Non chiamiamole migrazioni: questo è un esodo
(intervista di Maria Antonietta Calabrò a Paul
Collier)
«L’immigrazione? Si tratta di una questione troppo
seria per lasciare le cose come stanno», afferma Paul Collier. E per cominciare
a capire basta prendere in mano il suo ultimo libro: Exodus. I tabù dell’immigrazione (Laterza).
Dimensioni bibliche insomma, e non come modo di dire, per un fenomeno che viene
affrontato con dati e ricerche globali per consentire — si augura Collier — che
«il dibattito sulle politiche migratorie superi le posizioni ostentatamente polarizzate
ed esasperate di oggi».
Per Collier è stata una settimana molto impegnativa:
una conferenza a Parigi, poi ha raggiunto Dacca (la capitale del Bangladesh),
infine due conferenze in Svizzera, a Zurigo e Ginevra; per poi rientrare a
Oxford dove insegna Economia e Politica pubblica alla Blavatnik School of
Government ed è condirettore del Centre for the Study of African Economies.
Nelle pause ha accettato di spiegare a «la Lettura» che cosa sia in realtà
questo spostamento in massa di popolazioni da una parte all’altra del pianeta.
E soprattutto quale sia la sua effettiva portata. Numeri impensabili anche per
noi italiani, che pure abbiamo fatto fronte, nell’ultimo anno, a oltre 100 mila
arrivi sulle nostre coste, con il Mediterraneo che è diventato una bara
d’acqua.
Numeri impensabili perché Collier dice chiaramente che
quasi il 40% della popolazione dei Paesi poveri, se potesse, vorrebbe lasciare
la propria terra per raggiungere le nazioni ricche. E 40% significa che si
tratta non più di milioni, ma di centinaia di milioni, forse di miliardi di
persone che si trovano nella situazione di essere costrette a partire. Inoltre
— aggiunge — la spinta a migrare durerà non anni, ma decenni. Perché la
differenza di reddito da una parte all’altra del mondo è semplicemente
«mostruosa».
Per 5 anni (dal 1998 al 2003) Paul Collier ha lavorato
come direttore del dipartimento di ricerca sullo sviluppo della Banca mondiale,
e come adviser del dipartimento di strategia e politica
del Fondo monetario e del dipartimento per l’Africa della stessa Banca
mondiale. Ha collaborato con il «New York Times», il «Financial Times», il
«Wall Street Journal» e il «Washington Post».
Professore, lei ha individuato «fatti concreti che
hanno conseguenze devastanti». Ciò significa che siamo soltanto all’inizio di
questo fenomeno?
«Non bisogna farsi prendere dal panico, ma penso che le pressioni per le migrazioni tenderanno ad accelerare nell’arco dei prossimi due decenni, perché ci sono due motori potenti che spingono a emigrare. Innanzitutto il divario di reddito tra Paesi ricchi e Paesi poveri, divario che non diminuirà per molto tempo. Ed è semplicemente qualcosa che definisco mostruoso. Poi la diaspora dei migranti che sono già arrivati da noi e che costituiscono un ponte per gli altri, e questo ponte è in costante aumento».
«Non bisogna farsi prendere dal panico, ma penso che le pressioni per le migrazioni tenderanno ad accelerare nell’arco dei prossimi due decenni, perché ci sono due motori potenti che spingono a emigrare. Innanzitutto il divario di reddito tra Paesi ricchi e Paesi poveri, divario che non diminuirà per molto tempo. Ed è semplicemente qualcosa che definisco mostruoso. Poi la diaspora dei migranti che sono già arrivati da noi e che costituiscono un ponte per gli altri, e questo ponte è in costante aumento».
Perché parla di «Exodus»?
«L’evidenza della ricerca suggerisce che molte persone nelle società povere, forse il 40%, affermano che vorrebbero emigrare verso i Paesi ricchi, se questo fosse possibile. Se si trovasse nella loro stessa situazione, lo farebbe anche lei».
«L’evidenza della ricerca suggerisce che molte persone nelle società povere, forse il 40%, affermano che vorrebbero emigrare verso i Paesi ricchi, se questo fosse possibile. Se si trovasse nella loro stessa situazione, lo farebbe anche lei».
Dunque lei è convinto che questo fenomeno abbia
dimensioni davvero epocali?
«Quello che c’è di epocale è la disuguaglianza. Il desiderio di migrare è una risposta naturale, razionale, alla diseguaglianza».
«Quello che c’è di epocale è la disuguaglianza. Il desiderio di migrare è una risposta naturale, razionale, alla diseguaglianza».
Le migrazioni internazionali di massa sono una
reazione all’estrema diseguaglianza globale?
«È così».
«È così».
Perché? I Paesi poveri sono sempre più poveri?
«No, la maggioranza dei Paesi poveri sta facendo progressi, ma il divario è così ampio con noi Paesi ricchi che ci vorranno decenni».
«No, la maggioranza dei Paesi poveri sta facendo progressi, ma il divario è così ampio con noi Paesi ricchi che ci vorranno decenni».
Così lei ritiene che dobbiamo ripensare le politiche
migratorie? In quale modo concreto?
«Sì, penso che dovremo farlo. Abbiamo bisogno di gestire le migrazioni in modo da non sottrarre ai Paesi poveri le persone più brillanti e più ricche di energia. Perché altrimenti anche la migrazione in se stessa contribuirà a crearne ancora, a prolungare ulteriormente la durata del fenomeno. Il nostro interesse stretto sarebbe il contrario, cioè accogliere i più brillanti e i migliori; ma questo vorrebbe dire sottrarre talento da dove è più necessario. La cosa più utile che possiamo fare, invece, è quella di accogliere i giovani brillanti, addestrarli, lasciarli lavorare temporaneamente da noi, ma con l’accordo che poi dovrebbero tornare indietro per aiutare le loro società».
«Sì, penso che dovremo farlo. Abbiamo bisogno di gestire le migrazioni in modo da non sottrarre ai Paesi poveri le persone più brillanti e più ricche di energia. Perché altrimenti anche la migrazione in se stessa contribuirà a crearne ancora, a prolungare ulteriormente la durata del fenomeno. Il nostro interesse stretto sarebbe il contrario, cioè accogliere i più brillanti e i migliori; ma questo vorrebbe dire sottrarre talento da dove è più necessario. La cosa più utile che possiamo fare, invece, è quella di accogliere i giovani brillanti, addestrarli, lasciarli lavorare temporaneamente da noi, ma con l’accordo che poi dovrebbero tornare indietro per aiutare le loro società».
Fenomeni come l’estremismo e il fanatismo sono in
aumento. Pensa che il multiculturalismo abbia fallito?
«Noi non pensiamo mai a questo. Credo che l’integrazione sociale sia più preziosa di quanto fin qui compreso. Avere persone con culture radicalmente diverse dalla nostra va bene quando i numeri sono piccoli, ma produce tensioni quando questi numeri continuano a crescere».
«Noi non pensiamo mai a questo. Credo che l’integrazione sociale sia più preziosa di quanto fin qui compreso. Avere persone con culture radicalmente diverse dalla nostra va bene quando i numeri sono piccoli, ma produce tensioni quando questi numeri continuano a crescere».
I Paesi ad alto reddito diventeranno sempre più
multirazziali?
«Non a tempo indeterminato. No. Raggiungeremo un equilibrio della diversità in cui le diaspore di migranti presenti da noi si integreranno tanto velocemente quanto i nuovi migranti che arriveranno».
«Non a tempo indeterminato. No. Raggiungeremo un equilibrio della diversità in cui le diaspore di migranti presenti da noi si integreranno tanto velocemente quanto i nuovi migranti che arriveranno».
Da un lato, le élite politiche hanno a che fare con le
paure e i bisogni dei loro elettori; dall’altro con gli studi degli economisti.
Il risultato finora è una grande confusione. Come se ne esce?
«Penso che gli effetti economici dell’immigrazione sulla popolazione ospite siano così piccoli che non sono una buona base per decidere cosa fare».
«Penso che gli effetti economici dell’immigrazione sulla popolazione ospite siano così piccoli che non sono una buona base per decidere cosa fare».
Per favore, suggerisca due passi da fare in un Paese
come l’Italia, primo approdo in Europa del grande esodo.
«Primo: creare una politica di asilo più ragionevole che non dipenda dal fatto che qualcuno sia riuscito, con una buona dose di fortuna, a mettere un piede su una spiaggia di Lampedusa. Un sistema per cui gli immigrati che fanno domanda legalmente al di fuori dell’Ue abbiano una chance di entrare invece di pagare i trafficanti e rischiare di morire».
«Primo: creare una politica di asilo più ragionevole che non dipenda dal fatto che qualcuno sia riuscito, con una buona dose di fortuna, a mettere un piede su una spiaggia di Lampedusa. Un sistema per cui gli immigrati che fanno domanda legalmente al di fuori dell’Ue abbiano una chance di entrare invece di pagare i trafficanti e rischiare di morire».
Secondo?
«Incrementare i posti di formazione per i migranti, subordinando questa formazione a un ritorno nei Paesi d’origine dopo 5 anni».
«Incrementare i posti di formazione per i migranti, subordinando questa formazione a un ritorno nei Paesi d’origine dopo 5 anni».
PAUL COLLIER, IL NEMICO SNOB DELLA DIASPORA - Sandro Chignola
Ho molti
amici immigrati. Con alcune e con alcuni di loro ho condiviso pratiche di
ricerca e lotte politiche. Qualcuno di loro è finito in galera o è stato
espulso. Altri sono rimasti e contribuiscono attivamente a cambiare l’idea di
cittadinanza e il diritto del lavoro in questo paese. È perciò con un certo
fastidio che ho letto il libro di Paul Collier (Exodus. I tabù
dell’immigrazione, Laterza, pp. 287, € 24). Come è mio costume, l’ho
letto per intero. Un libro «imprescindibile per chiunque voglia approfondire»
lo spinoso tema delle migrazioni, strilla la copertina. E forse è davvero così.
Certo, non per le ragioni che esso direttamente esprime. Altri recensori dell’edizione
inglese – su tutti gli economisti Michael Clemens e Justin Sandefur per
“Foreign Affairs” (Let the people go, qui) – ne
hanno decostruito le pretese di scientificità, i circoli logici, l’uso
selettivo e tendenzioso, per quanto ammantato di asettica scientificità, delle
statistiche e della letteratura. Il libro di Sir Paul Collier, professore di
Economia e politiche pubbliche ad Oxford, esperto delle economie africane e
consulente del governo inglese, può essere letto come un sintomo dello
strabismo dell’economia e dell’ideologismo che orienta il definirsi dell’agenda
delle politiche migratorie, piuttosto.
Un modello prêt-à-porter
Collier
posiziona il suo libro nell’alveo del razionalismo critico e del realismo. Con
le «analisi accessibili e spassionate» in esso condotte, egli intenderebbe
«scuotere le posizioni polarizzate» che sclerotizzano il dibattito opponendo da
un lato l’ostilità ai migranti di xenofobi e razzisti e dall’altro gli
interessi delle «élite imprenditoriali e liberali» (ovvio che sia così: da un
lato il «comune cittadino» che subisce la pressione delle diaspore, dall’altro
il liberale stilizzato come uno snob) per le quali la «politica delle porte
aperte è un imperativo etico» in grado di continuare a garantire grandi
benefici. Il suo problema, dopo un’analisi svolta per molte pagine in cui a
quella che egli chiama, modellizzandola, l’«economia politica del panico» oppone
una politica delle quote in grado di filtrare i flussi migratori selezionando i
migranti in base a criteri di integrabilità e di skills, è di definire un «pacchetto» di misure
concretamente spendibile per governarli massimizzandone l’utilità tanto per i
paesi di accoglienza, quanto per quelli di provenienza, evitando così su di un
lato il collasso della cittadinanza multiculturale (cui egli riconosce, bontà
sua, di aver reso più «varie» e «vivaci» le culture dei paesi nei quali essa ha
trovato realizzazione) e sull’altro l’intensificarsi di processi di
spopolamento e di sottosviluppo.
Le migrazioni internazionali di massa sono una reazione all’estrema disuguaglianza mondiale, ci dice Collier. E questa disuguaglianza, che è aumentata nel corso degli ultimi due secoli, finirà nel prossimo, in nome di una teodicea del capitale, per il «globalizzarsi» della ricchezza e per il progressivo aggancio che i paesi poveri realizzeranno nei confronti dei paesi ad alto reddito (pp. 269-270). Si tratterebbe perciò di governare una fase transitoria, con il disincantato realismo di chi affronta l’immigrazione negli stessi termini del «riscaldamento globale» (l’analogia ricorre più volte nelle pagine finali del libro) e con il solare ottimismo di chi crede fermamente nei benefici del mercato. Una politica che restringa l’accesso dei migranti ai paesi ricchi – è piuttosto evidente che Collier solo questo problema veda – svolgerà la doppia funzione di garantire «l’interesse bene inteso» dei migranti e di rappresentare, questa la sua tesi fondamentale, un «atto compassionevole» nei confronti dei paesi e delle economie dalle quali essi provengono, permettendo altresì di mettere fuori corso tensioni e derive reazionarie nei paesi di accoglienza. Niente di meno.
Che la preoccupazione fondamentale del professore di Oxford sia la tenuta interna dei paesi ricchi ben più di quanto non lo sia lo sviluppo delle economie dell’«ultimo miliardo» oggetto più proprio dei suoi studi, lo dimostra la rappresentazione alquanto caricaturale del migrante che talvolta gli sfugge di sotto alla mole di dati selettivamente raccolti dalla più recente letteratura sulla sociologia delle migrazioni. Il migrante non soltanto è latore di una «cultura» cui resta rigorosamente identificato – quella stessa cultura che il «liberale benpensante» vorrebbe invece venisse riconosciuta e difesa — ma povertà e sottosviluppo del suo paese dipenderebbero per buona parte da essa. Sono le «culture – o le norme e le narrazioni – delle società povere, così come le loro istituzioni e organizzazioni», nel giudizio di Collier, «ad essere la principale causa della loro povertà» (p. 28). Il migrante tende a riprodurre la propria cultura — il nigeriano tenderà a comportarsi nel paese di accoglienza «in maniera diffidente e opportunistica» riproducendo il «codice morale» della propria società di partenza (p. 61) –, anche se nella sua scelta implicitamente si esprime un giudizio definitivo su di esso, poiché andandosene, «vota a favore del modello sociale dei paesi ad alto reddito». Ed è questo che conta: per Collier, «le migrazioni odierne non sono un viaggio alla ricerca di terre da coltivare, ma un viaggio alla ricerca di efficienza» (p. 44).
Le migrazioni internazionali di massa sono una reazione all’estrema disuguaglianza mondiale, ci dice Collier. E questa disuguaglianza, che è aumentata nel corso degli ultimi due secoli, finirà nel prossimo, in nome di una teodicea del capitale, per il «globalizzarsi» della ricchezza e per il progressivo aggancio che i paesi poveri realizzeranno nei confronti dei paesi ad alto reddito (pp. 269-270). Si tratterebbe perciò di governare una fase transitoria, con il disincantato realismo di chi affronta l’immigrazione negli stessi termini del «riscaldamento globale» (l’analogia ricorre più volte nelle pagine finali del libro) e con il solare ottimismo di chi crede fermamente nei benefici del mercato. Una politica che restringa l’accesso dei migranti ai paesi ricchi – è piuttosto evidente che Collier solo questo problema veda – svolgerà la doppia funzione di garantire «l’interesse bene inteso» dei migranti e di rappresentare, questa la sua tesi fondamentale, un «atto compassionevole» nei confronti dei paesi e delle economie dalle quali essi provengono, permettendo altresì di mettere fuori corso tensioni e derive reazionarie nei paesi di accoglienza. Niente di meno.
Che la preoccupazione fondamentale del professore di Oxford sia la tenuta interna dei paesi ricchi ben più di quanto non lo sia lo sviluppo delle economie dell’«ultimo miliardo» oggetto più proprio dei suoi studi, lo dimostra la rappresentazione alquanto caricaturale del migrante che talvolta gli sfugge di sotto alla mole di dati selettivamente raccolti dalla più recente letteratura sulla sociologia delle migrazioni. Il migrante non soltanto è latore di una «cultura» cui resta rigorosamente identificato – quella stessa cultura che il «liberale benpensante» vorrebbe invece venisse riconosciuta e difesa — ma povertà e sottosviluppo del suo paese dipenderebbero per buona parte da essa. Sono le «culture – o le norme e le narrazioni – delle società povere, così come le loro istituzioni e organizzazioni», nel giudizio di Collier, «ad essere la principale causa della loro povertà» (p. 28). Il migrante tende a riprodurre la propria cultura — il nigeriano tenderà a comportarsi nel paese di accoglienza «in maniera diffidente e opportunistica» riproducendo il «codice morale» della propria società di partenza (p. 61) –, anche se nella sua scelta implicitamente si esprime un giudizio definitivo su di esso, poiché andandosene, «vota a favore del modello sociale dei paesi ad alto reddito». Ed è questo che conta: per Collier, «le migrazioni odierne non sono un viaggio alla ricerca di terre da coltivare, ma un viaggio alla ricerca di efficienza» (p. 44).
Moralismo compassionevole
Di qui la
serie di conclusioni che affollano i capitoli del libro. Il migrante è un
soggetto che imprenditorialmente investe su di sé e che cerca di massimizzare
il suo self interest. Credendo di farlo, tuttavia, finisce
talvolta con il fraintenderlo. Accade ad esempio quando la vita da migrante si
fa pesante, lasciando trasparire un costo marginale negativo nel saldo tra un
salario più alto e i «costi psicologici» della migrazione. Quello che appare al
migrante un investimento può rivelarsi invece un errore. Altri hanno avuto modo
di sottolineare come seguendo questa illuminata logica economica, lo stress
delle donne che lavorano avrebbe dovuto consigliare loro (e a tutte le altre)
di restare a casa e di preferire per la loro vita una comoda logica patriarcale
del focolare e degli affetti. È il moralismo compassionevole con cui Collier
guarda ai migranti e ai loro paesi di provenienza ciò che ancor più da
fastidio. Almeno a me; non certo a chi ha ritenuto di tradurre e di far
circolare in Italia, all’epoca del governo Renzi, un libro come questo, con il
suo stile tecnocratico, progressista, centrista, anche se trasudante
rappresentazioni arcaiche della migrazione e dei suoi soggetti: metafore
climatiche, problemi sociali trattati in termini di pressioni e di tensioni
demografiche (sui paesi ricchi, perché le migrazioni minano le coesioni
«nazionali»; sui paesi poveri, portati a spopolarsi e a diventare «deserti»:
«se l’Angola diventasse una propaggine della Cina o l’Inghilterra una
propaggine del Bangladesh» — suppongo sia quest’ultima la preoccupazione
principale del professore oxoniense — «si tratterebbe di una terribile perdita
culturale per il mondo intero» (p. 245), egli ha modo di scrivere), «nazioni»
pensate come oggetto di «identificazione emotiva» e dunque come «potentissimi
fattori di equità».
«Le politiche pubbliche sono tenute a tener conto degli effetti che i migranti trascurano» (p. 248). È questo il punto di partenza e di arrivo. La scelta di migrare è un «atto privato» solitamente compiuto dal migrante stesso, talvolta con il contributo della famiglia.
«Le politiche pubbliche sono tenute a tener conto degli effetti che i migranti trascurano» (p. 248). È questo il punto di partenza e di arrivo. La scelta di migrare è un «atto privato» solitamente compiuto dal migrante stesso, talvolta con il contributo della famiglia.
Un quadro fosco
Eppure
questa scelta privata produce effetti tanto sulla società ospitante quanto su
quella di origine, dei quali il migrante non tiene conto. Su quella ospitante,
non già un abbassamento dei salari o una perdita di lavoro per gli autoctoni,
ma benefici minimi sulle finanze pubbliche – nonostante la massa di ricerche
che attestano come il lavoratore straniero, in genere giovane, versi molti
contributi e fruisca poco, ad esempio, dei sistemi sanitari nazionali,
permettendo invece che ne godano le popolazioni locali – ed effetti di
indebolimento del legame nazionale; su quella di partenza, un peggioramento
complessivo poiché a migrare sono per lo più i più istruiti e i più dotati, i
soggetti più disposti ad investire (prima di tutto su di sé) e coloro per i quali
gli investimenti sulla formazione – ricaduta positiva sulle società di
partenza, egli ci dice, proprio per la prospettiva migratoria che porta i
genitori a scegliere per i propri figli un’istruzione migliore e un accesso
alle lingue straniere – si traducono in una perdita secca. Perché mai impedire
la migrazione, oppure renderla più selettiva e difficile, dovrebbe far sì che i
cittadini stranieri «più dotati» possano esprimere le loro capacità producendo
effetti progressivi e di modernizzazione su società delle quali, con una
costante e sorprendente oscillazione, Collier sottolinea insistentemente la
corruzione e l’inefficienza, così come le straordinarie potenzialità, il libro
non ce lo dice.
È l’accelerazione dei flussi migratori determinata dalla crescita e dalla stabilizzazione delle diaspore l’ossessione – più che non il dato di analisi – che attraversa il libro. La facilità dei ricongiungimenti familiari e la truffa sul diritto di asilo, nel parere di Collier, permettono di abbattere rischi e costi della migrazione. Di qui, l’innesco di reazioni potenzialmente pericolose e fondamentalmente razziste nelle società di accoglienza. Non solo per la «pressione» degli immigrati, ma per l’incistarsi di gruppi – le diaspore, appunto, trattate in termini pesantemente culturali – non facilmente disposte a sciogliersi nel tessuto sociale delle democrazie avanzate.
Il «pacchetto» proposto da Collier per governare il problema cerca di comporre esigenze economiche e «compassione» per i migranti contestando il paradigma per il quale i flussi di migranti agiscono sempre in direzione di un incremento della ricchezza complessiva. Nei paesi di arrivo per l’enorme bacino di manodopera da essi fornito e per il volume delle rimesse (la World Bank le ha quantificate in oltre 400 miliardi di dollari) che i lavoratori inviano a casa. Si tratta di filtrare e di rallentare, non di impedire, i flussi di ingresso grazie a un meccanismo di quote programmate e di adottare quattro «criteri» che permettano di selezionare gli happy few ammissibili al permesso di soggiorno in base a «istruzione, occupabilità, origini culturali e vulnerabilità» (p. 258). E cioè: di far accedere uno stock di migranti immediatamente fungibili al mercato del lavoro dei paesi ricchi selezionato in base a criteri culturalisti di integrabilità e di corrispondenza alle esigenze delle loro economie.
È l’accelerazione dei flussi migratori determinata dalla crescita e dalla stabilizzazione delle diaspore l’ossessione – più che non il dato di analisi – che attraversa il libro. La facilità dei ricongiungimenti familiari e la truffa sul diritto di asilo, nel parere di Collier, permettono di abbattere rischi e costi della migrazione. Di qui, l’innesco di reazioni potenzialmente pericolose e fondamentalmente razziste nelle società di accoglienza. Non solo per la «pressione» degli immigrati, ma per l’incistarsi di gruppi – le diaspore, appunto, trattate in termini pesantemente culturali – non facilmente disposte a sciogliersi nel tessuto sociale delle democrazie avanzate.
Il «pacchetto» proposto da Collier per governare il problema cerca di comporre esigenze economiche e «compassione» per i migranti contestando il paradigma per il quale i flussi di migranti agiscono sempre in direzione di un incremento della ricchezza complessiva. Nei paesi di arrivo per l’enorme bacino di manodopera da essi fornito e per il volume delle rimesse (la World Bank le ha quantificate in oltre 400 miliardi di dollari) che i lavoratori inviano a casa. Si tratta di filtrare e di rallentare, non di impedire, i flussi di ingresso grazie a un meccanismo di quote programmate e di adottare quattro «criteri» che permettano di selezionare gli happy few ammissibili al permesso di soggiorno in base a «istruzione, occupabilità, origini culturali e vulnerabilità» (p. 258). E cioè: di far accedere uno stock di migranti immediatamente fungibili al mercato del lavoro dei paesi ricchi selezionato in base a criteri culturalisti di integrabilità e di corrispondenza alle esigenze delle loro economie.
La feroce logica delle quote
Collier
arriva a sostenere che «un ulteriore requisito di ingresso» possa essere
direttamente affidato al giudizio di «conformità» delle aziende che intendono
assumere i migranti (p. 260) e il suo liberalismo «compassionevole» arriva ad
ammettere sì il diritto d’asilo, ma spingendo per la sua riforma in senso
restrittivo dato il costante «abuso» che di esso verrebbe fatto. Sua ipotesi
conclusiva: i benefici economici sono prodotti dalla migrazione professionale;
i costi sociali dalla diaspora non integrata. Che il costo dell’integrazione
sia la riproposizione, sotto accademiche spoglie, del modello del lavoratore
ospite degli anni Cinquanta del secolo ventesimo aggiornato alle esigenze del
capitale globale, non sembra un’idea tale da giustificare l’operazione
editoriale di Laterza. Certo, il libro venderà e troverà ascolto tra i
consiglieri del governo del Patto del Nazareno. E il professor Collier potrà
continuare a prendere il the a Oxford senza che un eccessivo odore di cucina
bengalese finisca con l’infastidirlo.
questo articolo è stato pubblicato sul manifesto del
12 marzo 2015 col titolo “Il nemico snob della diaspora”
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