È arrivato
un virus in tutto il mondo. Qui in Italia vedo appelli, decreti, interventi. La
maggior parte dei quali volti a valutare, richiedere, concedere o negare
qualche indennizzo.
I soldi,
certo, l’unico apparente motore contemporaneo dell’umana attività.
E leggo una
cosa strana, che l’amico Michele Di Mauro mi ha fatto notare: si parla di
“eventi”, di “adunanze”, di “luoghi di assembramento”, di “locali”, si parla
persino di “mondo dello spettacolo”, di “operatori nell’ambito culturale”, di
“concerti”, di “pubbliche rappresentazioni”, di “lavoratori del mondo dello
spettacolo”.
È sparita la
parola “Teatro”. Anche se i teatri, con le scuole e le biblioteche, sono stati
i primi ad essere chiusi.
Ma non credo
si tratti solo di lessico. E non faccio questo discorso solamente perché il
mondo dello spettacolo, come tutti i “mondi”, a me mi fa cagare. È il fatto che
una gran parte degli intellettuali, dei critici, di chi scrive di spettacoli,
si ostina a vedere il teatro come un aspetto fondamentale della cultura
sociale, inducendo allo stesso errore chi il teatro lo fa: attori, cantanti,
suonatori, danzatori, coreografi, musicisti, pubblico teatrale, registi,
artisti delle scene, della tecnica.
Non è così:
il teatro è un aspetto marginale del pensiero sociale contemporaneo e c’è di
peggio: il teatro si rivolge oggi a un pubblico borghese, ha un pensiero
borghese e, anche quando pensa di portare un sommovimento di pensiero, magari
rivoluzionario, è sempre col suo pubblico borghese che deve fare i conti.
Quando lo
Stabile del Veneto stava proponendo la mia prima Cativìssima, sapendo che
venivo da forme di teatro “povere”, da alcuni teatri di varie regioni, si
chiedeva se fossero grandi e ben visibili le scenografie, per capire se l’opera
fosse degna di un teatro assistito; non importa chi sono gli attori, secondo
costoro il pubblico vuole la scenografia. Da molti teatri poi, si chiedeva
conto del linguaggio usato, certamente per via dell’avanzata età degli
abbonati. Basta dare una scorsa ai cartelloni teatrali per capire che, non solo
è secondaria la drammaturgia contemporanea, ma anche che i nuovi drammaturghi
devono usare vecchi titoli se vogliono essere prodotti dai grossi teatri. E
anche quando si fa ciò, come fece Vacis proponendo una versione ritradotta di
Romeo e Giulietta, il pubblico si lamenta delle parolacce. Questo pubblico,
diciamolo pure, addormentato, nemmeno sa che in Shakespeare ci sono anche le
bestemmie, ma che un sovrapensiero cattolico le ha eliminate dalle traduzioni
borghesi.
Sento sempre
più spesso usare la parola “operazione” invece di “spettacolo”.
Dal lessico
della gestione teatrale, delle strutture produttive, delle realtà distributive,
dell’organizzazione sindacale degli “operatori”, è sparita la parola “teatro”;
figuriamoci da quello dei giovani che non stanno dentro al teatro. E devo dire
che, ormai, mi fanno un po’ pena i critici, i cui lettori sono ormai solo
quelli di cui scrivono.
Dalla più
parte della popolazione il teatro è percepito come qualcosa di polveroso, di
noioso, come qualcosa che incrementa l’horror vacui dell’odierna società. Si
era svecchiato, ma oggi che, come direbbe Gaber, Attila è consigliere
regionale, anche gli Unni sono un po’ fuori forma.
Un po’ sarà
anche colpa nostra, non dico di no, ma il pensiero burocratico ha bisogno che
l’arte non sia artistica, ha bisogno di burocrazia del pensiero. Oggi i soldi
che lo Stato elargisce allo “spettacolo” (che vanno in grossa parte alle
produzioni di lirica) sono gestiti da strutture che hanno preso il posto degli
artisti o, comunque, delle compagnie; queste strutture, questi burocrati, sono
quelli che vengono interpellati quando c’è da fare un decreto o una legge che
riguardi gli spettacoli, che però loro non chiamano “spettacoli” ma “operazioni”
o al massimo “eventi”. Sono i teatri che decidono chi entra o esce dal teatro,
perciò le Strutture sono case ambìte e i loro direttori sono temuti. Queste
strutture hanno in mano un sacco di soldi e sono convinte di possederli e, per
questo motivo, che chi lavora sul palco sia un loro dipendente provvisorio.
Non è così,
il pubblico va a teatro a vedere gli autori, gli attori e gli artisi, non i
direttori; lo stato dà i soldi alle produzioni artistiche, non agli
“operatori”; amministrare un fondo non significa esserne proprietari.
Dovrebbero essere gli artisti i datori di lavoro dei direttori, un direttore
dovrebbe dipendere dai suoi artisti, non dal politico che li sostiene.
È successo
che c’è un bambino che fa miracoli, questo bambino è dentro una grotta, lo
stato ha deciso di impadronirsi del miracolo e ha messo un usciere davanti alla
grotta. Adesso, l’usciere della grotta riceve i fondi per organizzare il popolo
adorante. A questo punto l’usciere della grotta ha deciso che la grotta è sua,
che il foraggio per il bue e l’asinello lo gestisce lui, che i genitori fanno i
turni e il bambino si può vedere quando lo dice lui. I pastorelli, fuori, non
sanno niente, continuano ad adorare qualcosa, ma non sanno più cosa e, a dirla
tutta, sentono che stanno invecchiando.
Nessun commento:
Posta un commento