1. Una bufala al quadrato
La voce
inizia a gonfiarsi nel penultimo weekend di marzo. Dice che diversi rom
provenienti dal campo di Salone e «un rom» residente in una casa popolare del
Quarticciolo sono ricoverati allo Spallanzani dall’11
marzo scorso poiché affetti da coronavirus.
La voce
diventa notizia, rilanciata da diverse testate, e spinge la Direzione Sanitaria
dell’ospedale a specificare – nel bollettino medico del 23 marzo – che «presso
questo istituto non sono, allo stato, ricoverati cittadini rom».
Nel mentre,
l’Ufficio Speciale Rom di Roma Capitale annunciava
imminenti azioni di prevenzione e assistenza rivolte alle baraccopoli romane.
Bastano due
giorni per scoprire che il bollettino è falso – tanto quanto la bufala sui
«diversi rom» ricoverati. Sulle pagine del Messaggero arriva l’amara notizia
della morte di Stanije Yovanovic, il «rom
positivo» del Quarticciolo, ricoverato allo Spallanzani 3 giorni prima del
fatidico bollettino e ivi deceduto per probabili complicanze dovute al virus.
Aveva appena 33 anni ed è la più giovane vittima di Sars-Cov2 del Lazio.
Aldilà
dell’insensatezza nel diffondere (falsi) bollettini medici su base etnica, si
fiuta lontano un miglio la nube tossica che aleggia attorno all’etichetta
«rom», usata per designare un soggetto – e un titolo – d’eccezione. Partire dal singolo rom per allargare il
quadro verso tutta una comunità, si dimostra non solo una pratica ipocrita – ci
voleva il contagio di un rom, per
porre l’attenzione sulle condizioni di vita dei rom
baraccati? – ma anche pericolosa: il contagio di uno, equivale al contagio di
tutti? Ergo, tutti i rom sono possibili untori?.
A riprova
che queste non sono speculazioni semiologiche, basta pensare al trattamento riservato
ai «cinesi» che da cittadini del territorio oggetto dell’epidemia (la Cina), si
sono trasformati – a suon di titoloni – in «soggetti epidemici». Dai che ti
ridai, a forza di accostare il virus al made in China, una
buona fetta di popolazione ha disertato per giorni ristoranti, bar ed esercizi
commerciali a gestione «asiatica». Poi il pregiudizio è rientrato – quando il
virus è diventato «lombardo» –, ma non si può dire altrettanto per lo stigma
sui rom.
E infatti,
proprio lo stesso giorno del bollettino dello Spallanzani, si produce una
narrazione parallela e contraria. «Gli sciacalli in azione: rom abusivi in
caccia di alloggi», così titola l’edizione milanese del Giornale, per
mettere in guardia i suoi lettori dai nomadi che «approfittano della situazione
di emergenza» per occupare le case degli italiani in quarantena. Per certi
giornalisti, «rom» is the new «delinquente»,
l’etichetta politically correct per
identificare il soggetto nocivo per eccellenza, che oggi, non si sa bene come,
è in qualche modo colluso col virus. Un po’ come quando Salvini, in pieno hangover post-ministeriale, tentava di collegare
l’apertura dei porti con la chiusura delle case: «Gli italiani non possono
uscire di casa, ma accogliamo gli immigrati!». No hay
banda. Il feticismo sul termine “rom” rivela le due facce di una
stessa medaglia: il bisogno di blindare un insieme di criticità all’interno di
un soggetto in quanto tale.
Per dirla
con Yves Citton, la parola «rom» scenarizza storie, luoghi comuni, titoli di
giornale e persino immagini mentali associate al profilo del diverso-da-noi. E
chi fa informazione lo sa.
2. Il lockdown della diversità
«Una sorta
di istituzioni totali volte a realizzare il controllo politico per mezzo
dell’esclusione e dell’emarginazione», così negli anni Sessanta
l’antropologa Amalia Signorelli D’Ayala definiva
gli insediamenti di «baraccati italiani» che chiedevano al Comune di prendere
provvedimenti contro l’emergenza abitativa nelle borgate romane. Un’emergenza
che era iniziata nel ventennio fascista e si sarebbe prorogata ad libitum fino ai giorni nostri. Dagli
sbaraccamenti dei romani per liberare il centro storico negli anni
Trenta/Quaranta, ai baraccamenti degli emigrati meridionali nei
Sessanta/Settanta, a quelli degli esuli jugoslavi negli Ottanta/Novanta, fino
all’istituzione dei «villaggi attrezzati», un’eccellenza tutta made in Italy, pensata in risposta alla successiva
«emergenza nomadi» degli anni Duemila.
Un’emergenza
generata – con Legge n.82 del 24/04/1985 – dall’erronea assunzione che, in
quanto nomadi, la vita delle minoranze etniche rom, sinte e caminanti dovesse
essere confinata e gestita in determinati spazi a controllo statale. Si tratta
di «norme in favore dei rom» – come specificherà la Regione Lazio – che
incastrano le vite dei nomadi (o presunti tali) all’interno di un apparato di
contenimento e profilassi sempre più stringente.
Non parliamo
di fumosi ordinamenti legislativi (che pur sussistono), ma di restrizioni che
incidono sulla mobilità fisica e sociale di decine di migliaia di persone che
vengono sgomberate e trasferite nei campi di Stato: recinzioni metalliche,
telecamere di sorveglianza, posti di blocco h24 e tutta una serie di servizi
assistenziali da fruire rigorosamente in loco, cioè nel
«villaggio attrezzato». La presunta tutela della diversità culturale, si
tramuta in quello che oggi, in piena emergenza coronavirus, potremmo definire
il «lockdown della diversità».
Una pentola
a pressione sociale che esplode nel 2014, quando lo scandalo di Mafia Capitale smaschera il giro di criminalità
organizzata costruito sul sistema campi, ma allo stesso tempo riduce
ulteriormente i servizi per i «villeggianti della solidarietà», che dopo
vent’anni non solo non hanno «nomadato», ma hanno sviluppato un cronico
isolamento. In primis, quello di due generazioni di bambine e bambini che nei
campi ci sono nati e cresciuti. L’emergenza rom, generata dall’emergenza
nomadi, spinge Roma Capitale ad escogitare un nuovo «Piano di inclusione».
«Abbiamo
appreso le migliori prassi – quelle che hanno funzionato – le portiamo a Roma
per superare i campi […] Finalmente è finita l’epoca della parole! Con questa
amministrazione si passa ai fatti» dichiara la sindaca Virginia Raggi il 31/04/2017. Il master plan, ancora in atto, si è tradotto in proposte
tanto unidirezionali quanto nebulose circa i concreti interventi sociali,
occupazionali e abitativi rivolti alle famiglie dei campi, mentre sgomberi
forzati, ricatti e soprusi sono rimasti all’ordine del giorno.**
Queste
ultime cose le so perché le ho viste con i miei occhi, ma fino a pochi anni fa
ero ignaro della «tradizione». È stato grazie all’amicizia con Nedžad (ventenne rom de Centocelle), ai tempi dei laboratori di break-dance per i bambini delle periferie, se ho
potuto farmi le ossa e aprire la mente sulla questione rom. Un percorso a
ostacoli, perché minato da pregiudizi, diffidenze e piccoli misteri che ci
hanno portato a diventare amici per la pelle e inventare una storia che doveva debuttare a teatro il
prossimo 3 aprile. A sipari ammainati, ci consola il fatto di aver raggiunto un
risultato già l’anno scorso, quando Nedžad, a sue spese, era riuscito a
trasferirsi dal “villaggio” di via Salone a un appartamento, dove attualmente
sta scontando l’#iorestoacasa.
Nedžad – che
è un nerd patentato – ha trovato il suo equilibrio fra allenamenti mattutini,
videogame e scofanate di noodles, ma se
avesse ancora vissuto a Salone, la routine sarebbe stata del tutto diversa.
Proprio
ieri, quando gli ho detto che avrei scritto questo articolo, ha deciso di
chiamare il suo amico R. (che a Salone ci vive ancora, insieme ad altre 360
persone) per dare corpo a quelle che, fino a pochi giorni fa, erano solo voci
inascoltate.
«Se vuoi
uscire dal campo devi metterti in fila per compilare l’autocertificazione e al
tuo ritorno, come prova, devi consegnare lo scontrino della spesa ai vigili».
Non una novità, dato che l’ingresso contingentato e il presidio h24 delle forze
dell’ordine era già attivo da anni, e non solo a Salone. Come ha riportato in questi giorni l’Associazione 21 Luglio (la Onlus per cui lavoravo
insieme a Nedžad), a restare “al campo”, solo a Roma, sono circa 3.500 esseri
umani. Per leggersi «un buon libro», come invitano a fare certi spot
televisivi, dovrebbero ritagliarsi uno spazio negli appena 21 mq che condividono
con altre sei o sette persone, mentre scarseggiano beni di prima necessità e
notizie attendibili.
Letteralmente
isolati dal mondo, nel campo regna un diffuso clima di paura e sospetto, e
qualcuno preferisce stringere la cinghia piuttosto che tentare l’impresa di
fare la spesa col rischio di essere multato. Nedžad lo ricorda bene, il primo
supermarket dista da Salone almeno 40 minuti a piedi.
– Ma la Croce Rossa, la Caritas…?
– Di solito portano pacchi di latte e pasta, ma dall’inizio dell’epidemia [cioè dal 30 gennaio] non si è visto più nessuno. Forse anche loro sono al collasso.
– Ma la Croce Rossa, la Caritas…?
– Di solito portano pacchi di latte e pasta, ma dall’inizio dell’epidemia [cioè dal 30 gennaio] non si è visto più nessuno. Forse anche loro sono al collasso.
Stessa
situazione alla Barbuta, insediamento di circa 425
abitanti nei pressi di Ciampino: presidio h24 e scontrini alla mano. Lì Nedžad
ha diversi amici fra cui B., quarantenne automunito, che si è attivato per fare
la spesa alle famiglie che non possono (o non osano) uscire di casa, in attesa
dell’arrivo della cavalleria – Croce Rossa e associazioni – che al momento non
riescono ad assicurare una continuità del servizio.
3. Niente di nuovo sotto il sole?
Guenda è
un’altra mia ex-collega di laboratorio, che in questi giorni è alle prese con
l’emergenza scolastica di tanti bambini delle periferie, fra cui quelli di
un’occupazione abitativa della periferia est di Roma, dove vive una comunità
rom di circa 300 persone. Il progetto di assistenza scolastica, che fra le
altre cose mirava a smontare lo stereotipo del bambino rom «culturalmente»
disincentivato a leggere e scrivere, oggi si è riconvertito in assistenza
«digitale».
«Qui al campo
non tutti hanno a disposizione smartphone e wi-fi, ma
soprattutto scarseggia l’energia elettrica. I generatori di corrente sono
attivi solo nelle ore di buio e se durante il giorno hai il telefono scarico,
automaticamente sei fuori dalla didattica. Inoltre l’app con cui gli insegnanti
caricano e verificano i compiti è in inglese e questo complica ulteriormente le
cose. Senza una stretta collaborazione fra insegnanti, rappresentanti dei
genitori, famiglie e ragazzini ben disposti, diventa quasi impossibile
frequentare come tutti gli altri».
Anche qui,
nulla di nuovo sotto al sole. Per i bambini che prima della chiusura delle
scuole usufruivano del servizio di trasporto scolastico nei famosi «pulmini
gialli» per soli rom, entrare in classe un’ora dopo e uscire un’ora prima
costituiva già la prassi. Inseriti all’interno di speciali piani educativi e di
monitoraggio, sotto la voce «alunni nomadi», i bambini e le bambine rom
finiscono per ricoprire il ruolo – anch’esso ormai stereotipato – dell’alunno
all’ultimo banco, «che invece di scrivere disegna e fa i puzzle».
«La
situazione in generale è critica», conclude Guenda, «Per chi vive alla
giornata, non c’è possibilità di sostentamento. C’è chi ha provato ad uscire
per racimolare qualcosa dai cassonetti, ma ha dovuto fare retromarcia: dai
palazzi gli tiravano i sassi, intimando di stare a casa».
– Teniamoci
in contatto –, chiedo a Nedžad e Guenda prima di chiudere la telefonata, – e
daje forte! –, gli dico. Passerò il resto della giornata davanti al computer.
Vorrei far capire a tutte e tutti che partendo dalla tutela, passando per il
controllo e finendo con la rieducazione, dai baraccati romani agli esuli
jugoslavi, le procedure di lockdown e
distanziamento sociale messe in campo dal governo per prevenire la diffusione
dell’epidemia da Coronavirus sono la continuazione di un percorso di
disciplinamento sociale old school e
mai sospeso. Che quello che ci tocca ora, avveniva ieri e aggraverà il domani.
Che il tutto accade sotto al sole dello Stato democratico, non all’ombra di un
regime totalitario o distopico, ma non per questo deve farci abbassare la
guardia. Che le misure emergenziali che i governi hanno agevolmente legalizzato
e si apprestano a conformare nei prossimi mesi e anni, devono renderci vigili e
non vigilantes, perché – eccoli qua! – gli effetti a lungo
raggio sono già scavati nei volti ipervisibili eppure dimenticati dei rom
italiani.
– Daje
forte! –, gli dico, e inizio a scrivere.
–
*Nexus è un regista e performer romano. Da più di
vent’anni esplora il legame tra street culture, arti
visive, filosofia, break dance e letteratura. Tiene laboratori di danza e di
teatro nelle periferie e nei campi rom. Insieme all’attrice Laura Garofoli ha
fondato la compagnia teatrale Garofoli/Nexus.
**i dati e
le citazioni sulla storia delle emergenze abitative romane sono tratte dai
report Roma: oltre le baraccopoli e Il piano di carta del
maggio 2018 a cura di Associazione 21 Luglio che ringrazio per la disponibilità
e il confronto.
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