lunedì 20 aprile 2020

ricordo di Luis Sepúlveda


Luis è morto. In ricordo di Sepúlveda - Pierluigi Pedretti

Forse la prenderò alla lontana, ma lo farò per sottolineare due aspetti di Sepúlveda. Il primo riguarda il suo carattere di uomo amichevole e solidale, intellettuale a tutto tondo. Il secondo di scrittore impegnato a denunciare la sofferenza del mondo attraverso un suo testo “minore”, ma, credo, significativo per capire questo grande cileno.
Queste narrazioni sono epiche perché riguardano imprese storiche o mitiche, eroiche o comunque avventurose: guerre, anabasi, viaggi iniziatici, lotte per la sopravvivenza, sempre all’interno di conflitti più vasti che decidono le sorti di classi, popoli, nazioni o addirittura dell’intera umanità, sugli sfondi di crisi storiche, catastrofi, formazioni sociali al collasso.” Roberto Bui, alias Wu Ming 1, teorizzava con queste parole, ere fa, la “New Italian Epic”, che avrebbe accomunato in quel periodo (anni 90’-2000) diversi nostri scrittori. Il dibattito successivo non era stato esente da toni aspri, soprattutto contro Tiziano Scarpa, che ironicamente aveva sottolineato la falsa novità della “neoepica italiana”, sostenendo che non erano per nulla mancati negli anni precedenti autori che avevano scritto “romanzi storici” per aiutarci a capire l’Italia e il mondo. Faceva bene il vincitore dello Strega 2009 a rimbrottare la presunzione di Wu Ming. Bastava guardare oltre il giardino di casa e la questione assumeva un altro aspetto. In America Latina, ad esempio, le terribili condizioni di vita e una tradizione letteraria consolidata avevano da tempo aperto la strada a una nuova generazione di narratori, prima amici che colleghi – Taibo II, Giardinelli, Fonseca, Padura Fuentes, Gamboa, Chavarrìa – che nelle loro opere narrative utilizzavano la storia e l’immaginario come strumenti riflessivi e avvincenti. Che bella combriccola di narratori, che bravi gli amici di Sepúlveda (perché tali erano in molti). Lo scrittore cileno ci aiutò a conoscerli in quegli ormai lontani anni di fine millennio curando una collana per Guanda, La frontiera scomparsa. Fra i primi titoli ad essere pubblicati vi era un romanzo dal significativo titolo di Lettera dalla fine del mondo di Josè Manuel Fajardo. Era in pratica una lunga lettera che Domingo Perez, uno dei marinai “abbandonati” dall’Ammiraglio Colombo nella nuova terra da poco scoperta, destinava al fratello a testimonianza delle loro sventure. Partendo da un fatto storico – Colombo costretto a lasciare un avamposto di trentanove uomini sull’isola di Hispaniola – l’autore (ri)costruiva la vicenda del primo tragico incontro tra due mondi diversi. La drammatica “testimonianza” era soprattutto una metafora della condizione umana, fatta di solitudine, oppressione e – come scriveva Sepúlveda nella prefazione – “di scoramento e speranza, di azione e riflessione, al pari dei grandi libri d’avventura che ci hanno iniziati al piacere della lettura.” Insomma, il mai troppo compianto Luis ci indirizzava verso una strada forse meno raffinata rispetto ai soliti nomi latino-americani che circolavano da noi (Borges, Cortazar, Marquez, Amado, ecc) ma sicuramente feconda per la scoperta di nuovi scrittori o la riscoperta di più vecchi, ad esempio i connazionali Roberto Bolaño e Francisco Coloane, che con le loro narrazioni aiutavano a capire e capirci.
In un Sepúlveda “minore”, meno narrativo, ma non meno coinvolgente, possiamo rintracciare la genesi del suo lavoro. Riguarda Cronache dal cono sud (Guanda 2007). Dall’11 settembre 1973 per quasi diciotto anni Pinochet fu il padrone assoluto del Cile. Nel 1988 un referendum sancì la fine della dittatura ma non del suo potere. Lasciato ufficialmente il suo ruolo di capo di stato nel 1990, rimase però alla testa delle forze armate per altri otto anni. Intoccabile sempre e comunque. Michelle, la figlia di un altro militare, il generale Alberto Bachelet – rimasto fedele alla Costituzione e per questo ucciso – divenne anni dopo presidente del paese andino. Altra storia e personalità rispetto a quelle dei suoi predecessori, che non se la sentirono mai di perseguire il dittatore assassino José Augusto Ramón Pinochet Ugarte. Il generale golpista morì il 10 dicembre 2006: “senza pena né gloria , così come ha vissuto i suoi novantuno anni di miserabile vigliacco, a cui si riconoscevano solo tre talenti: tradire, mentire e rubare.” Tradì la Costituzione e il suo vero Presidente, che lo aveva voluto a capo dell’esercito, e il popolo cileno. Salvador Allende fu ucciso insieme a migliaia di cittadini inermi, che ne condivisero il destino dopo settimane di prigione, di tortura e, spesso, di stupri. Mentì dicendo che combatteva per salvare il Cile dal comunismo in nome della “libertà”. Invece fu una marionetta degli Stati Uniti e del suo segretario di stato Henry Kissinger, dominando sul Cile con migliaia di delatori assassini. Rubò con la sua cricca di familiari e militari, ladri e assassini. “(Pinochet) dava ordine di assassinare qualcuno, solitamente di sinistra, che avesse un grande appezzamento di terreno considerato edificabile. Il terreno passava per qualche giorno allo Stato cileno, ma poi veniva donato al CEMA, l’ente di sviluppo diretto da Lucia Hiriart in Pinochet. Più ladra di una gazza, questa ordinava agli architetti dell’esercito, pagati da tutti i cileni, di disegnare un progetto per cento e più alloggi, che venivano costruiti da battaglioni di soldati. (…) pagava tutto lo stato. Poi lei vendeva le case e il denaro scompariva nei suoi conti correnti di Miami, Gibilterra, Svizzera.” E la libera concorrenza? Non doveva dare il Gran Capo anche agli altri la possibilità di “arricchirsi” secondo quella libertà in economia (l’esperimento cileno dei Chicago boys, i seguaci di Milton Friedman) tanto decantata in quegli anni anche da fini intellettuali come Mario Vargas Llosa? Era severo Luis Sepúlveda, anzi rabbioso. Brutalmente irridente e amaro in queste preziose pagine, che esprimono il suo personale dolore. Le sue cronicas – scritte fra il 2005 e il 2006, alcune inedite, altre pubblicate su il manifesto e su Repubblica – sono utili ancora oggi per non dimenticare ciò che avvenne in America Latina e nel mondo a causa di quelle politiche neoliberiste, di cui oggi, con il virus, cogliamo meglio le contraddizioni. Non si risparmiava Sepúlveda. Attaccava frontalmente la pavidità dell’Occidente, che aveva chiuso gli occhi di fronte alla tragedia cilena, così come ha continuato a farlo sulle politiche ambientali e dei diritti civili e sociali. Criticava la sinistra moderata, divenuta troppo accondiscendente con la globalizzazione liberista. Non poteva che essere sarcastico anche con i leader di allora – i vari Blair, Schroeder, ma anche con gli italiani e gli spagnoli – che avevano snaturato le ragioni d’essere del socialismo. Non voleva che si dimenticasse che dietro quelle politiche sciagurate c’erano i nomi di uomini, donne, bambini, che avevano sofferto, che erano morti. Come Ricardo e Luis, due ragazzi scomparsi il 5 ottobre 1973 dopo essere stati fermati a coprifuoco inoltrato. “Trent’anni dopo si è saputo che quella pattuglia militare li portò in un magazzino di materiali edili, li sottopose ad ogni genere di tortura e alla fine li ammazzò a colpi di arma da fuoco.” La versione ufficiale delle autorità? Avevano tentato di assaltare una caserma laggiù nel profondo sud del Cile. Due ragazzini contro duemila soldati.


Luis Sepúlveda, delicato come un gatto, veloce come una gabbianella, volato via - Doriana Goracci

 “Nacque in una camera d’albergo mentre i suoi genitori fuggivano a seguito di una denuncia – sempre per motivi politici – contro suo padre fatta dal ricco nonno materno.
Gerardo Sepúlveda Tapia (conosciuto anche con il nome di battaglia “Ricardo Blanco”), nonno di Luis Sepúlveda, era un anarchico andaluso che fuggì in America del Sud per evitare una condanna a morte che pendeva su di lui”.
Molti giovani forse non sanno che “a seguito del colpo di Stato militare di Pinochet, Luis Sepúlveda, che si trovava nel palazzo presidenziale (dove morì Allende), venne arrestato e torturato. Passò sette mesi in una cella minuscola in cui era impossibile stare anche solo sdraiati o in piedi. Grazie alle forti pressioni di Amnesty International venne scarcerato e ricominciò a fare teatro ispirato alle sue convinzioni politiche. Questo gli costò un secondo arresto: data la notorietà del personaggio, la giunta militare, che in quegli anni fu responsabile del dramma dei desaparecidos cileni, lo processò ufficialmente ed egli ebbe una condanna all’ergastolo che poi, sempre su pressione di Amnesty International, fu commutata nella pena di otto anni d’esilio. In tutto passò due anni e mezzo in carcere….e dopo tante traversie …nel 1982 venne in contatto con l’organizzazione ecologista Greenpeace e lavorò fino al 1987 come membro di equipaggio su una delle loro navi; successivamente agì come coordinatore tra i vari settori dell’organizzazione”.
Sì, nel febbraio 2020 è stato contagiato dal COVID-19, dopo viene ricoverato al Central University Hospital of Asturias di Oviedo, da dove è volato via questo 16 aprile. Era stata trovata positiva anche la moglie, Carmen Yáñez, poetessa così amata che Sepulveda se la sposò due volte ma lei pian piano sembrava essersi rimessa meglio di lui.
Ripeto quanto scrissi l’11 marzo sulla mia pagina FB “Viaggiando in lungo e in largo per il mondo ho incontrato magnifici sognatori, uomini e donne che credono con testardaggine nei sogni. Li mantengono, li coltivano, li condividono, li moltiplicano. Io umilmente, a modo mio, ho fatto lo stesso.”
Felice chi l’ha incontrato, conosciuto, letto, felici i gatti e le gabbianelle, il mondo animale e degli umani ribelli. Credo che è quanto di più bello noi potessimo ereditare.

ripreso da agoravox.it


IL COMPAGNO EVARISTO E GLI ALTRI - Luis Sepúlveda

Quando a Lima erano le 15,30 del 22 aprile, meno di un giorno fa, ero all’aeroporto di Monaco di Baviera e ha suonato il mio cellulare. Era Nestor Cerpa Cartolini, ovvero il comandante Evaristo, che mi chiamava. Qualcuno, un giornalista tedesco forse, gli aveva dato il mio numero e gli aveva fatto sapere che ero disponibile a fare parte di uno scudo umano per interposizione fra i sequestratori dell’Mrta, che da 126 giorni occupavano la residenza dell’ambasciatore giapponese a Lima, e la follia di Fujimori, un discendente di giapponesi che, per quanto ci costi riconoscerlo, rappresenta la peggior spazzatura giunta su un continente che ha sempre accolto bene gli emigranti.
I guerriglieri dell’Mrta, Movimiento revolucionario Tupac Amaru – i Tupamaros nel gergo militante – si sono lanciati all’occupazione della residenza diplomatica giapponese per ottenere la liberazione di quattrocento uomini e donne che morivano e muoiono lentamente nelle peggiori galere del continente.
È poco quello che la cosiddetta opinione pubblica internazionale sa del Perù. Sa, per esempio, che quel Paese andino fu sconvolto da un’ondata irrazionale di ,violenza pseudo-izquierdista guidata da Sendero luminoso, un gruppo politico che ha saputo manipolare con abilità il sentimento di frustrazione degli indios peruviani e li ha spinti a una pratica di eliminazione dei loro oppositori da far invidia ai Khmer Rossi di Pol Pot in Cambogia E molto meno si sa dell’Mrta che, erede dell’antica tradizione di lotta dei comuneros indigeni, ha tentato di umanizzare la guerra contro lo sfruttamento secolare dei popoli andini. L’Mrta è un movimento politico tipicamente latinoamericano che, a torto o a ragione, ha continuato il cammino cominciato da Guillermo Lobatón, Héctor Bejar o dal mio fratello, il giovane poeta Javier Heraud, tutti caduti nella lotta guerrigliera degli anni settanta.
Fin dalle sue prime azioni l’Mrta ha cercato di agire per poter negoziare con l’unico linguaggio che l’oligarchia peruviana rispetta, ossia da una posizione di forza.
Un indio peruviano non esiste come persona, è appena un numero, un elemento per le statistiche, ed è proprio in Paesi come il Perù dove la borghesia crea le condizioni violente per rispondere con violenza alla violenza dello Stato al servizio di pochi, molto pochi.
Durante i 126 giorni di occupazione della residenza dell’ambasciatore giapponese a Lima non è stato commesso alcun tipo di violenza contro gli ostaggi. È legittimo pensare che la privazione della libertà sia già una sufficiente violenza, però, attenzione, stiamo parlando del Perù, di un Paese governato da un megalomane che ha cercato di autolegittimarsi con un abile colpo di Stato e la benedizione del Fondo Monetario Internazionale. Gli ostaggi sono stati trattati con la cortesia stipulata nei trattati internazionali sui prigionieri di guerra. Qualcosa di molto diverso succedeva, succede e succederà nelle carceri di Fujimori.
I militari peruviani, responsabili delle peggiori violazioni del diritti umani, formati nella Escuela de las Américas dell’esercito degli Stati Uniti, non hanno vacillato nel torturare e assassinare i militanti di sinistra, e nel cercare di uccidere in vita, attraverso l’impazzimento, i sopravvissuti. Mesi, anni di isolamento assoluto, nell’oscurità, senza alcuna assistenza medica, e senza processo, è stata la formula usata da Fujimori per farla finita con qualsiasi tipo di dissidenza politica, armata o pacifica.
Il trionfo militare contro Sendero luminoso ha fatto di Fujimori un paladino della lotta contro la sovversione nel continente, e sconfiggere quella banda di cretini maoisti ha valso a Fujimori il beneplacito internazionale per fare tutto quel che gli passasse per la testa Tutti i mezzi sono buoni per proteggere gli investimenti del capitale internazionale in Perù, e in America Latina.
Il telefono ha suonato, e la voce agitata di Cerpa, Evaristo, diceva: «Mezz’ora fa si è ritirato l’ambasciatore del Canada, l’attacco contro l’ambasciata è cominciato. Moriremo tutti, fratello, e cadiamo per il Perù e l’America Latina».
Sono le due del mattino quando scrivo queste righe e sono preda di una tremenda rabbia, perché tutti gli sforzi andavano in direzione di un negoziato. Un mese fa ne parlai con l’ambasciatore dell’Uruguay in Perù, che era uno degli ostaggi liberati dall’Mrta, e lui mi assicurò che gli occupanti della residenza giapponese erano tutti molto giovani e molto colti, e che nessuno degli ostaggi aveva paura di loro. Adesso le agenzie parlano della morte di tutti quel compagni, che sbagliassero o no compagni, perché è bene che si sappia una maledetta volta per tutte che tutti quelli che si ribellano in America Latina, dai ragazzi combattenti del Chiapas fino ai detenuti politici del Frente Manuel Rodrígues in Cile, sono una sola grande famiglia che con orgoglio assoluto va avanti nella traccia lasciata dal Che, perché non ci è stato lasciato altro cammino, perché la pace non convive con lo sfruttamento, perché la dignità non la decide il Fondo Monetario Internazionale, perché le speranze del continente non le amministra la Banca Mondiale, perché la sete di giustizia sociale non si è saziata con la caduta del falso mondo socialista né con l’avvento del nuovo ordine internazionale.
Non so ancora quanti guerriglieri dell’Mrta siano morti, neanche conosco quanti ostaggi siano caduti e neanche a quanto ammontino le perdite dell’esercito peruviano. Tutto importa, perché si è scritta una nuova pagina della storia nera dello sfruttamento e della repressione della storia dell’America Latina.
Oggi i governanti del mondo si affretteranno a salutare l’energia e la decisione di Fujimori, ma i detenuti politici continueranno a morire secondo dopo secondo nelle galere peruviane. Appena un mese fa Fidel Castro aveva offerto asilo ai guerriglieri dell’Mrta ma loro risposero che non avevano preso d’assalto l’ambasciata per guadagnarsi una vacanza a Cuba, bensì per strappare alla morte 400 compagni, Questo si chiama dignità, valore, avere le palle in politica.
Per quanto non serva più a nulla, saluto quei compagni caduti, i miei compagni, che forse sbagliavano o forse no, ma che hanno dimostrato che il capitalismo non ha la minima chance di dormire sonni tranquilli.
Con ogni donna o uomo che muore per la giustizia sociale muore anche qualcosa della decenza umana. Però qualcosa resta, ed è proprio quel qualcosa che ci fa inghiottire la rabbia e ripetere a denti stretti: Vinceremo!
pubblicato il 24 aprile 1997 sul quotidiano “il manifesto” qui


La gabbianella vola - Patrizia Cecconi

Arriva un’altra brutta notizia. Apparteniamo tutti alla morte, quella falce che decide quando recidere la vita, e oggi, in mezzo alle migliaia di bimbi che muoiono di polmonite, di colera, di fame, di sete e di altrui profitto; in mezzo alle migliaia di umani di ogni età, sesso, religione e fazione politica che vengono massacrati affinché proliferi la più ignobile delle industrie, quella delle armi; in mezzo alle migliaia di morti vittime dirette o indirette della peste del momento, la covid-19, quella falce ha tagliato la vita di Luis Sepùlveda, lo scrittore, combattente, rivoluzionario, capace di farsi amare dai bambini con la sua vena fiabesca, e dagli adulti per quella scrittura che pur andando giù morbida come una carezza ti segna l’animo come un raggio laser.
Ora Luis lo scrittore, ma anche il compagno cileno che portava con sé il ricordo indelebile di quell’11 settembre del “73, quando il sogno di emancipazione sociale del suo Paese si spense sotto il colpo di Stato di Pinochet, ci ha lasciati a soli 70 anni, un’età che non è più quella di morire. Ma la morte, purtroppo,  arriva a sua discrezione. Non furono gli anni di rischiosa militanza cilena, né quelli trascorsi in carcere sotto una delle più feroci dittature a ucciderlo, anzi la sua forza di vivere e di chiedere giustizia a tutto e per tutto il mondo ne fu accresciuta; non furono neanche le migliaia di sigarette fumate, no, Luis era un uomo forte ma non aveva più le difese immunitarie sufficienti a vincere il nuovo virus killer, e questo si è inserito nelle sue cellule trasformandosi in malattia, la covid-19, che gli ha tolto la vita a Oviedo, in un ospedale spagnolo.
Le sue lotte per un mondo più giusto, in sintonia con la sua produzione artistica, non riguardavano solo gli umani, Sepùlveda si batteva affinché il mondo sconfiggesse il dolore, compreso quello degli animaliI suoi viaggi sulle navi di Greenpeace, la sua denuncia contro la strage delle balene ne sono testimonianza; il suo invocare un modello di vita che restituisse rispetto all’ambiente e le sue passioni, compresa quella più umana e potente di tutte, le si ritrovano in tutti i suoi libri: sogni che si fanno fiabe, ricordi che si trasformano in romanzi e tra le pagine, chiari o infilati tra le righe, appaiono quei messaggi che denunciano la sua voglia forte di parlare agli altri e suggerire un percorso di coraggio e di apertura alla vita. La gabbianella che ha paura di volare e che “sull’orlo del baratro ha capito… che vola solo chi osa farlo”  o l’inutilità di una porta chiusa da cui “la tristezza non può uscire e l’allegria non può entrare” sono solo un piccolissimo esempio di quel suo ribadire che il coraggio apre alla libertà, che la felicità è un diritto umano, che l’aprirsi al mondo porta bellezza e che coltivare i sogni è qualcosa di irrinunciabile per chiunque ami la vita intensamente, pur sapendo che tanti fallimenti ne segneranno il percorso.  

E’ andato via così, ma ci ha lasciato uno scaffale di storie da leggere o da rileggere, e la perfida malattia che lo ha consegnato alla morte non ha potuto portarsi via quelle pagine scritte in uno stile letterario coinvolgente, spesso teneramente poetico e a volte affilato e tagliente come quando afferma che l’America Latina è una terra senz’altri punti cardinali che quello a nord, là dove confina con l’odio. E cos’altro poteva dire portando sempre con sé il ricordo di quell’11 settembre del “73 in cui la mano degli USA fu – direttamente per alcuni e indirettamente per tutti, Kissinger compreso – artefice di quel colpo di Stato militare che trasformò  il Cile in una terra di inaudita violenza?
Ne “La storia finisce qui”, uno dei suoi ultimi libri, Sepùlveda racconta le pagine più buie del “900 compresa la tragedia della dittatura di Pinochet, ma la donna del romanzo, seppur segnata indelebilmente dalle torture subite è presente e viva. La storia non finisce qui, infatti. Perché i sogni non sono abbattuti se non per un attimo dalle sconfitte e ciò che la morte non può prendere resta alla vita e il ciclo continua.
Mentre chiudiamo questo ricordo, ci dispiace doverlo notare, ma ci corre l’obbligo di farlo, una nota di TGCOM 24, ci informa della morte di Sepulveda, “autore di Cent’anni di solitudine”. Vergogna TGCOM 24, un vecchio detto forse confuciano invitava a stare in silenzio correndo il rischio di passare per sciocchi, piuttosto che aprire bocca e togliere ogni dubbio. Ecco, sarebbe stato preferibile il silenzio, cara prestigiosa agenzia di stampa, piuttosto che confondere due grandi scrittori, completamente diversi per stile letterario, forse solo perché entrambi latinoamericani, ma guarda caso, l’uno nato in Colombia e morto alcuni anni fa in Messico e l’altro nato in Cile e morto ieri in Spagna.
TGCOM24, scoperto e giustamente criticato per questo, che non è un refuso, ma è l’insulto dell’ignoranza sia verso Sepùlveda che verso Garcìa Marquez, si scusa dicendo testualmente “la prossima volta staremo più attenti”, come se avessero inavvertitamente rovesciato dell’acqua sulla tavola sicuri che presto la cosa sarà dimenticata e non ne resterà traccia. Noi invece la ricorderemo perché non è solo un insulto ai due scrittori, ma è anche un chiaro segnale del pressappochismo che sempre più contraddistingue alcuni media mainstream.
Ma ora salutiamo Sepulveda immaginando che quella gabbianella sopravvissuta grazie al gatto che “contro-natura” non la mangiò ma le insegnò a volare, seguiti ancora a volare portando alto il ricordo del suo creatore e il diritto di dar forma ai sogni passando il testimone quando il destino lo impone.



Sepulveda: «Fa rabbia il ritorno a tempi che credevamo superati»

(Intervista di Roberto Zanini a Luis Sepulveda)

Ha appena compiuto 70 anni, Luis Sepulveda. Ne aveva 28 quando il Cile di Pinochet lo espulse benignamente invece di fargli scontare il meritato ergastolo come membro del Gap, il Grupo amigos personales del presidente Allende. I carri armati per le strade di Santiago li porta letteralmente nella carne, nelle ossa piegate da anni di una cella grande come un frigorifero, nelle unghie strappate. Ora i tank sono tornati, è di nuovo stato d’emergenza
Cosa hai sentito nel tuo cuore a vedere i soldati per le strade, un’altra volta?
Una grande, grande rabbia. Il ritorno a tempi che credevamo superati. Ma non è così, il fantasma del pinochettismo continua a essere molto vivo in Cile, e il presidente Sebastian Pinera, che è una persona perfettamente inutile, ne dimostra l’atteggiamento apertamente fascista.
E’ ancora Pinochet, il suo spettro, o c’è qualcosa di nuovo in questo governo di destra che arma le strade?
Nel fondo c’è una parte dell’eredità di Pinochet. E appena sopra c’è un’estrema destra fascista nello stile di Bolsonaro, sempre più presente in ogni paese dell’America Latina.
Ogni giorno di più: a parte il Messico, la destra va molto bene in tutto il subcontinente.
Sì, c’è una fioritura dell’estrema destra, unita a narcotaffico, sette evangeliche e fondamentalismi religiosi. Il panorama è brutto, e diventa peggiore.
Hai paura di qualcosa di simile ad allora o la democrazia cilena è abbastanza forte da poter superare questi soldati per le strade?
Il golpe militare del ’73 aveva un solo obiettivo: imporre un sistema economico, il modello neoliberale dell’economia. Questo venne imposto. Ora le conseguenze del neoliberalismo hanno portato a un’esplosione sociale, che era là, contenuta, ma che presto o tardi sarebbe scoppiata. Il problema è che questa esplosione sociale non ha un obiettivo politico ben definito, è ira popolare che divampa in maniera spontanea, ma senza che alcuna forza politica proponga un’alternativa. E’ rabbia per la rabbia, e questo è molto preoccupante. Non credo che si possa ripetere il golpe del ’73, un colpo di stato con quelle caratteristiche, ma tutto ciò che è stato conquistato dagli anni del golpe, anche le conquiste più minime, ora è in pericolo.
Dunque questa è una jaquerie, ribellione senza orizzonte politico, è così?
Esattamente, è una reazione popolare di fronte a una serie di misure assolutamente odiose. Il Cile è un paese dove le disuguaglianze sociali sono incredibili quando si prova va descriverle, i molto ricchi e una maggioranza di persone che vive della povertà di quelli più in basso. Il trionfo ideologico del neoliberalismo ha fatto sì che molta gente, per il semplice fatto di avere una puta carta di credito, si senta parte integrante della classe media. E’ un paese ideologicamente molto debole, la sinistra cilena è nel suo peggiore momento, non c’è un’alternativa e la rabbia popolare, l’ira delle classi popolari, si manifesta in questa maniera. Ma la risposta della repressione ci può portare verso tempi tremendamente brutti.
Hai qualche speranza in ciò che resta della storica sinistra cilena, o in altri gruppi?
La sola vera speranza è la gente giovane, quella che ha manifestato più duramente e da più tempo contro il governo, ma manca un’articolazione politica intelligente, la costruzione di un progetto politico alternativo, le risorse intellettuali per proporre qualcosa di diverso, e questo è un lavoro di anni. Spero verrà fatto.
Altre esperienze in America latina? Quello di oggi è un fenomeno cileno o è latinoamericano?
Ciò che accade in Cile è parte di un fenomeno globale, con tutta evidenza anche il neoliberalismo è in crisi. Quando un paese come gli Stati Uniti elegge presidente un imprenditore del tutto inetto, inefficace e ignorante, non si può sperare che gli altri mandatarios del mondo possano essere molto diversi. Meno di una settimana fa Donald Trump ha detto che la relazione tra Stati Uniti e Italia risale all’antica Roma! Ci sono alcune speranze: la Bolivia di Evo Morales, combattere ogni povertà in un modo reale ed efficiente e far crescere il paese, l’Uruguay del Frente Amplio, Pepe Mujica ha iniziato un’altra maniera di fare politica che il Frente Amplio ha proseguito, senza grandi ambizioni ha conquistato cose fondamentali e la gente vive meglio. Evidentemente non è la grande soluzione, la grande soluzione dovrebbe essere un altro modo di vivere, allontanarsi dalla realtà e dal mito della crescita economica. Bisogna avere un’altra idea di sviluppo, manca questo per completare l’idea di una alternativa.
Pinera ha dichiarato: “Siamo in guerra contro un nemico potente, molto organizzato e implacabile, disposto a usare la violenza e la delinquenza senza alcun limite”. Sembra la descrizione di un’invasione. Ma chi è il nemico? Ed è davvero organizzato?
Macché nemico organizzato, il “nemico” sono i pensionati che vivono con un assegno miserabile, gli studenti che terminano i corsi con trent’anni di debiti scolastici, gli insegnanti con il salario più basso d’America Latina, i giovani senza alcun futuro, la classe lavoratrice senza alcun diritto… Ogni giorno la polizia entra nelle scuole e nei licei e picchia brutalmente. E questa esplosione spontanea, cominciata con una manifestazione del tutto pacifica contro il costo dei biglietti della metro, non giustifica in alcun modo la violenza dello stato. Quando lo stato comincia a praticare la violenza, evidentemente incontra una risposta violenta.

Le donne della mia generazione
aprirono i loro petali ribelli
non di rose, camelie, orchidee o altre piante
di salottini tristi, di casette borghesi,
di usanze stantie,
ma di erbe pellegrine al vento
Perché le donne della mia generazione fiorirono
per strada, in fabbrica
divennero filatrici di sogni,
e dentro il sindacato organizzarono l’amore
secondo i loro saggi criteri.
«Cioè» dissero le donne della mia generazione
«a ciascuno secondo i suoi bisogni
e la sua capacità di risposta.»
Come nella lotta colpo su colpo,
nell’amore bacio su bacio.
E nelle aule argentine, cilene e uruguaiane
seppero quel che dovevano sapere
per il sapere glorioso
delle donne della mia generazione.
Minigonne in fiore negli anni settanta,
le donne della mia generazione
non nascosero neanche le ombre delle loro gambe
che furono di Tania.
Erotizzando col più grande calibro
la dura strada dell’appuntamento con la morte.
Perché le donne della mia generazione
bevvero di gusto il vino dei vivi,
accorsero a ogni chiamata,
tennero acceso il fuoco
e furono dignità nella sconfitta.
Nelle caserme le chiamarono puttane
senza offenderle
perché venivano da un bosco di sinonimi allegri:
minas, grelas, parcantas, cabritas, minones,
gurisas, garotas, jevas, zipotas,
viejas, chavalas, senoritas.
Finché loro stesse non scrissero
la parola Compagna,
su ogni schiena
e sui muri di ogni albergo.
Perché le donne della mia generazione ci marchiarono addosso
col fuoco eterno delle loro unghie
la verità universale dei loro diritti.
Conobbero il carcere e i pestaggi,
Vissero in mille patrie e in nessuna,
Piansero i loro morti e i miei come fossero i loro,
Dettero calore al freddo, categoria al tempo e desideri alla stanchezza,
All’acqua dettero sapore e conservarono il fuoco
della loro invincibile memoria.
Le donne della mia generazione partorirono figli eterni,
li allattarono cantando Summertime,
fumarono marijuana nel riposo,
ballarono il meglio del vino
e bevvero le musiche più pure.
Perché le donne della mia generazione
ci insegnarono che la vita
non si offre a sorsi, compagni,
ma tutta d’un colpo e fino in fondo alle sue conseguenze.
Furono studentesse, minatrici, sindacaliste, operaie,
artigiane, attrici, guerrigliere,
persino madri e compagne
nei momenti liberi dalla Resistenza.
Perché le donne della mia generazione
rispettarono solo il limite dell’orizzonte
e mai e poi mai una frontiera.
Internazionaliste dell’affetto, brigatiste dell’amore,
miliziane della carezza, commissarie del dire ti amo.
Fra una battaglia e l’altra
le donne della mia generazione dettero tutto
e dissero che era appena sufficiente.
Le dichiararono vedove a Córdoba e a Tlatelolco.
Le vestirono di nero a Puerto Montt e a San Paolo.
E a Santiago, Buenos Aires e Montevideo
furono le uniche stelle
della lunga notte clandestina.
I loro capelli bianchi non sono capelli bianchi
ma un modo d’essere
per il compito che le attende.
Le rughe che spuntano sui loro visi
dicono: ho riso e pianto e tornerei a farlo.
Le donne della mia generazione
hanno preso qualche chilo di ragioni
che non se ne vanno,
si muovono un po’ più lente,
stanche di aspettarci alla meta.
Scrivono messaggi che incendiano la memoria.
Ricordano aromi proscritti e poi li cantano.
Ogni giorno inventano parole
e con quelle ci spingono,
Nominano le cose e ci arredano il mondo.
Scrivono verità sulla sabbia e le offrono al mare.
Ci convocano e ci danno alla luce sulla tavola apparecchiata.
Dicono pane, lavoro, giustizia, libertà,
e la prudenza dell’uomo si trasforma in vergogna.
Le donne della mia generazione sono come barricate:
riparano e incoraggiano, danno fiducia
e addolciscono il filo dell’ira.
Le donne della mia generazione
sono come un pugno chiuso
che protegge con violenza la tenerezza del mondo.
Le donne della mia generazione non gridano
perché hanno sconfitto il silenzio.
Se qualcosa ci segna, sono loro.
L’identità del secolo sono loro.
Loro, la fede restituita, il coraggio nascosto di un volantino,
il bacio segreto, il ritorno a tutti i diritti.
Un tango nella serena solitudine di un aeroporto,
una poesia di Gelman scritta su un tovagliolo,
Benedetti condiviso nel pianeta di un ombrello,
i nomi degli amici
conservati con spighe di lavanda.
Le lettere per cui baci il postino,
le mani che sorreggono il ritratto dei miei morti,
i semplici elementi dei giorni
che sgomentano il tiranno,
la complessa architettura dei sogni dei tuoi nipoti.
Sono tutto e sostengono tutto,
perché tutto arriva coi loro passi
e ci raggiunge e ci sorprende.
Non c’è solitudine dove guardano loro
né oblio finché cantano.
Intellettuali dell’istinto, istinto della ragione.
Prova di forza per il forte
e amorevole vitamina per il debole.
Ecco come sono, le uniche, irripetibili, indispensabili, sofferte, picchiate,
Donne negate ma invitte della mia generazione.
(Luis Sepulveda, 1949-2020)



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