1. Il
ritorno dei corpi
Negli ultimi
quarant’anni almeno, siamo stati testimoni del trionfo e del dominio
incontrastato del sistema neo-liberista in ogni angolo del pianeta. Tra le
diverse tendenze che attraversano questo tipo di sistema, una in particolare
sembra costituire la forma mentis dell’epoca. Si tratta della
tendenza a considerare i corpi come il rumore di fondo che disturba la “recita”
del potere, poiché i corpi reali, sempre troppo “pesanti” e troppo opachi,
desideranti e viventi sfuggono alle logiche lineari di previsione. Da sempre
l’obiettivo perseguito dalle pratiche e dalle politiche proprie del neoliberismo
consiste nel deterritorializzare i corpi, virtualizzarli, facendone una materia
prima manipolabile, un “capitale umano” da utilizzare a proprio piacimento nei
circuiti del mercato. Si richiede che i corpi siano disciplinati, dislocabili
senza criterio, flessibili, pronti ad adattarsi (leitmotiv del
nostro tempo) alle necessità determinate dalla struttura macro-economica. Nella
loro astrazione estrema, i corpi dei migranti senza documenti, dei disoccupati,
i corpi non conformi, i corpi annegati nel Mediterraneo o ammassati nei centri
di detenzione, in breve, i corpi considerati in esubero diventano semplici
numeri, senza valore, senza alcuna corporeità e quindi, in fine, senza umanità.
In ambito
tecnico-scientifico questa tendenza si esprime nella formula del “tutto è
possibile”, che non riconosce alcun limite biologico o culturale al desiderio
patologico di deregolazione organica. È ormai una questione di aumentare i
meccanismi del vivente, la possibilità di vivere mille anni, se non addirittura
di diventare immortali! Si tratta niente di meno che della volontà di produrre
una vita post organica in cui si potranno oltrepassare i limiti dei corpi, per
loro natura imperfetti e troppo fragili. L’accelerazione catastrofica
dell’Antropocene negli ultimi trent’anni testimonia gli effetti nefasti del
“tutto è possibile” tecnicista che non soltanto ignora, ma calpesta le profonde
singolarità dei processi organici.
È in questo
mondo, convinto di potersi sbarazzare dei limiti propri del vivente, che
insorge la pandemia. In maniera catastrofica e sotto l’effetto della minaccia
ci rendiamo conto d’un tratto che i corpi sono di ritorno. Eccoli diventati da un giorno
all’altro i principali soggetti della situazione e delle politiche messe in
campo. I corpi si ricordano di noi.
Il ritorno
dei corpi sembra aprire metaforicamente una nuova finestra dalla quale possiamo
intravedere diverse possibilità d’azione. Innanzitutto dobbiamo costatare che
il potere può, quando vuole, dispiegare politiche necessarie alla protezione e
alla salvaguardia del vivente. Il Re è nudo! Stupefatti, i leader della
finanza mondiale hanno capito che l’economia, il loro mostro sacro, non poteva
fare a meno di schiavi vivi per funzionare. Dopo aver tentato di persuaderci
che la sola “realtà” seria di questo mondo era determinata dalle esigenze
economiche, i governanti di (quasi) tutto il mondo dimostrano che è possibile
agire altrimenti, anche a rischio di mettere in crisi l’economia mondiale.
Si tratta di una sorta di autodenuncia da parte di chi aveva sostenuto
categoricamente la necessità che tutte le politiche (sociali, ambientali,
sanitarie) dovevano obbligatoriamente fare i conti con il “realismo economico”,
eretto a dio autoritario al quale non si può mai disobbedire.
Tuttavia una
finzione non dovrebbe sostituirsi a un’altra. A quella del neoliberismo, che
manteneva l’illusione di una società composta da individui serializzati e
autonomi, si sostituisce in queste ultime settimane un altro racconto
immaginario che sostiene che “siamo tutti sulla stessa barca”. Lungi da noi l’idea di criticare
questo invito alla solidarietà. Sarebbe tuttavia un errore credere che il
carattere collettivo della minaccia cancelli come per magia le disparità tra i
corpi. La classe sociale, il genere, il predominio economico, la
violenza militare o l’oppressione patriarcale sono altrettante realtà che
situano i nostri corpi in modo diverso. Non lasciamoci incantare dalla
romanticizzazione del confinamento che mira, strombazzando, a farci dimenticare
queste differenze.
2. L’emergenza
di un’immagine condivisa
Viviamo
tutte e tutti nell’ombra di una minaccia grave e generalizzata: quella di una
deregolamentazione ecologica globale i cui effetti sempre più massicci (riscaldamento climatico, massacro
della biodiversità, inquinamento dell’aria e degli oceani, esaurimento delle
risorse naturali) già colpiscono l’insieme del vivente e delle società
umane. È certo che oggi una maggioranza di persone ne sia toccata e
percepisca (in senso neurofisiologico) questa realtà. Tuttavia per la maggior
parte di noi tutto si svolge come se la catastrofe annunciata, non domani ma
già da oggi, non sia identificata come concreta e immediata. La percezione è
ben reale ma sembra rimanere a un livello soffuso senza che sia vissuta
direttamente. Potremmo dire che siamo immersi nella minaccia. Essa costituisce
la nostra atmosfera. Eppure non riusciamo a produrne una conoscenza delle
cause, l’unica in grado di formare un’immagine concreta del pericolo che
innesca l’agire. Riceviamo quotidianamente numerose notizie riguardanti
“il” disastro ma l’informazione, lungi dal provocare un’azione, conduce
all’impotenza e alla sofferenza. Chi riesce ad agire, quindi, in questo
contesto? Si tratta secondo noi di coloro che si impegnano nella ricerca delle
cause: le vittime, gli scienziati, chi lancia l’allerta… Detto in altre parole,
coloro che sono impegnati in un agire volto a fare emergere una
rappresentazione chiara dell’oggetto in questione.
Il problema
è che, di fronte a minacce di cui siamo coscienti ma che sono vissute come
astrazioni, rimaniamo paralizzati dall’angoscia. Al contrario, quando siamo in
presenza di una causa ben identificata, è la paura a far da padrona. E la
paura, diversamente dall’angoscia che è senza oggetto, spinge all’agire.
Per
comprendere meglio la questione della percezione diffusa di una minaccia
astratta, è utile rifarsi alla distinzione proposta in principio dal
filosofo tedesco Leibniz e ripresa in neurofisiologia tra percezione e appercezione.
L’essere umano, come tutti gli organismi viventi, vive in costante interazione
materiale con l’ambiente.
La
percezione consiste in
questo primo livello d’interazione formato dall’insieme di “accoppiamenti”
percettivi che l’organismo forma con l’ambiente fisico-chimico ed energetico.
Per illustrare questo dispositivo, Leibniz fornisce l’esempio di come
comprendiamo il suono di un’onda. Spiega che abbiamo una percezione
infinitesimale dei milioni di goccioline d’acqua che colpiscono il nervo
uditivo, senza che siamo in grado di percepire il suono di ogni goccia
d’acqua. È solo a un secondo livello, nella dimensione dei corpi
organizzati, che possiamo costruire l’immagine sonora di un’onda. Ciò significa
che solo una piccola parte di ciò che percepiamo della base materiale diventa
un’appercezione, per poi partecipare ai fenomeni di coscienza.
La questione
centrale è quindi capire quando e perché emerge un’appercezione. Ciò è
determinato innanzitutto dall’organismo che percepisce: un mammifero e un
insetto non produrranno ovviamente la stessa immagine appercettiva di un’onda.
Nel caso degli animali sociali e in particolare degli umani, l’appercezione è
anche condizionata dalla cultura e dagli strumenti tecnici con cui
interagiscono. Gli ultrasuoni sono un buon esempio di come funzionano questi
raccordi. A differenza di alcuni mammiferi, gli umani non percepiscono queste
frequenze sonore senza articolare il loro sistema percettivo con macchine che
permettono di fare emergere una nuova dimensione appercettiva.
Inoltre, se
il livello appercettivo partecipa alla singolarità che designa l’unità
organica, non deve comunque essere considerato come la specificità di un
individuo o il risultato di una soggettività individuale. Una singolarità può
essere composta da un gruppo di individui, per giunta di natura molto diversa
(animale, vegetale o persino un ecosistema), che partecipa alla produzione di
una superficie appercettiva comune. Lungi dall’essere una specie di
superorganismo che esisterebbe in sé, questa dimensione esiste in modo
distributivo all’interno dei corpi che ne sono catturati. Ecco come è
influenzato ogni singolo corpo. I corpi partecipano alla creazione di questa
dimensione appercettiva comune, che a sua volta influenza e struttura i corpi. Correntemente
questa dimensione si manifesta nella forma di ciò che siamo abituati a chiamare
senso comune, che agisce socialmente come un’istanza reale di significato
condiviso.
Oggi
assistiamo a un evento storico e senza precedenti: per la prima volta, tutta
l’umanità produce un’immagine della minaccia. Questa immagine non si riduce a
una conoscenza scientifica dei fatti che hanno portato alla comparsa e alla
diffusione del virus. Ciò che è profondamente in gioco è l’emergere di
un’esperienza condivisa della fragilità dei sistemi ecologici, che è stata
finora negata e schiacciata dagli interessi macroeconomici del neoliberismo.
La
particolarità di questa appercezione comune sta nella cornice del suo emergere.
Paradossalmente non è la pericolosità intrinseca della pandemia che la sta
causando, ma piuttosto il sistema disciplinare che la accompagna. È questo
dispositivo e non la minaccia in sé che ci mette in una nuova situazione.
Ovviamente non lo possiamo comprendere valutandolo dall’angolatura della sola dimensione
sanitaria. È questa trappola che porta alcuni a lanciarsi in sommarie
contabilità macabre per contestare il carattere inedito della crisi,
paragonandola ad altri flagelli.
Di fronte a
questa nuova situazione, vediamo emergere due interpretazioni opposte. Da un
lato, chi afferma che questo è un fatto molto grave, per il quale dovrebbe
essere trovata una soluzione sotto forma di un vaccino o di un farmaco. In
questa comprensione della crisi evidentemente non si mette in discussione il
paradigma del pensiero e dell’agire dominanti. D’altra parte, un’altra
interpretazione, a cui desideriamo contribuire, consiste nel vedere in questa
rottura un evento autentico che sfida irreversibilmente l’ideologia
produttivista fino a ora
egemonica. Il coronavirus è per noi il nome di questo punto critico che segna
anche, almeno speriamo, un punto di non ritorno a partire dal quale il nostro
rapporto con il mondo e il posto degli umani negli ecosistemi devono essere
profondamente messi in questione.
3. Un’esperienza
del comune
Se facciamo
lo sforzo, nonostante l’orrore della situazione, di non rinunciare al pensiero,
è possibile scorgere l’unica cosa che questa crisi ci permette di sperimentare
positivamente: la realtà dei legami che ci costituiscono. Anche in questo caso, tuttavia,
occorre evitare qualsiasi visione ingenua. Di fronte alla propria interiorità,
ciascuno di noi è diverso. E quando la frenesia della vita quotidiana non
permette più di auto-evitarci, alcuni di noi si rendono conto che hanno dei
pessimi legami con se stessi e, in modo marginale, con il loro ambiente. A
porte chiuse, il vero inferno è spesso con se stessi. Un odio per se stessi che
finisce sempre per trasformarsi in un inferno per gli altri.
Da quando
siamo confinati, ci siamo resi conto che siamo esseri territorializzati,
incapaci di vivere esclusivamente in modo virtuale, mettendo da parte ogni
elemento di corporeità. Milioni di individui fanno oggi l’esperienza nei loro
corpi che la vita non è qualcosa di strettamente personale. Le virtù tanto
lodate del mondo della comunicazione e dei suoi strumenti si rivelano del tutto
impotenti a farci uscire dall’isolamento. Nella migliore delle ipotesi riescono
a mantenere l’illusione di riunire i separati in quanto separati.
Nel bel
mezzo della crisi abbiamo acquisito almeno una certezza: nessuno si salva da
solo. Con riluttanza, i nostri contemporanei sperimentano la fragilità
dei legami che ci obbligano finalmente a superare l’illusione dell’individuo
autonomo e serializzato. Capiamo che non si tratta di essere forti o deboli,
“vincenti” o “perdenti”, ma che esistiamo, tutte e tutti, attraverso questa
fragilità che ci permette di provare la nostra appartenenza al comune.
La vita
individuale e la vita sociale ci appaiono finalmente come due facce della
stessa medaglia. Obbligati all’isolamento, scopriamo di essere attraversati da
molteplici legami che non corrispondono affatto al disegno thatcheriano secondo
il quale “non c’è società” ma solo individui.
È il
desiderio del comune (desiderio della vita) e non la minaccia, che ci permette
di agire in questa situazione. In questo movimento di ribaltamento, i nostri
punti di riferimento abituali si invertono: non si tratta più solo di me stesso
e della mia vita individuale. Ciò che conta ora è in che cosa questa vita viene
inserita, il tessuto attraverso il quale acquisisce senso.
In questo
momento in cui i legami sono ridotti alla pura virtualità comunicativa, ci
sembra fondamentale pensare i limiti di questa astrazione. Pensare a ciò che
non è sperimentabile tramite Skype o qualsiasi social network. Insomma, pensare a tutto ciò che
costituisce in fondo la singolarità propria dei nostri corpi e delle loro
esperienze.
4. Contro il
biopotere
La finestra
non si è solo aperta su nuove possibilità positive. L’esperienza che viviamo
offre al biopotere un terreno di sperimentazione senza precedenti: la
possibilità di disciplinare e controllare le popolazioni di interi paesi e
continenti.
È sempre
sorprendente (e allo stesso tempo inquietante) osservare con quale rapidità gli
individui si lascino disciplinare quando la bandiera della sopravvivenza viene
agitata.
Riconosciamo
allo stesso tempo che vi è qualcosa di tragicomico nel constatare che la
geolocalizzazione degli individui supponga che questi non nutrano l’idea
terribile e perversa di lasciare semplicemente i loro smartphone sui comodini
da notte.
La servitù
volontaria è al suo apice quando il braccialetto elettronico del prigioniero
diventa un telefono acquistato a caro prezzo.
Questa
esperienza inedita di controllo sociale potrà allora servire come prova generale.
È facile immaginare che in futuro non sarà difficile invocare l’emergenza di
nuove minacce per giustificare tali pratiche di sorveglianza. In questo
contesto la questione se siamo o no in guerra con il virus non è solo un
dibattito retorico. Primo, perché ha implicazioni giuridiche concrete. In
secondo luogo, perché ci fornisce un’indicazione di come questa crisi possa
generare pratiche autoritarie durature. Non siamo in guerra. Questa visione
virile e di conquista è essa stessa parte del problema. Stiamo subendo le
conseguenze di un regime economico e sociale aberrante e mortifero. Diffidiamo
di questi discorsi marziali e dei rulli di tamburo che precedono sempre il
sacrificio del popolo. Il nostro obiettivo non è vincere una battaglia,
ma assumere la fragilità del mondo, cambiando radicalmente il modo in cui lo
abitiamo. Altrimenti una volta terminata la pandemia, il potere non
esiterà, con i suoi toni da maresciallo vittorioso, ad arruolare la popolazione
in nome della causa della patria economica.
Ci verrà poi
detto che non è più il momento di pensare o protestare per i cambiamenti
sociali strutturali (miglioramenti, ad esempio, nei sistemi sanitari).
Qualsiasi richiesta di giustizia sociale passerà quindi per un tradimento della
patria, perché sarà venuto il momento di dedicarsi al sacro compito:
ripristinare l’economia e la crescita.
La storia
ufficiale ci dirà innanzitutto che abbiamo vissuto, affrontato e vinto uno
sfortunato incidente imprevedibile. Ci spiegherà poi che è necessario raddoppiare i
nostri sforzi per superare la resistenza della natura all’onnipotenza umana.
Ora, quello che in modo irresponsabile chiameranno un incidente era in realtà
così imprevedibile che biologi ed epidemiologi l’avevano previsto da
venticinque anni. Tra i molteplici vettori all’origine delle malattie
emergenti e riemergenti, si sa che la distruzione dei meccanismi di
regolazione metabolica degli ecosistemi, legata in particolare alla
deforestazione, svolge un ruolo preponderante. Inoltre, l’urbanizzazione
selvaggia e la costante pressione delle attività umane sugli ambienti naturali
favoriscono situazioni di promiscuità inedita tra le specie.
Qualunque
sia la reazione dei governi, una cosa è certa: una nuova dimensione
appercettiva, vale a dire una nuova immagine del disastro ecologico è emersa ed
è incorporata nel senso comune. Il dispositivo secondo il quale l’essere umano
era il soggetto che doveva imporsi come padrone e possessore della natura ci
appare sotto il suo vero volto da incubo.
5. Pensare e
agire nella situazione presente
Come
scriveva Proust, “i fatti non penetrano mai il mondo in cui vivono le nostre
convinzioni”. Non esistono fatti “neutri” che esprimono un significato in sé.
Tutto esiste solo in un insieme interpretativo che gli conferisce senso e validità.
La scienza
si occupa dei fatti e allo stesso tempo costruisce il proprio racconto
interpretativo. Contrariamente a quanto sostiene lo scientismo, l’attività
scientifica non consiste nel produrre semplici aggregati di fatti nudi. Il racconto attraverso il quale la
scienza ordina i fatti emerge da un’interazione con altre dimensioni che sono,
tra le altre, l’arte, le lotte sociali, l’immaginario affettivo e più in
generale l’esperienza vissuta. Tutte dimensioni che partecipano alla produzione
del senso comune.
Di fronte
alla complessità del mondo, la tentazione reazionaria ci invita a delegare il
nostro potere di agire ai tecnocrati, quando non direttamente alle macchine
algoritmiche. In questa visione oligarchica, gli scienziati sanno, i politici
seguono e il buon popolo obbedisce. Ora, esiste un rapporto molto più conflittuale tra
il pensiero critico e il senso comune, che non possiamo contrapporre. Il ruolo
del pensiero strutturato non è certamente quello di ordinare e disciplinare il
senso comune, ma piuttosto quello di aggiungere dimensioni di significato che
possano diventare poi maggioritarie ed egemoniche. Per questo ogni progetto di
emancipazione, lungi dal rappresentare la rivelazione di una scena nascosta di
verità, è sempre una creazione libera di una nuova soggettività.
La fantasia
di proiettarsi nella grande festa che seguirà il giorno della liberazione
implica, nella sua comprensibile ingenuità, l’oblio dei processi che ci hanno
portato alla situazione attuale. Eppure, questi processi non si ritireranno un
giorno come un esercito sconfitto. Questi elementi continueranno a imperversare
in varie forme. È necessario che questa crisi non si concluda tra gli
applausi scroscianti per una guerra vinta. Questo evento storico ci apre la
porta all’appercezione comune dei vincoli di fragilità che costituiscono il
nostro mondo.
Non sappiamo
cosa ci aspetti e non abbiamo alcuna pretesa di prevederlo. Sappiamo, tuttavia,
che le forze reazionarie di tutto il pianeta saranno pronte a trarre profitto
dal disorientamento in cui saremo ancora immersi. Così, nel cuore di questa
situazione oscura e minacciosa, dobbiamo assumere questa realtà, non attendendo
saggiamente che “andrà tutto bene”, ma preparando già qui le condizioni e i
legami che ci permettano di resistere all’avanzata del biopotere e del
controllo.
Questa
situazione di crisi non deve indurci ad aumentare la delega delle nostre
responsabilità. Si sarà visto che i “grandi di questo mondo” (questi nani
morali), parlando di guerra, vogliono ancora una volta fare di noi, le loro
risorse umane, “carne da cannone”. Solo una chiara opposizione al mondo
neoliberista della finanza e del puro profitto, solo una rivendicazione dei
corpi reali non sottomessi al puro virtuale del mondo algoritmico possono oggi
essere i nostri obiettivi.
Come in ogni
situazione complessa, dobbiamo convivere con un non-sapere strutturale che non
è ignoranza, ma un’esigenza per lo sviluppo di ogni conoscenza. Non si
tratta quindi di pensare al giorno che verrà, vivendo il presente come una
semplice parentesi. La nostra vita si svolge oggi. Ecco perché
questo piccolo manifesto è un appello a quelle e quelli che desiderano
immaginare, pensare e agire in e per il nostro presente.
Pour le Collectif
Malgré Tout France: Miguel Benasayag, Bastien Cany,
Angélique Del Rey, Teodoro Cohen. Per il Collettivo Malgrado
Tutto Italia: Roberta Padovano, Mary Nicotra.
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