L’emergenza sanitaria in corso, come oramai tutti
sappiamo, avrà rilevanti conseguenze economiche e sociali il cui impatto
effettivo sulle vite di tutti quanti noi è ancora molto difficile da prevedere.
I temi legati all’emergenza e agli scenari economici
prossimi venturi, come è lecito e naturale che sia, stanno occupando uno spazio
totalizzante nel dibattito pubblico e privato.
Tuttavia, non è mia intenzione unirmi ai tanti,
tantissimi (forse troppi) che in queste settimane, con gradi diversi di
autorevolezza e successo, hanno scelto di cimentarsi in una complessa analisi
di scenario, in una disamina più o meno puntuale delle cause e in una analisi
predittiva più o meno attendibile degli effetti che quanto abbiamo vissuto e
stiamo vivendo porta con sé.
La riflessione che vorrei portare, sfidando la vostra
indulgenza, un po’ in controtendenza rispetto gli attuali trend topic, è legata
alla crisi non come situazione emergenziale contingente ma alla crisi intesa come
concetto, nella sua dialettica con il cambiamento, con le nostre vite, con le
nostre scelte, con il nostro futuro.
Dal mio osservatorio privilegiato posto a Serramanna,
paese del Campidano, in Sardegna, in quella che le statistiche definiscono una
tra le province più povere d’Italia, la crisi non rappresenta un evento
straordinario frutto dell’imponderabile. Vista da qui, la crisi, non ha le
sembianze di un cigno nero piuttosto quelle di un branco di elefanti nella
stanza.
Il concetto di crisi, infatti, ha accompagnato la nostra
intera esistenza, rappresentando una sorta di costante esistenziale collettiva,
una scura e beffarda compagna di viaggio, una malattia cronica con la quale,
nostro malgrado, abbiamo dovuto abituarci a convivere.
Mio nonno, uomo orgoglioso e grande lavoratore, quando i
media annunciavano l’ennesima crisi era solito dire: “no ci crettasta fillu
miu, po su poberu sa crisi c’est sempri stettia de candu si esistidi su mundu”
(non credere a quello che dicono figliolo, per il povero la crisi c’è sempre
stata, da quando esiste il mondo).
Forse, nella sua crudele, lucida, semplicità, aveva
davvero ragione.
Dacché ho ricordo, ma certamente ben prima della mia
nascita, la crisi è sempre stata lì, ad animare i discorsi, le preoccupazioni,
gli affanni di chi mi stava vicino, a limitare le loro aspirazioni, a guidare
le loro scelte, a dominare i loro pensieri e di riflesso, con il passare degli
anni, ad insinuarsi anche nei miei e in quelli dei miei coetanei.
Il commercio è in crisi, l’agricoltura è in crisi,
l’industria è in crisi, le famiglie sono in crisi, le comunità sono in crisi, i
comuni sono in crisi, le regioni sono in crisi, gli Stati sono in crisi, crisi
economiche, sanitarie, ambientali, demografiche, civili, morali…ad ogni crisi
seguiva un’emergenza, e ad ogni emergenza seguiva un’altra crisi che portava
con sé un’altra emergenza, come in un moto perpetuo.
Ogni ambito dell’esistente e dell’esistenza sembra
permeato da questa scura coltre che inibisce lo sguardo, che impedisce ai più
di vedere e quindi di costruire il futuro, che sembra costringerci,
perennemente in affanno, piegati dal peso crescente del presente, a vivere
incatenati alla spietata precarietà di una emergenza senza fine.
Facciamo insieme un esercizio di memoria. Prendiamo in
considerazione solo gli ultimi cinquant’anni, andando a soffermarci, per dovere
di sintesi, solo agli shock economici globali di livello sistemico: dallo shock
petrolifero del 73 e 79, alla crisi dei prestiti “Save & Loans”del 1984,
dell’attacco alla lira dei primi anni ‘90, alla bolla del .com del 2000, dalla
crisi economico-finanziaria del 2008 a quella dei debiti sovrani del 2012 fino
a quella in corso legata alla pandemia di COVID-19 che rischia di essere il
peggior shock economico per il pianeta dai tempi della grande depressione. Se a
questa lista (per quanto nutrita decisamente parziale) aggiungiamo, solo nel
corso degli ultimi 35 anni, ben 96 crisi bancarie e 176 crisi monetarie
(Bernard Lietaer, 2010) potremmo affermare, senza correre il rischio di essere
smentiti, che l’attuale paradigma economico produce “crisi” in maniera
sistematica di intensità e frequenza crescenti.
A questo punto sorge davvero spontaneo chiedersi, ma
quindi, quando è cominciata la crisi? È davvero possibile individuare un tempo
zero? Un momento preciso a partire dal quale la crisi è iniziata?
Come ci ricorda Gramsci la crisi non rappresenta mai un
evento bensì uno svolgimento. Si potrebbe pertanto affermare che della crisi
non può esistere una data di inizio, ma, al massimo, solo alcune
“manifestazioni”, più o meno evidenti, che convenzionalmente vengono
individuate come l’inizio della stessa. Tuttavia, a dire il vero, anche in
questo caso, non si tratterebbe d’altro che dell’intensificazione quantitativa
di elementi non nuovi e non originali e la riduzione e/o la sparizione di altri
sui quali i primi hanno avuto il sopravvento. La crisi pertanto non è
nient’altro che l’emergere, il manifestarsi di uno stato di cose già presente,
non il realizzarsi di una possibilità ma la presa di coscienza di una realtà
già in atto.
Anche per quanto riguarda questa emergenza sanitaria, la
diffusione del virus non ha fatto altro che far emergere gli elementi che erano
già lì, limitandosi a mettere in evidenza i deficit, la fragilità e l’incapacità
di resilienza del sistema.
Il taglio della spesa pubblica per la sanità,
l’arretratezza tecnologica della scuola, la mancanza di coordinamento
stato-regioni, la rigidità dei trattati europei, l’assurdità dell’austerity, le
difficoltà di accesso al credito delle PMI, la riduzione delle tutele per i
lavoratori, il peso eccessivo della fiscalità sulle imprese, la mancanza di
investimenti strutturali, le spinte globalizzanti e la terziarizzazione della
nostra economia…potremmo continuare l’elenco per giorni. Ma il punto è un
altro. Il punto è che nessuno di questi elementi è nuovo e ha fatto la sua
comparsa per via del COVID-19, tutti questi elementi erano già lì, più o meno
latenti, come ordigni pronti ad essere innescati, pronti a esplodere.
Le domande che dovremmo porci pertanto non sono tanto:
quando sconfiggeremo il virus, quando supereremo lo shock economico o quando
torneremo alla normalità delle nostre vite pre-emergenza ma piuttosto quando, a
livello sistemico e di paradigma, riusciremo a creare le condizioni economiche,
politiche e sociali affinché questo tipo di eventi in futuro non debbano essere
gestiti nella patologia dell’emergenza bensì nella fisiologia di una sana
gestione della cosa pubblica, nell’interesse dei singoli e della collettività;
una gestione in cui i piani, le strutture, le risorse (economiche, umane e
tecnologiche), le persone siano già preparati e pronti ad affrontare questo
tipo di shock non solo in maniera resiliente ma, direbbe Taleb, in maniere
antifragile.
Pertanto, appurata la natura ricorsiva di questi shock,
dovremmo cominciare a chiedere a noi stessi e a chi ci governa: in che modo
sapremo prepararci per quelli a venire? In che modo saremo in grado di
coglierne le opportunità, di limitarne e relativizzarne i pericoli e le
minacce? In che modo saremo in grado di costruire una forte coscienza del noi,
tale da non perdere la nostra umanità vedendola naufragare in quell’assenza di
pensiero che secondo Heidegger domina l’umanità nell’era della tecnica, in quel
pensiero calcolante a cui una certa visione economicistica dell’esistente
vorrebbe ricondurre l’origine, il fine e il senso dell’azione umana.
πάντα ῥεῖ, tutto scorre. Il mondo in cui viviamo cambia
costantemente e noi con lui. Che ci piaccia o meno. Va da sé che, se davvero
vogliamo sperare di non essere colti completamente impreparati dai cambiamenti
in atto, dobbiamo prima di tutto smettere di rapportarci al presente in
funzione di categorie appartenenti al passato. Solo in questo modo potremo far
sì che il nostro tentativo di far luce sul percorso che ci condurrà fuori da
questa emergenza non si trasformi in un cono d’ombra che inibisce lo sguardo
sul lungo cammino che ancora dobbiamo percorrere.
Agire e non essere agiti sarà probabilmente il solo modo
per non ritrovarci ad essere, per dirla con Hegel, solo polvere sugli stivali
della storia.
Anche in questo caso la battaglia che ci troveremo a
combattere nella costruzione del mondo post emergenza non è tanto (o soltanto)
una sfida sanitaria, sociale e/o economica, ma piuttosto una battaglia che è
prima di tutto psicologica e culturale.
La crisi di per sé infatti non rappresenta il male da
curare ma il sintomo stesso di quel male.
La resistenza al cambiamento è una reazione naturale in
molti individui, nulla più che la manifestazione di come l’essere umano tenda
ad agire al fine di conservare una omeostasi generale, a preservare la propria
cosiddetta “area di comfort”. Non sempre l’area di comfort è davvero
confortevole ed il suo prolungarsi nel tempo è desiderabile, ciò nonostante,
nel momento in cui, anche per via di un evento traumatico, vedi la crisi, ci
troviamo a doverne uscire, per la maggior parte di noi la resistenza è
fortissima. Tutti vorremmo tornare ad una normalità che di normale non aveva
proprio nulla o peggio ancora, per la paura indotta dai media e
dall’incertezza, stiamo trasformando questa assurda privazione della libertà
nella nostra nuova “area di comfort”.
Per concludere.
Gramsci scriveva: “la crisi è quando il vecchio muore e
il nuovo non può nascere”.
Nel corso degli anni, crisi dopo crisi, ho passato molto tempo a riflettere su questa affermazione, a chiedermi cosa impedisse veramente al nuovo di nascere.
Nel corso degli anni, crisi dopo crisi, ho passato molto tempo a riflettere su questa affermazione, a chiedermi cosa impedisse veramente al nuovo di nascere.
Il fatto che non riuscissi a darmi una risposta
probabilmente derivava dalla mia incapacità di interpretare le categorie di
vecchio e nuovo. Per tanti anni ho continuato a leggere le due categorie come
la lotta tra un potere morente e uno nascente. Dalla prospettiva di un
ventenne, il vecchio, non poteva che rappresentare l’oppressione del passato
sul presente, della gerontocrazia sulla giovinezza, del reazionario sul
cambiamento, e, allo stesso modo, il nuovo non poteva che incarnare la
sconfitta del vecchio, la fine dell’oppressione, il sorgere di un paradigma
nuovo e illuminato, il manifestarsi del rinnovamento, un passo avanti verso la
costruzione di un mondo migliore.
Oggi, alle soglie dei quarant’anni, ho maturato la convinzione
che questa celebre affermazione gramsciana, probabilmente, non avesse proprio
nulla a che vedere con una qualsivoglia lotta per il potere, con un’ermeneutica
qualitativa, con un approccio morale alle categorie di vecchio e di nuovo. Con
il tempo mi sono persuaso che Gramsci intendesse semplicemente rappresentare la
crisi come un momento di sospensione, come un punto di equilibrio tra due forze
contrapposte, come un istante, più o meno prolungato, in cui la resistenza al
cambiamento e la necessità di quest’ultimo si equivalgono creando una impasse.
Davanti all’ennesima crisi, mi sento di dire che non
necessariamente il nuovo sarà migliore del vecchio o rappresenterà un passo in
avanti nel cammino dell’umanità, l’unica cosa di cui siamo certi, ancora una
volta, è che sarà differente. Per questa ragione sono convinto che, data
l’ineluttabilità del cambiamento, tra l’opporci invano allo scorrere della
corrente o il subirlo passivamente, noi tutti dovremmo scegliere, senza
esitazione, di esserne parte attiva e di agire il cambiamento invece di esserne
agiti.
Non scordiamo infatti che la parola crisi non a caso
deriva dal greco κρίσις,“scelta, decisione”, ed quello che come singoli e come
collettività dovremmo iniziare a fare: scegliere. Scegliere di non subire il
cambiamento, scegliere di occuparci del futuro, perché il futuro lo si
costruisce nel presente, attraverso le decisioni che prendiamo, giorno per
giorno, perché il futuro appartiene alle generazioni che verranno e come ci
insegna la tragedia greca, i figli sono condannati a pagare gli errori dei
propri padri.
Per cui, per quanto non avremo mai in mano tutte le
risposte di cui abbiamo bisogno, potremmo almeno cominciare con il non porci le
domande sbagliate.
Come disse qualcuno più vecchio e più saggio di me: “per
noi uomini la via che conduce a ciò che è vicino risulta essere sempre la più
lunga e quindi la più difficile da percorrere”. La buona notizia, pertanto, è
che, forse, le risposte che cerchiamo si trovano già vicino a noi, tanto vicino
che ancora non ce ne siamo neppure accorti.
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