mercoledì 1 aprile 2020

«È colpa di quelli come te se c’è il contagio!». Abusi in divisa e strategia del capro espiatorio nei giorni del coronavirus - Pietro De Vivo*




(con una postilla di Luca Casarotti **)

Fino a venerdì 20 marzo, prima dell’annuncio della chiusura di tutte le attività produttive, ho continuato ad andare al lavoro, ovviamente rispettando tutte le precauzioni: abito sulla stessa strada dell’ufficio – a pochi numeri civici di distanza –, nei pochi metri che faccio a piedi non incontro nessuno, e in sede in quei giorni eravamo solo in due e ci tenevamo a distanza. Gli altri lavoravano già da remoto, veniva solo uno dei miei soci, che come me abita molto vicino e non vedeva praticamente nessun altro oltre al sottoscritto.
Era ancora consentito dai decreti (il telelavoro era solo consigliato, non obbligatorio), e oltre a dover usare per forza macchine e software dell’ufficio, trovavo che andare in sede fosse anche una buona pratica: per separare il tempo del lavoro da quello del non lavoro, per prendere un po’ d’aria, vedere un po’ di luce, e scambiare due chiacchiere col mio collega. Vivendo solo con il mio coinquilino, in una casa molto piccola anche per due persone, rischio di impazzire.
Ma ciò che a Roma di solito è un’enorme fortuna – abitare vicino a dove si lavora –, in tempi di quarantena e con le occasioni per camminare ridotte al minimo era diventato una prigione. Avevo preso allora l’abitudine, dopo aver staccato, di fare un giro largo per rincasare. Niente di che, neanche cinquecento metri, praticamente il periplo dell’isolato.
Per noi in questi giorni paradossalmente il lavoro è più del solito, perché ci stiamo sbattendo per cercare in ogni modo di evitare pesanti danni economici alla casa editrice per via della chiusura delle librerie. Quindi spesso ho staccato tardi, tra le 18 e le 20. A quell’ora per strada non c’era quasi nessuno ed era facilissimo rispettare le distanze di sicurezza.
Venerdì ero andato via particolarmente tardi, dopo le 20, e avevo iniziato il mio giro per rincasare. A metà strada, meno di duecento metri da casa, sono stato fermato da uno dei militari che presidiano da anni la zona della movida del quartiere. Mi ha chiesto dove stessi andando e ovviamente gli ho risposto che stavo tornando a casa. Ne è seguita una sfilza di domande tra cui da dove provenissi, che lavoro facessi, dove abitassi, se avessi l’autocertificazione (che non avevo, sapendo che il modulo può essere compilato anche durante il fermo), i documenti, ecc.
Quando gli ho detto dove abitavo mi ha chiesto perché stessi andando nella direzione opposta (avrei svoltato al successivo incrocio per girare intorno all’isolato e tornare indietro) e quando gli ho risposto che approfittavo per fare due passi mentre tornavo a casa, mi ha subito detto che è vietato passeggiare. Da notare: gli avevo risposto che facevo due passi per tornare a casa dal lavoro, lui invece ha subito tirato fuori l’infausta parola su cui si stanno incrostando le peggiori criminalizzazioni: «passeggiata».
Io ovviamente non ci son stato, gli ho detto che non è vietato passeggiare, ma che comunque stavo tornando a casa, ero in prossimità della mia abitazione, e che quindi era tutto consentito. Lui ha iniziato a insistere con toni sgradevoli e ad arrabbiarsi, fino a quando non sono arrivati gli altri cinque che con lui presidiavano la zona. Mi sono ritrovato letteralmente accerchiato, tra l’altro in un assembramento di persone che non rispettavano la distanza di sicurezza né tra me né tra loro.
Hanno prima iniziato a turno a insistere con la storia del divieto assoluto di uscire di casa, poi quando gli ho mostrato dal cellulare il testo del decreto del 9 marzo, smentendoli, hanno cambiato strategia, iniziando a farmi la morale e a colpevolizzarmi elencando tutti i frame tossici di questi giorni: «Se tutti facessero due passi le strade sarebbero affollate», «È colpa di quelli come te se c’è il contagio e la sanità è al limite», «Sei un irresponsabile». Per poi passare a insultarmi: «Noi vorremmo stare a casa e invece dobbiamo stare dietro ai deficienti come te che a casa non ci stanno e diffondono il contagio», «Rischiamo la vita per voi stronzi», e altro che non ripeto.
Inutile spiegargli che io, a casa, ci stavo proprio andando, provenendo dal lavoro, e che ero in prossimità della mia abitazione. Non hanno voluto sentire ragioni, non mi hanno lasciato andare, tirando fuori anche una bizzarra teoria per cui le misure prevedono obbligatoriamente che in caso di spostamento, anche necessario, si debba fare il tragitto più breve dal punto A al punto B e che allungare anche solo di cinquanta metri è vietato.
Ma ovviamente la cosa che li infastidiva di più, oltre il fare due passi, era l’orario. È stato vano spiegargli che se avevo staccato dopo le 20, e i miei legittimi dieci minuti d’ossigeno li stavo prendendo a quell’ora, rischiavo ancora meno di contagiare qualcuno perché la strada era deserta. Ragionavano come se ci fosse il coprifuoco e io lo stessi infrangendo.
Siccome insistevo a dire che non stavo facendo niente di illecito, hanno chiamato i carabinieri per farmi denunciare. Sottolineo: non hanno detto che avrebbero chiamato le forze dell’ordine per controllare e, in caso, denunciare; hanno esplicitamente detto che le avrebbero chiamate per farmi denunciare. Non so perché abbiano chiamato i carabinieri e non la polizia, e ovviamente non so cosa si sono detti ma ho pochi dubbi che la versione fosse di parte per indisporli preventivamente.
Tra la discussione con loro e l’attesa dei carabinieri sono passati più di tre quarti d’ora. Nel frattempo i militari hanno, nell’ordine:
■ fermato un senzatetto che camminava barcollando;
■ fermato un tipo di colore dando per scontato che spacciasse, per poi dirmi: «Vedi, se esci di casa è pericoloso, puoi trovare lui», e quando ho risposto: «Ma lui che c’entra?» mi hanno detto: «Non è razzismo, è che potete contagiarvi», con una excusatio non petita, accusatio manifesta che rivela una coda di paglia lunghissima;
■ guardato male tutti quelli che passavano col cane: «Questi cani sono diventati magrissimi a furia di uscire così spesso»;
■ obbligato una di due signore sudamericane che erano uscite col cane a tornare a casa perché lo si può portare a spasso solo da soli, anche se le signore vivevano palesemente insieme, essendo uscite dallo stesso portone, quindi comunque a contatto tutto il giorno;
■ infine,  parlato male di chi va a correre: «Tutti atleti ora!».
Queste ultime cose a conferma che per loro non si trattava di rispettare o meno le misure, cosa è permesso e cosa no, ma di obbligare le persone a stare barricate in casa in spregio di ogni diritto.
Poi è arrivata la volante coi due carabinieri che sono scesi rivolgendosi subito ai militari, ignorando le mie parole, per rivolgersi solo dopo a me, e subito con toni minacciosi, insultando e urlando. La discussione con loro è stata dello stesso tenore di quella già avuta coi militari, solo che sono stati addirittura ancora più minacciosi, gridando, e ponendosi a distanza ancora più ravvicinata, l’atteggiamento di chi ti urla letteralmente in faccia, e meno male che bisogna evitare il contagio. Oltre ad attribuirmi la colpa delle morti di questi giorni hanno concluso urlando: «Non devi uscire e basta. Devi stare chiuso in casa quaranta giorni!». E hanno iniziato a compilare la denuncia.
Mentre i carabinieri scrivevano uno dei militari mi ha detto: «Hai visto? Se stavi zitto e chiedevi scusa andava tutto bene, hai voluto rispondere e fare storie? Così impari». Confessando di aver chiamato i carabinieri per denunciarmi non perché stessi infrangendo qualcosa, bensì perché avevo osato controbattere. Gli ho risposto che quindi non ero nel torto, non mi denunciavano per un illecito, mi stavano semplicemente facendo i dispetti. Lui ovviamente ha reagito male.
Intanto i carabinieri avevano finito di compilare la denuncia, e anche un’autocertificazione in cui è scritto che alle 20:15 uscivo dal lavoro in via xxx per recarmi al domicilio in via yyy e che stavo passeggiando per tornare a casa. Tra l’altro, mi hanno impedito di compilarla da solo, lo hanno fatto loro e mi hanno obbligato a firmarla. Nell’ora e luogo del controllo c’è scritto «21:15», che in realtà è l’orario di quando hanno finito di redigere la denuncia, mentre i militari mi avevano fermato almeno un’ora prima. Scritto quindi apposta in quel modo per far sembrare che stessi camminando da un’ora. Hanno anche ovviamente specificato l’indirizzo presso il quale sono stato fermato, che dovrebbe dimostrare che per tornare a casa stavo facendo un giro troppo lungo. Dopo avermi fatto firmare la denuncia, mi hanno lasciato andare senza lesinare ovviamente un altro po’ di urla insultanti.
Non mi preoccupa la denuncia, sono abbastanza convinto che sarà archiviata. E comunque ci sono tutti gli estremi per contestarla, visto che stavo tornando a casa (cosa permessa) dopo essere stato al lavoro (cosa in quel momento ancora permessa) e mi trovato in prossimità della mia abitazione.
Non sono preoccupato, ma sono arrabbiato, nervoso e angosciato. Non è la prima volta che mi capita di discutere con le forze dell’ordine, ma essere accerchiato da sei soldati con mitra, e poi ricevere urla in faccia da due carabinieri, è stata una brutta scena. Non ho mai temuto per la mia incolumità fisica, ma sto temendo seriamente per l’incolumità della mia libertà. Mi è sembrata una scena da dittatura militare o da regime fascista, non è stato per niente piacevole e non lo nascondo.
Senza contare la totale inutilità di tutto ciò per la prevenzione del contagio. Ancora fino a quel giorno – venerdì 20 marzo – se fossi stato uno degli operai costretti a lavorare in fabbrica avrei dovuto attraversare mezza città per tornare a casa, in qualsiasi momento del giorno, in fasce orarie in cui avrei probabilmente incontrato molta più gente, dopo essere stato a contatto con decine o centinaia di persone sul posto di lavoro, ma quello sarebbe andato bene.
Quest’episodio – oltre a racchiudere incredibilmente in un colpo solo tutte le assurdità di queste settimane – ha del kafkiano: dal come sono stato fermato a come si è svolta la vicenda, dalle motivazioni fallaci addotte dai militari all’ignorare quanto affermavo decreto alla mano, dai frame tossici con cui mi hanno buttato insulti addossa alla loro violenza – per fortuna per ora solo – verbale. Fino, soprattutto, all’assurdità dell’essere denunciato perché stavo facendo due passi intorno all’isolato per tornare a casa dal lavoro – ma in realtà, come dichiarato da loro stessi, perché non avevo sopportato in silenzio che abusassero arbitrariamente del loro potere.

Pietro De Vivo è editor di narrativa e saggistica per le edizioni Alegre, amministratore del canale Telegram della casa editrice e vicedirettore della collana Quinto Tipo diretta da Wu Ming 1. Quando trova il tempo scrive di libri su Il lavoro culturale.


Postilla - Luca Casarotti
Per quanto ho potuto leggere e ascoltare finora, non c’è giurista che non critichi la decretazione emergenziale dell’ultimo mese. Sono stati avanzati forti dubbi sulla sua costituzionalità; il che significa, nella nostra lingua eufemistica e brachilogica: i recenti decreti della presidenza del consiglio dei ministri (dpcm) sono incostituzionali, e solo l’opportunità politica li potrà salvare dall’essere dichiarati tali. Così com’è unanime l’opinione che sia stato edificato un impianto sanzionatorio estremamente fragile, che si sgretolerà a emergenza finita. Le denunce verranno archiviate in blocco. Forse arriverà qualche condanna simbolica, perché non si dica che tutta l’operazione s’è risolta in un nulla di fatto.
Premessa questa critica unanime, non sono unanimi le conseguenze che se ne traggono, specialmente rispetto al ruolo assegnato nell’emergenza al diritto penale. C’è chi ritiene che si dovrebbero trasferire in una legge o in un atto con la forza della legge – decreto legislativo o decreto legge –, e poi per legge sanzionare penalmente, i divieti introdotti dai dpcm. Sarebbe così rispettato almeno il principio di legalità, quello secondo cui nessuno può essere punito se non in forza di una legge entrata in vigore prima del fatto commesso (art. 25, comma II, della costituzione).
Attenzione, però. Anche ammesso che ci sia la volontà politica di farlo, per risolvere il problema non basterebbe prendere i divieti così come sono ora e copiarli tali e quali in una legge o atto equiparato. Oltre a quello di legalità, ci sono altri principi costituzionali che una norma incriminatrice deve rispettare. Penso soprattutto al principio di offensività, in base al quale un reato può punire soltanto comportamenti che offendono un bene giuridico (vale a dire un aspetto della vita materiale che il diritto ritiene meritevole di essere tutelato), e a quello di sussidiarietà, per cui il diritto penale deve intervenire solo nei casi in cui non sia possibile alcuna altra forma di sanzione del comportamento illecito. Principi che i divieti stabiliti nelle ordinanze ministeriali e nei dpcm emanati a partire dal 23 febbraio scorso non rispetterebbero nemmeno se venissero previsti dalla legge.
Insomma, per essere per lo meno conformi alla costituzione, quei divieti dovrebbero essere profondamente ripensati. Ciò che il governo, arrivato a questo punto, non può permettersi di fare: non può permettersi di ripensare alcunché, ma non può nemmeno permettersi di trasferire l’esistente in una legge. Sarebbe come ammettere di aver del tutto sbagliato a gestire l’epidemia, dopo oltre un mese dal suo inizio. Sarebbe come dire d’aver scelto strumenti inidonei.
C’è poi un’altra posizione, che chiamerei «utilitaristica» o «del male minore». Quella di chi ritiene che in fondo sia preferibile tollerare questi divieti mal formulati, invece di correre il rischio di ritrovarsi con norme incriminatrici scritte con tutti i crismi. Si sa che questi divieti non porteranno davvero a condanne su vasta scala. Meglio allora denunce infondate oggi, che condanne fondate domani. Intanto però è necessario rappresentare la minaccia di una sanzione penale, che è la strada più efficace per ottenere obbedienza ai divieti.
Ma per essere coerente, chi sostiene questa posizione deve essere anche disponibile ad affermare che quanto raccontato da Pietro non abbia niente di scandaloso. E che sopporterebbe un trattamento simile anche in prima persona, non solo quando tocca agli altri: è una prospettiva che dovrebbe atterrire.
La minaccia d’una sanzione penale, per quanto solo simbolica essa possa essere, implica come esito necessario e molto concreto la mobilitazione dell’apparato repressivo dello stato, che quella minaccia ha il compito di tradurre in pratica.
Più è ampio lo spettro dei comportamenti minacciati di sanzione, più è ampio lo spazio d’intervento dell’apparato repressivo.
E più è ampio lo spazio d’intervento dell’apparato repressivo, più chi ne fa parte si sente investito d’autorità e libertà d’azione.
Più a lungo si protrae il tempo in cui ciò accade, più quest’intervento viene normalizzato.
E più quest’intervento viene normalizzato, più i confini dell’emergenza si dilatano fino a non potersi distinguere da ciò che emergenza non è.
Se si accettano tutte queste implicazioni logiche della premessa di partenza, l’argomento «utilitaristico» o «del male minore» diventa «argomento del piano inclinato»: inclinato verso cosa, lo dice Pietro in chiusura della sua testimonianza.
Se non se ne accettano le implicazioni logiche, allora si dovrebbe, sempre per coerenza, rifiutare anche la premessa.

** Luca Casarotti è un giurista. Fa parte del gruppo di lavoro Nicoletta Bourbaki e fornisce consulenza legale alla Wu Ming Foundation. Scrive di uso politico del diritto penale e di antifascismo, principalmente su Giap e su Jacobin Italia. Ha una seconda identità di pianista e critico musicale.


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