(con una
postilla di Luca Casarotti **)
Fino a
venerdì 20 marzo, prima dell’annuncio della chiusura di tutte le attività
produttive, ho continuato ad andare al lavoro, ovviamente rispettando tutte le
precauzioni: abito sulla stessa strada dell’ufficio – a pochi numeri civici di
distanza –, nei pochi metri che faccio a piedi non incontro nessuno, e in sede
in quei giorni eravamo solo in due e ci tenevamo a distanza. Gli altri
lavoravano già da remoto, veniva solo uno dei miei soci, che come me abita
molto vicino e non vedeva praticamente nessun altro oltre al sottoscritto.
Era ancora
consentito dai decreti (il telelavoro era solo consigliato, non obbligatorio),
e oltre a dover usare per forza macchine e software dell’ufficio, trovavo che
andare in sede fosse anche una buona pratica: per separare il tempo del lavoro
da quello del non lavoro, per prendere un po’ d’aria, vedere un po’ di luce, e
scambiare due chiacchiere col mio collega. Vivendo solo con il mio coinquilino,
in una casa molto piccola anche per due persone, rischio di impazzire.
Ma ciò che a
Roma di solito è un’enorme fortuna – abitare vicino a dove si lavora –, in
tempi di quarantena e con le occasioni per camminare ridotte al minimo era
diventato una prigione. Avevo preso allora l’abitudine, dopo aver staccato, di
fare un giro largo per rincasare. Niente di che, neanche cinquecento metri,
praticamente il periplo dell’isolato.
Per noi in
questi giorni paradossalmente il lavoro è più del solito, perché ci stiamo
sbattendo per cercare in ogni modo di evitare pesanti danni economici alla casa
editrice per via della chiusura delle librerie. Quindi spesso ho staccato
tardi, tra le 18 e le 20. A quell’ora per strada non c’era quasi nessuno ed era
facilissimo rispettare le distanze di sicurezza.
Venerdì ero
andato via particolarmente tardi, dopo le 20, e avevo iniziato il mio giro per
rincasare. A metà strada, meno di duecento metri da casa, sono stato fermato da
uno dei militari che presidiano da anni la zona della movida del quartiere. Mi
ha chiesto dove stessi andando e ovviamente gli ho risposto che stavo tornando
a casa. Ne è seguita una sfilza di domande tra cui da dove provenissi, che
lavoro facessi, dove abitassi, se avessi l’autocertificazione (che non avevo,
sapendo che il modulo può essere compilato anche durante il fermo), i documenti,
ecc.
Quando gli
ho detto dove abitavo mi ha chiesto perché stessi andando nella direzione
opposta (avrei svoltato al successivo incrocio per girare intorno all’isolato e
tornare indietro) e quando gli ho risposto che approfittavo per fare due passi
mentre tornavo a casa, mi ha subito detto che è vietato passeggiare. Da notare:
gli avevo risposto che facevo due passi per tornare a casa dal lavoro, lui
invece ha subito tirato fuori l’infausta parola su cui si stanno incrostando le peggiori criminalizzazioni:
«passeggiata».
Io
ovviamente non ci son stato, gli ho detto che non è vietato passeggiare, ma che
comunque stavo tornando a casa, ero in prossimità della mia abitazione, e che
quindi era tutto consentito. Lui ha iniziato a insistere con toni sgradevoli e
ad arrabbiarsi, fino a quando non sono arrivati gli altri cinque che con lui
presidiavano la zona. Mi sono ritrovato letteralmente accerchiato, tra l’altro
in un assembramento di persone che non rispettavano la distanza di sicurezza né
tra me né tra loro.
Hanno prima
iniziato a turno a insistere con la storia del divieto assoluto di uscire di
casa, poi quando gli ho mostrato dal cellulare il testo del decreto del 9 marzo,
smentendoli, hanno cambiato strategia, iniziando a farmi la morale e a
colpevolizzarmi elencando tutti i frame tossici di questi giorni: «Se tutti
facessero due passi le strade sarebbero affollate», «È colpa di quelli come te
se c’è il contagio e la sanità è al limite», «Sei un irresponsabile». Per poi
passare a insultarmi: «Noi vorremmo stare a casa e invece dobbiamo stare dietro
ai deficienti come te che a casa non ci stanno e diffondono il contagio»,
«Rischiamo la vita per voi stronzi», e altro che non ripeto.
Inutile
spiegargli che io, a casa, ci stavo proprio andando, provenendo dal lavoro, e
che ero in prossimità della mia abitazione. Non hanno voluto sentire ragioni,
non mi hanno lasciato andare, tirando fuori anche una bizzarra teoria per cui
le misure prevedono obbligatoriamente che in caso di spostamento, anche
necessario, si debba fare il tragitto più breve dal punto A al punto B e che
allungare anche solo di cinquanta metri è vietato.
Ma
ovviamente la cosa che li infastidiva di più, oltre il fare due passi, era
l’orario. È stato vano spiegargli che se avevo staccato dopo le 20, e i miei
legittimi dieci minuti d’ossigeno li stavo prendendo a quell’ora, rischiavo
ancora meno di contagiare qualcuno perché la strada era deserta. Ragionavano
come se ci fosse il coprifuoco e io lo stessi infrangendo.
Siccome
insistevo a dire che non stavo facendo niente di illecito, hanno chiamato i
carabinieri per farmi denunciare. Sottolineo: non hanno detto che avrebbero
chiamato le forze dell’ordine per controllare e, in caso, denunciare; hanno
esplicitamente detto che le avrebbero chiamate per farmi denunciare. Non so
perché abbiano chiamato i carabinieri e non la polizia, e ovviamente non so
cosa si sono detti ma ho pochi dubbi che la versione fosse di parte per indisporli
preventivamente.
Tra la
discussione con loro e l’attesa dei carabinieri sono passati più di tre quarti
d’ora. Nel frattempo i militari hanno, nell’ordine:
■ fermato un senzatetto che camminava barcollando;
■ fermato un tipo di colore dando per scontato che spacciasse, per poi dirmi: «Vedi, se esci di casa è pericoloso, puoi trovare lui», e quando ho risposto: «Ma lui che c’entra?» mi hanno detto: «Non è razzismo, è che potete contagiarvi», con una excusatio non petita, accusatio manifesta che rivela una coda di paglia lunghissima;
■ guardato male tutti quelli che passavano col cane: «Questi cani sono diventati magrissimi a furia di uscire così spesso»;
■ obbligato una di due signore sudamericane che erano uscite col cane a tornare a casa perché lo si può portare a spasso solo da soli, anche se le signore vivevano palesemente insieme, essendo uscite dallo stesso portone, quindi comunque a contatto tutto il giorno;
■ infine, parlato male di chi va a correre: «Tutti atleti ora!».
■ fermato un senzatetto che camminava barcollando;
■ fermato un tipo di colore dando per scontato che spacciasse, per poi dirmi: «Vedi, se esci di casa è pericoloso, puoi trovare lui», e quando ho risposto: «Ma lui che c’entra?» mi hanno detto: «Non è razzismo, è che potete contagiarvi», con una excusatio non petita, accusatio manifesta che rivela una coda di paglia lunghissima;
■ guardato male tutti quelli che passavano col cane: «Questi cani sono diventati magrissimi a furia di uscire così spesso»;
■ obbligato una di due signore sudamericane che erano uscite col cane a tornare a casa perché lo si può portare a spasso solo da soli, anche se le signore vivevano palesemente insieme, essendo uscite dallo stesso portone, quindi comunque a contatto tutto il giorno;
■ infine, parlato male di chi va a correre: «Tutti atleti ora!».
Queste
ultime cose a conferma che per loro non si trattava di rispettare o meno le
misure, cosa è permesso e cosa no, ma di obbligare le persone a stare barricate
in casa in spregio di ogni diritto.
Poi è
arrivata la volante coi due carabinieri che sono scesi rivolgendosi subito ai
militari, ignorando le mie parole, per rivolgersi solo dopo a me, e subito con
toni minacciosi, insultando e urlando. La discussione con loro è stata dello
stesso tenore di quella già avuta coi militari, solo che sono stati addirittura
ancora più minacciosi, gridando, e ponendosi a distanza ancora più ravvicinata,
l’atteggiamento di chi ti urla letteralmente in faccia, e meno male che bisogna
evitare il contagio. Oltre ad attribuirmi la colpa delle morti di questi giorni
hanno concluso urlando: «Non devi uscire e basta. Devi stare chiuso in casa
quaranta giorni!». E hanno iniziato a compilare la denuncia.
Mentre i
carabinieri scrivevano uno dei militari mi ha detto: «Hai visto? Se stavi zitto
e chiedevi scusa andava tutto bene, hai voluto rispondere e fare storie? Così
impari». Confessando di aver chiamato i carabinieri per denunciarmi non perché
stessi infrangendo qualcosa, bensì perché avevo osato controbattere. Gli ho
risposto che quindi non ero nel torto, non mi denunciavano per un illecito, mi
stavano semplicemente facendo i dispetti. Lui ovviamente ha reagito male.
Intanto i
carabinieri avevano finito di compilare la denuncia, e anche
un’autocertificazione in cui è scritto che alle 20:15 uscivo dal lavoro in via
xxx per recarmi al domicilio in via yyy e che stavo passeggiando per tornare a
casa. Tra l’altro, mi hanno impedito di compilarla da solo, lo hanno fatto loro
e mi hanno obbligato a firmarla. Nell’ora e luogo del controllo c’è scritto
«21:15», che in realtà è l’orario di quando hanno finito di redigere la
denuncia, mentre i militari mi avevano fermato almeno un’ora prima. Scritto
quindi apposta in quel modo per far sembrare che stessi camminando da un’ora.
Hanno anche ovviamente specificato l’indirizzo presso il quale sono stato
fermato, che dovrebbe dimostrare che per tornare a casa stavo facendo un giro
troppo lungo. Dopo avermi fatto firmare la denuncia, mi hanno lasciato andare
senza lesinare ovviamente un altro po’ di urla insultanti.
Non mi
preoccupa la denuncia, sono abbastanza convinto che sarà archiviata. E comunque
ci sono tutti gli estremi per contestarla, visto che stavo tornando a casa
(cosa permessa) dopo essere stato al lavoro (cosa in quel momento ancora
permessa) e mi trovato in prossimità della mia abitazione.
Non sono
preoccupato, ma sono arrabbiato, nervoso e angosciato. Non è la prima volta che
mi capita di discutere con le forze dell’ordine, ma essere accerchiato da sei
soldati con mitra, e poi ricevere urla in faccia da due carabinieri, è stata
una brutta scena. Non ho mai temuto per la mia incolumità fisica, ma sto
temendo seriamente per l’incolumità della mia libertà. Mi è sembrata una scena
da dittatura militare o da regime fascista, non è stato per niente piacevole e
non lo nascondo.
Senza
contare la totale inutilità di tutto ciò per la prevenzione del contagio.
Ancora fino a quel giorno – venerdì 20 marzo – se fossi stato uno degli operai
costretti a lavorare in fabbrica avrei dovuto attraversare mezza città per
tornare a casa, in qualsiasi momento del giorno, in fasce orarie in cui avrei
probabilmente incontrato molta più gente, dopo essere stato a contatto con
decine o centinaia di persone sul posto di lavoro, ma quello sarebbe andato
bene.
Quest’episodio
– oltre a racchiudere incredibilmente in un colpo solo tutte le assurdità di
queste settimane – ha del kafkiano: dal come sono stato fermato a come si è
svolta la vicenda, dalle motivazioni fallaci addotte dai militari all’ignorare
quanto affermavo decreto alla mano, dai frame tossici con cui mi hanno buttato
insulti addossa alla loro violenza – per fortuna per ora solo – verbale. Fino,
soprattutto, all’assurdità dell’essere denunciato perché stavo facendo due
passi intorno all’isolato per tornare a casa dal lavoro – ma in realtà, come
dichiarato da loro stessi, perché non avevo sopportato in silenzio che
abusassero arbitrariamente del loro potere.
* Pietro
De Vivo è editor di narrativa e saggistica per le edizioni
Alegre, amministratore del canale Telegram della casa editrice e
vicedirettore della collana Quinto Tipo diretta da Wu Ming 1.
Quando trova il tempo scrive di libri su Il lavoro culturale.
Postilla - Luca Casarotti
Per quanto
ho potuto leggere e ascoltare finora, non c’è giurista che non critichi la decretazione emergenziale dell’ultimo mese. Sono
stati avanzati forti dubbi sulla sua costituzionalità; il che significa, nella
nostra lingua eufemistica e brachilogica: i recenti decreti della presidenza
del consiglio dei ministri (dpcm) sono incostituzionali, e solo l’opportunità
politica li potrà salvare dall’essere dichiarati tali. Così com’è unanime
l’opinione che sia stato edificato un impianto sanzionatorio estremamente
fragile, che si sgretolerà a emergenza finita. Le denunce verranno archiviate in
blocco. Forse arriverà qualche condanna simbolica, perché non si dica che tutta
l’operazione s’è risolta in un nulla di fatto.
Premessa
questa critica unanime, non sono unanimi le conseguenze che se ne traggono,
specialmente rispetto al ruolo assegnato nell’emergenza al diritto penale. C’è
chi ritiene che si dovrebbero trasferire in una legge o in un atto con la forza
della legge – decreto legislativo o decreto legge –, e poi per legge sanzionare
penalmente, i divieti introdotti dai dpcm. Sarebbe così rispettato almeno il
principio di legalità, quello secondo cui nessuno può essere punito se non in
forza di una legge entrata in vigore prima del fatto commesso (art. 25, comma
II, della costituzione).
Attenzione,
però. Anche ammesso che ci sia la volontà politica di farlo, per risolvere il
problema non basterebbe prendere i divieti così come sono ora e copiarli tali e
quali in una legge o atto equiparato. Oltre a quello di legalità, ci sono altri principi costituzionali che una
norma incriminatrice deve rispettare. Penso soprattutto al principio di offensività, in base al quale un reato può punire
soltanto comportamenti che offendono un bene giuridico (vale a dire un aspetto
della vita materiale che il diritto ritiene meritevole di essere tutelato), e a
quello di sussidiarietà, per cui il diritto
penale deve intervenire solo nei casi in cui non sia possibile alcuna altra
forma di sanzione del comportamento illecito. Principi che i divieti stabiliti
nelle ordinanze ministeriali e nei dpcm emanati a partire dal 23 febbraio
scorso non rispetterebbero nemmeno se venissero previsti dalla legge.
Insomma, per
essere per lo meno conformi alla costituzione, quei divieti dovrebbero essere
profondamente ripensati. Ciò che il governo, arrivato a questo punto, non può
permettersi di fare: non può permettersi di ripensare alcunché, ma non può
nemmeno permettersi di trasferire l’esistente in una legge. Sarebbe come
ammettere di aver del tutto sbagliato a gestire l’epidemia, dopo oltre un mese
dal suo inizio. Sarebbe come dire d’aver scelto strumenti inidonei.
C’è poi
un’altra posizione, che chiamerei «utilitaristica» o «del male minore». Quella
di chi ritiene che in fondo sia preferibile tollerare questi divieti mal
formulati, invece di correre il rischio di ritrovarsi con norme incriminatrici
scritte con tutti i crismi. Si sa che questi divieti non porteranno davvero a
condanne su vasta scala. Meglio allora denunce infondate oggi, che condanne
fondate domani. Intanto però è necessario rappresentare la minaccia di una
sanzione penale, che è la strada più efficace per ottenere obbedienza ai
divieti.
Ma per
essere coerente, chi sostiene questa posizione deve essere anche disponibile ad
affermare che quanto raccontato da Pietro non abbia niente di scandaloso. E che
sopporterebbe un trattamento simile anche in prima persona, non solo quando
tocca agli altri: è una prospettiva che dovrebbe atterrire.
La minaccia
d’una sanzione penale, per quanto solo simbolica essa possa essere, implica
come esito necessario e molto concreto la mobilitazione dell’apparato
repressivo dello stato, che quella minaccia ha il compito di
tradurre in pratica.
Più è ampio lo spettro dei comportamenti minacciati di sanzione, più è ampio lo spazio d’intervento dell’apparato repressivo.
E più è ampio lo spazio d’intervento dell’apparato repressivo, più chi ne fa parte si sente investito d’autorità e libertà d’azione.
Più a lungo si protrae il tempo in cui ciò accade, più quest’intervento viene normalizzato.
E più quest’intervento viene normalizzato, più i confini dell’emergenza si dilatano fino a non potersi distinguere da ciò che emergenza non è.
Più è ampio lo spettro dei comportamenti minacciati di sanzione, più è ampio lo spazio d’intervento dell’apparato repressivo.
E più è ampio lo spazio d’intervento dell’apparato repressivo, più chi ne fa parte si sente investito d’autorità e libertà d’azione.
Più a lungo si protrae il tempo in cui ciò accade, più quest’intervento viene normalizzato.
E più quest’intervento viene normalizzato, più i confini dell’emergenza si dilatano fino a non potersi distinguere da ciò che emergenza non è.
Se si
accettano tutte queste implicazioni logiche della premessa di partenza,
l’argomento «utilitaristico» o «del male minore» diventa «argomento del piano
inclinato»: inclinato verso cosa, lo dice Pietro in chiusura della sua
testimonianza.
Se non se ne
accettano le implicazioni logiche, allora si dovrebbe, sempre per coerenza,
rifiutare anche la premessa.
** Luca Casarotti è un giurista. Fa
parte del gruppo di lavoro Nicoletta Bourbaki e fornisce consulenza legale alla
Wu Ming Foundation. Scrive di uso politico del diritto penale e di
antifascismo, principalmente su Giap e su Jacobin
Italia. Ha una seconda identità di pianista e critico musicale.
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