, bricks lab costruire un muro
anziché un ponte e ho visto praticare e-learning, cioè
il tele-apprendimento, da chi “te le” racconta e poi “te le” vuole vendere.
E tutti questi strumenti venir chiamati pomposamente: insegnamento a distanza.
È tempo di inti-morire.
Nel Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri
del 4 marzo scorso che contiene le norme per affrontare l’emergenza causata dal
virus chiamato “corona”, fra le altre cose per quanto riguarda la scuola, c’è
scritto: “I dirigenti scolastici attivano, per tutta la durata della
sospensione delle attività didattiche nelle scuole, modalità di didattica a
distanza avuto anche riguardo alle specifiche esigenze degli studenti con
disabilità“.E tutti questi strumenti venir chiamati pomposamente: insegnamento a distanza.
È tempo di inti-morire.
A questo proposito, offro un mio pensiero banale, semplice e addirittura superfluo: attivare le “modalità di didattica a distanza” NON VUOL DIRE “insegnare”.
Lo scrivo, nonostante la consideri una precisazione non essenziale, perché sento che si sta generando una grossa ambiguità a questo proposito e non sono poche le persone che incorrono in questo equivoco.
Ma se può essere normale che persone al di fuori della scuola si confondano, è preoccupante se ciò succede all’interno della scuola.
Chi pensa che si possa insegnare a distanza forse pensa che il ruolo dei docenti sia quello di “travasare” informazioni, indicazioni ed istruzioni; pertanto considera gli studenti come “fiaschi vuoti” da riempire.
Chi pensa questo, crede che l’operazione di “imbottigliamento”, essendo un procedimento meccanico, possa essere fatta da chiunque e probabilmente pensa anche che, se si userà un “imbuto” tecnologico, il materiale versato riempirà meglio il contenitore.
Chi pensa così, forse, non è interessato al “come” si impara ad imparare e ad essere, ma al “cosa” si mette dentro per riempire.
Chi la pensa in questo modo può anche immaginare che i docenti non servano e che la scuola possa aver senso anche senza di loro; di conseguenza può giustificare la loro sostituzione con qualcuno o qualcosa che, usando strumentazioni tecnologiche, sappia adottare modalità di didattica a distanza.
Gli insegnanti possono, ed in questo momento di emergenza devono, attivare le “MODALITÀ DI DIDATTICA A DISTANZA” ma ciò vuol dire prima di tutto preoccuparsi se la modalità immaginata sia alla portata di tutti: ad esempio, la comunicazione può avvenire per posta elettronica? Gli studenti hanno un loro indirizzo mail? Saranno tutti in grado di visionare un filmato? E di scaricare un file di grandi dimensioni?
Tradotto in pratica, fare didattica a distanza vuol dire chiedere ai bambini, alle bambine, ai ragazzi e alle ragazze di eseguire esercizi, di scrivere testi, di leggere, di ripassare, di visionare filmati, di ascoltare registrazioni, di assistere a presentazioni multimediali o qualsiasi altra attività che li aiuti a consolidare apprendimenti e a produrre materiale didattico in modo collaborativo, inclusivo, interessante e coinvolgente.
È importante sapere che, facendo ciò, si sta adottando una modalità didattica sicuramente utile in questa situazione ma INSEGNARE è un’altra cosa; nel senso ampio del termine, non vuol dire “mettere dentro” ma “portare fuori” (è la traduzione latina del verbo “educare”) e questa operazione lenta, delicata e complessa è fatta di relazioni educative e non solo di relazioni scritte, di interrogativi e non solo di interrogazioni, di domande e non solo di test a risposta multipla, di problemi di convivenza e non solo di problemi di matematica, di verifiche sul campo e non solo di prove di verifica, di azioni e non solo di spiegazioni, di volti e non solo di voti, di intese e non solo di protocolli d’intesa, di progetti di vita e non solo di progetti integrativi, di programmi per il futuro e non solo di Programmi Operativi Nazionali.
Nell’insegnamento la componente relazionale è indispensabile, come pure è fondamentale che sia caratterizzata da una presenza fatta di sorrisi incoraggianti, di sguardi accoglienti, di ascolto attivo, di toni convincenti, di battute sdrammatizzanti, di posture rassicuranti, di atteggiamenti coerenti.
A volte, la convinzione di essere insegnanti all’avanguardia perché si usano strumenti tecnologicamente avanzati porta ad essere abbagliati e a confondere l’attivazione della didattica a distanza con il processo di insegnamento.
Io credo che, in questa strana situazione di chiusura delle scuole, sia importante aver chiara questa distinzione sia per non deludere certe aspettative degli studenti e delle famiglie che per mantenere aperto un canale di comunicazione efficace.
In un momento simile, io penso che il primo aspetto da curare con molta attenzione debba essere la comunicazione, sia verso le famiglie che verso gli alunni; non solo per cercare di far sentire la propria vicinanza ma per condividere un momento difficile tenendosi stretti, per tentare di sentirsi comunità anche in queste occasioni.
Si può comunicare con gli studenti per spiegare cosa sta succedendo, per dare un nome alle emozioni che si provano, per raccontare e raccontarsi, per suggerire attività, per immaginare ed organizzare il rientro ma, ancor prima, per proporre modalità di comunicazione adatte al contesto e alla portata di tutti.
Si può scrivere alle famiglie per spiegare ciò che gli insegnanti sono in grado di fare in questa situazione ed il tipo di aiuto da casa di cui avrebbero bisogno.
Un altro elemento importante da valutare, da parte degli insegnanti, è l’illusione di poter normalizzare una situazione che normale non è.
In questa circostanza del tutto imprevista, concordo con il sociologo Edgard Morin quando scrive che ci sarebbe bisogno di: “Imparare a navigare in un oceano di incertezze fra alcuni arcipelaghi di certezze“.
Nel mio piccolo, fra le molte incertezze di questo periodo, io individuo queste dieci certezze:
1) la scuola può esistere solo se ci sono gli alunni, gli insegnanti e il personale;
2) la scuola è una parte importante della nostra vita;
3) la scuola, in questo momento, manca a tutti;
4) tutti abbiamo bisogno gli uni degli altri;
5) insieme si impara meglio;
6) il confronto arricchisce chi lo pratica;
7) il valore della diversità può nascere solo dal confronto;
8) le modalità di didattica a distanza sono più efficaci se sono coinvolgenti;
9) si può imparare anche confrontandosi con l’emergenza;
10) l’emergenza si può affrontare e superare insieme, tenendosi stretti.
Cari colleghi, cari studenti, cari genitori, pur non essendo marinai, ora sta a noi scegliere come navigare: è normale essere spaventati da questo oceano di incertezze però sappiamo anche quali sono e dove sono i nostri arcipelaghi di certezze (che, ovviamente, potranno essere diversi dai miei) e soprattutto, conoscendo la differenza fra insegnamento e modalità di didattica a distanza, possiamo sfruttare le seconde cercando di non dimenticare l’energia relazionale determinante che, anche in una situazione come questa e con i limiti del caso, potrà accompagnarle per far sentire ciascuno ancora parte di una piccola comunità.
Non siamo esperti navigatori ma, in attesa che questo momento passi e che le scuole riaprano, dobbiamo scegliere su quale imbarcazione salire.
Possiamo contare su un’ulteriore certezza: l’energia creativa, le idee, le proposte di tutti i nostri compagni di viaggio, indipendentemente da quale età essi abbiano, sono determinanti per rafforzarci a vicenda senza lasciare indietro nessuno.
Concludendo la metafora marinara, allo stesso modo di padre e figlio nel film Blow, io dico: «Che tu possa avere sempre il vento in poppa, che il sole ti risplenda in viso e che il vento del destino ti porti in alto a danzare con le stelle».
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