venerdì 10 aprile 2020

Eddi, «sorvegliata speciale», resiste per tutte e tutti noi - Davide Grasso



Alla vigilia dell’anniversario della morte in battaglia di Lorenzo Orsetti, caduto con l’uniforme delle Unità di protezione del popolo curde (Ypg) mentre affrontava gli ultimi miliziani dello Stato islamico, la sezione per le Misure di prevenzione del Tribunale di Torino ha decretato che la sua compagna in quelle battaglie, Maria Edgarda Marcucci, detta Eddi, è «socialmente pericolosa», confinandola alla misura restrittiva della sorveglianza speciale. Si era arruolata nel 2017 nell’esercito gemello delle Ypg di Lorenzo, le Unità di protezione delle donne (Ypj), e si erano trovati alla prima esperienza sullo stesso fronte, ad Afrin, nella provincia di Aleppo, nella proibitiva difesa di un cantone invaso da ventimila miliziani jihadisti sostenuti da terra e dal cielo dalla Turchia.
Contrariamente alle sezioni ordinarie dei tribunali, la sezione di prevenzione non commina sentenze sulla base di accuse e non accerta fatti accaduti nel passato, vagliando la loro tipologia in raffronto con ciò che prevede il codice penale. Al contrario, suo compito inquietante e paradossale è analizzare la personalità degli individui «proposti» (per questo non «imputati») dalla polizia e formulare pronostici sui loro futuri comportamenti. La «sorveglianza speciale» è il confino nel proprio o in un altro comune (il tribunale, per Eddi, ha optato per il primo caso), con obbligo quotidiano di rientro presso l’abitazione (dalle 21 alle 7 per Eddi), divieto di avvicinarsi ad assembramenti e locali tra le 18 e le 21 e proibizione assoluta a partecipare «a pubbliche riunioni».
Eddi non era l’unica proposta per questa scandalosa misura. Eravamo anzi in sei – cinque a Torino e uno in Sardegna, tutti ex volontari nelle forze curde contro l’Isis in Medio oriente. Se tutti noi siamo stati sollevati da questa proposta, cosa fa di Eddi una persona – l’unica tra noi ad essere una donna – «specialmente» pericolosa?
Conosco Eddi da nove anni. La prima volta la incontrai a Chiomonte, in Val Susa, nei mesi delle più intense mobilitazioni contro l’occupazione militare patita dalla valle nel 2011, per imporre un cantiere dell’Alta velocità Torino-Lione che nessuno, lì, vuole. È romana, veniva all’epoca dall’esperienza del Teatro Valle occupato, ma studiava a Torino da un paio d’anni filosofia, come me. Nel corso del tempo il suo impegno politico è aumentato fino a che, nel 2017, ha deciso di partire per il Rojava, la regione curda della Siria in guerra contro l’Isis.
Dal 2012 in quella regione la sinistra curda aveva portato avanti una rivoluzione socialista: circostanza che, a scuola e all’università, ci avevano spiegato per anni non essere pensabile in questo secolo. Cosa significa «socialista»? Non c’entra niente , si badi, con Craxi e simili tristezze. Per le donne curde significa ciò che significava originariamente, ossia rafforzare i legami sociali e proteggerli, in contrasto con il capitalismo, che li affievolisce e li distrugge mettendo le persone e i popoli gli uni contro gli altri.
Queste erano le idee che io e Eddi condividevamo fin dal 2011 in Val Susa, ed anche prima. Nonostante la causa No Tav sia stata prima criminalizzata come una sorta di orgia di violenza insensata, e poi ridotta a una specie di patema dei Cinque Stelle, essa affonda le sue radici in una concezione avanzata dei rapporti tra le persone e con la natura, emersa tra cittadine e cittadini vittime di decenni di soprusi economici e urbanistici. Le somiglianze tra i valori e le priorità, e l’idea di comunità e solidarietà, condivisi tra il movimento No Tav e il movimento confederalista del Kurdistan sono molte e decisive, ferma restando l’incolmabile differenza di scala e di contesto. Non a caso entrambi i movimenti contestano questo modello di società, sostenendo che non è in grado di assicurare la salute, la sicurezza e la libertà delle persone e che occorre costruire altre relazioni economiche, di lavoro e di genere, altrimenti le asprezze e i drammi inutili di questa epoca – ad esempio non riuscire a garantire una cura per la polmonite a centinaia di anziani e non solo – non si risolveranno, ma andranno a peggiorare.
Tornata dalla Siria Eddi ha proseguito con un’attività politica di sostegno ai senzatetto, agli altri lavoratori precari (lei stessa lo è), alle donne che subiscono violenze. Sarebbe impossibile sintetizzare le attività che ha svolto, gettandosi anima e corpo anche nel movimento delle donne Non Una di Meno, che tanto importante è stato a livello nazionale e mondiale negli ultimi anni. Nessuno, nella società italiana, ha mai patito qualcosa per le azioni di Eddi. Ciò che la società italiana ha semmai patito, e patisce, sono proprio paradossalmente le storture del sistema che lei ha denunciato senza sosta, e che in questi giorni – negli ospedali, o tra le persone prive di vere alternative alla sospensione del reddito da lavoro – esibiscono nel modo più crudo le proprie conseguenze.
Agire contro e in critica verso questo sistema è stato, da parte di Paolo, Jacopo e Eddi, totalmente in linea con quanto da loro appreso in Siria, e in particolare all’interno del movimento confederale. Questa è una circostanza che ha particolarmente allarmato il pubblico ministero che ha proposto per noi cinque la misura, Emanuela Pedrotta: noi internazionalisti siamo espressione, ha detto giustamente, di una possibilità di opposizione, organizzazione e pensiero critico che va al di là dei confini nazionali. È possibile anche affermare che gli sforzi di Paolo, Jacopo e Eddi siano di fatto aumentati una volta tornati, nel tentativo di mettere a disposizione in vari ambiti i frutti della loro esperienza e il loro stesso entusiasmo, nonostante le esperienze vissute in Siria non fossero state affatto facili. Hanno anche svolto un’attività inestimabile di informazione sulla Siria, Paolo ha anche scritto un libro, che esce in questi giorni: Resistenza e rivoluzione in Rojava. Diario di guerra e di vita (Zero in condotta).
La polizia ha accusato i tre di comportamenti illegali o aggressivi praticamente in qualsiasi occasione in cui avessero svolto un’attività politica al loro ritorno, non esitando a coprirsi di ridicolo: dall’aperitivo musicale per un amico cuoco che non veniva pagato al tradizionale corteo torinese del primo maggio, dove si diceva che Eddi e Jacopo non avevano commesso violenza alcuna, e però erano stati fotografati «in pose aggressive».
Come insegna la fiaba del lupo e dell’agnello, se si vuole accusare qualcuno di qualcosa in qualche modo ci si riesce; eppure, nonostante le pressioni della polizia e della procura, e l’atteggiamento ostativo dei giudici nei confronti della difesa, nessuna di queste occasioni è stata sufficientemente rilevante per affibbiare la sorveglianza; ma con un «però» che è stato decisivo. I giudici Giorgio Gianetti (presidente del collegio), Daniela Colpo e Luciana Dughetti hanno fatto notare che l’attivismo di Eddi non è cessato neanche durante la procedura di prevenzione. Si sono concentrati in particolare su un episodio: un’iniziativa contro l’invasione turca del Rojava del 25 novembre 2019. È questo episodio che secondo loro, in sostanza, la rende diversa da tutti noi, perché dimostra che la minaccia di sorveglianza speciale «non ha avuto alcun significativo effetto deterrente sulla condotta della proposta», perché avvenuto «dopo l’inizio della trattazione del presente procedimento».
Leggiamo dal decreto la descrizione dell’episodio incriminato: «Verso le ore 15 del pomeriggio un gruppo di dodici persone si introduceva all’interno dello stabile in Via Carlo Alberto 16, sede di alcuni uffici della Camera di Commercio, occupando l’ufficio del Segretario generale per più di venti minuti; qui giunti i manifestanti esponevano uno striscione bianco contenente la frase “Nessun commercio con la Turchia assassina! Erdogan terrorista/No Aerospace&Defence Meeting/ No alla vendita di armi/ No governi complici/ Riseup4Rojava”. Seduta al tavolo delle riunioni si accomodava la Marcucci, che aveva con sé un megafono; la medesima, giunta in una delle stanze e nell’androne principale, scollegava poi la spina che alimentava due monitor sui quali si stavano proiettando filmati dell’evento “Piemonte is Aerospace”. In precedenza, si badi, la proposta, all’interno del palazzo degli affari della Camera di Commercio sito in Via S. Francesco da Paola, dove inizialmente i manifestanti si erano recati, aveva già esposto, arringando gli astanti con un megafono, l’intenzione del gruppo, e cioè l’opposizione alla manifestazione che avrebbe avuto luogo i giorni successivi all’Oval Lingotto relativa ai rapporti fra Italia e Turchia e “quindi, di fatto, alla compravendita di armi”. All’uscita la proposta proferiva la frase “torneremo a chiedere spiegazioni”».
Questa è – nel dettato del decreto, che non esprime necessariamente altre, più implicite, motivazioni politiche (o di genere?) – la differenza tra Eddi e noi quattro. Aver esposto uno striscione dentro la Camera di commercio, uno degli sponsor dell’Aerospace&Defence Meeting, vergognosa kermesse tenutasi a Torino a fine novembre, in piena invasione turca del Rojava (trecentomila sfollati, migliaia di morti), con un panel espressamente dedicato alla condivisione di tecnologie militari tra Italia e Turchia.
Si badi che solo due settimane prima il ministro degli esteri Di Maio aveva annunciato che l’Italia avrebbe continuato a vendere armi a Erdogan, ma “solo” in base a contratti già esistenti: non ne sarebbero stati realizzati di nuovi (Chiara Cruciati sul Manifesto ha poi rivelato che il provvedimento è secretato, quindi non si ha nessuna prova di quanto affermato dal ministro a Cinque Stelle). In ogni caso ospitare quel panel a Torino era una vergogna, mentre le compagne di Eddi venivano bombardate proprio grazie a tecnologie italiane (informarsi per credere).
Per Emanuela Pedrotta, Giorgio Gianetti, Daniela Colpo e Luciana Dughetti la condotta «socialmente pericolosa» non è stata però quella della camera di commercio o del ministero degli esteri, complici, dati i loro commerci di tecnologie militari con la Turchia, di una sostituzione etnica, della violazione conclamata del diritto internazionale e di un massacro di civili e combattenti per la libertà. Socialmente pericolosa è Eddi che «si accomodava al tavolo delle riunioni», «aveva con sé un megafono», «scollegava la spina che alimentava due monitor sui quali si stavano proiettando filmati dell’evento Piemonte is Aerospace». Il problema è quindi l’incapacità di Eddi di restare a guardare il massacro fisico e politico delle donne con cui ha combattuto, voltando loro le spalle una volta tornata a casa. Il problema per la magistratura è la generosità, la decenza, la lealtà.
Inizi allora una lunga battaglia per difendere Eddi e darle ogni aiuto, perché possa continuare ad essere libera anche per tutti noi.

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