Il
prolungarsi indefinito della crisi epidemica e sanitaria sta mutando il mondo
che eravamo abituati (e rassegnati) a conoscere. La storia sembra essersi
rimessa inaspettatamente in moto. Una frase sentita molte volte in questi anni,
eppure mai come oggi prossima alla realtà. Le classi dirigenti dei principali
paesi occidentali (e non solo) hanno subìto l’epidemia, rincorrendo
l’evoluzione del virus sempre un attimo dopo gli eventi. Negazionismo e
drammatizzazione sono parte di una stessa retorica, fatta propria da politiche
inadeguate a reggere l’urto della realtà. L’incidenza di una epidemia di questo
tipo avrebbe, forse, lasciato interdetto qualsiasi potere: inutile
oggi riempire le fosse del senno del poi. Per quanto, sia detto esplicitamente,
la gestione dell’emergenza sanitaria ha còlto impreparato un intero sistema di
relazioni sociali non solo per la sua carica catastrofica naturale – cioè
incontrollabile – ma anche perché si è scontrata frontalmente con un modello di
sviluppo determinato. Se il virus appare un fatto naturale, la gestione
sanitaria dell’emergenza è sicuramente un fatto politico, che svela il
carattere anti-umano delle politiche liberiste di questo trentennio.
La crisi
sanitaria prima o poi, però, passerà. La fine di questa coinciderà con
l’aggravarsi di una crisi economica inaudita in tempo di pace. Ed è riguardo a
questo nuovo mondo che le classi dirigenti dell’Occidente – e soprattutto
quelle italiane – non sapranno cosa fare. Rimarranno attonite, tentando di
incasellare nei ragionamenti di ieri un quadro di soluzioni e prospettive
inservibili per il mondo di domani. Il dibattito pubblico già in corso ne svela
d’altronde tutte le caratteristiche. Da una parte c’è il solito refrain
liberista, declinato principalmente nella chiave ordoliberale che
garantisce il libero mercato attraverso l’interventismo giuridico-repressivo
dell’apparato statuale; dall’altro il variegato fronte della critica
neokeynesiana, che spinge verso la “condivisione del debito” e alla costruzione
di un’Europa finalmente federale. Politica dell’austerity versus politica del
debito. Le “soluzioni” di ieri applicate al mondo di domani.
Tra queste
due visioni impotenti del futuro, la sinistra di classe rischia di ritagliarsi
un ruolo ancor più marginale di quanto avuto sino ad oggi. Rassegnandosi ad
interpretare il fronte del NO a tutto e della chiusura ad oltranza, questa
sinistra rischia di non cogliere la sfida che già oggi è in gestazione e
gravida di potenzialità: mai come oggi il disorientamento delle classi dirigenti
squarcia la politica politicante, favorisce soluzioni originali, costringe ad
immaginare nuovi modelli di civiltà, un nuovo modo di intendere la modernità,
una modernità finalmente non in contrapposizione all’uomo e all’ambiente che lo
circonda; mai come oggi la carica inaspettata di idee nuove potrebbe farsi
strada in pezzi di classe dirigente posti di fronte al baratro della crisi
epocale.
Il dibattito
sulla ripresa rischia di essere egemonizzato da Confindustria e dai suoi
rappresentanti politici. Renzi, ma anche Salvini; il Pd, ma anche la schiera di
“tecnici” – Draghi in primis – figli di un mondo che non ha più presa sulla
realtà. Nei fatti, le uniche proposte concrete alternative
alla chiusura sine die delle relazioni sociali del paese vengono dal fronte
padronale: l’abbattimento, se non direttamente l’abolizione, di quote di
fiscalità generale che gravano sulle imprese del paese; la riapertura
indiscriminata della produzione ferma allo status quo ante, come se la crisi
nella quale siamo ancora immersi fosse un’antipatica parentesi da lasciarsi
alle spalle quanto prima; l’assistenzialismo quale orizzonte ultimo di ogni
politica sociale. Abbiamo il dovere di ribaltare l’orizzonte di senso che le
classi dominanti tentano di ricostruire garantendosi dagli imprevisti insiti in
ogni crisi. È la crisi il terreno su cui lavorano i comunisti.
Abbiamo il
dovere di immaginare il mondo di domani attraverso proposte ardite e originali.
Dobbiamo dire esplicitamente che l’economia del debito non è la soluzione strutturale
all’economia dell’austerity. Che il sostegno ai redditi dispersi dalla crisi
– pure doveroso in questa fase e per il tempo necessario – è
una misura tampone, e non l’obiettivo generale di una politica alternativa.
Dobbiamo tornare a parlare di produzione rovesciando e abbattendo il “paradigma
Taranto” che si vuole estendere a tutto il paese: o la salute o il lavoro.
Salute e lavoro marciano uniti nel mondo di domani, ma per rendere concreta e
realistica una proposta di tal fatta abbiamo bisogno di andare (molto) oltre i
facili slogan a cui eravamo abituati nel mondo pre-crisi. Altrimenti, il
rischio è di ritrovarci in autunno con ulteriori “liberalizzazioni” del mondo
del lavoro e ristrutturazioni presidenzialistiche dei rapporti
politico-rappresentativi, veicolati attraverso la narrazione “dell’emergenza”.
Per fare
questo, però, c’è bisogno di alimentare un dibattito oggi bloccato anche al
nostro interno. È oggi il tempo di farlo, non domani, non a giugno o in
autunno. Allora, sarà troppo tardi. La borghesia evasora, rentier e
anti-nazionale, europeista o populista, finanziaria o assistita, per quel tempo
avrà già avuto modo di ri-organizzarsi. Se non attraverso politiche
effettivamente all’altezza dei tempi (figuriamoci), attraverso la neutralizzazione
del dibattito, agitando false flag ideologiche che non
convinceranno nessuno, ma che persisteranno a dominare attraverso la
coercizione diretta e indiretta. E con l’ausilio – come sempre – dei dominati,
di quell’universo di subalternità sociale che non avrà altro modo di esprimere
la propria proiezione ideale se non assecondando questa o quella finzione
dialettica tutta interna al regime liberista.
Dovremmo
cambiare anche noi dunque. Accettando la sfida che la realtà ci sta imponendo,
stimolando un dibattito tra idee diverse, sicuramente non “ortodosse”, purché
inaudite. Non per gusto di provocazione o di eclettismo. Ma perché il mondo di
ieri finisce anche per noi e per il nostro teatrino. L’alternativa è farsi
promotori di politiche irrealistiche, ideologiche, distopiche, disconnesse
dalla realtà politica e sociale che invece richiede a gran voce – ma
senza una voce cosciente – qualcosa di nuovo a cui credere. Un nuovo
inizio dunque, che non può coincidere con restaurazione.
Impossibilitati
all’azione politica, almeno per qualche altra settimana, è dunque il momento di
favorire pensatoi comuni, con l’obiettivo di formulare e poi intestarci
battaglie determinate per il dopo. Farci trovare pronti alla riapertura,
questo l’unico obiettivo che dovremmo darci nel breve termine. E poi si vedrà.
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