La lotta di
classe dietro la pandemia - Luca De Crescenzo
L'Organizzazione Mondiale della Sanità l’aveva definita
«inevitabile». Bill Gates, in
una conferenza ora divenuta celebre, «il più grande rischio di
catastrofe globale». Libri come Spillover di
David Quamenn o Pandemics di
Sonia Shah avevano documentato questo rischio approfonditamente. L’emergere di
una pandemia globale dovuta a un «virus aereo simil-influenzale» (come recitava
il documento
dell’Oms) non stupisce quindi gli addetti ai lavori. Eppure ha colto
impreparati quasi tutti i governi.
Il New
York Times ha da poco pubblicato un reportage su una
simulazione avvenuta a Novembre dell’anno scorso presso il Dipartimento della
Salute statunitense. Lo scenario, chiamato «Crimson contagion», ipotizzava
l’emergere di un virus respiratorio nato in Cina capace di diffondersi presto
in giro per il mondo e ne misurava il probabile impatto in suolo americano. Il
risultato catastrofico – 110 milioni di infetti e più di mezzo milione di morti
– mostrava quanto «sottofinanziato, impreparato e scoordinato sarebbe il
governo federale in una battaglia di vita o di morte contro un virus per cui
non c’è un farmaco».
Non solo quindi avremmo dovuto sapere che una pandemia sarebbe emersa, ma
anche che non eravamo preparati ad affrontarla. Lo scopriamo adesso guardando
quanto sta avvenendo proprio nel paese più ricco del mondo, oggi al primo posto
anche per numero di contagi dopo le minimizzazioni di Trump, gli errori
clamorosi nello sviluppo di un proprio test dopo aver rifiutato quello
predisposto dall’Oms, la mancanza di controllo centralizzato delle risorse con
rincorsa dei diversi Stati per accaparrarsene, i costi esorbitanti di diagnosi
e trattamenti (solo ora parzialmente corretti) che impediscono l’accesso alle
cure, le protezioni sociali pressoché inesistenti per milioni di lavoratori che
li costringono a lavorare anche se malati.
Un caso estremo, rappresentato però proprio da quel paese che le nostri
classi dirigenti prendono a esempio e che pretende di guidare il mondo. Ma
purtroppo l’assenza di preparazione la conosciamo bene anche in Italia, dove
finalmente, oltre la retorica dell’unità nazionale invocata in pompa magna,
stanno emergendo le responsabilità politiche e le ragioni strutturali della
tragedia che stiamo vivendo in particolare al nord. Non solo quelle legate ai
tagli alla sanità pubblica degli ultimi dieci anni e più, non solo quelle
dovute alle resistenze di Confindustria denunciate addirittura dal sindaco Pd
di Bergamo che ha usato l’impronunciabile termine «padroni» parlando di chi ha
favorito il contagio non volendo chiudere le attività produttive. Ma anche
quelle legate all’incapacità di predisporre un piano di contenimento col giusto
anticipo, lasciando esposto il personale sanitario e milioni di lavoratori e
lavoratrici che tuttora lavorano nelle produzioni considerate essenziali.
Delle prime responsabilità, e della mancanza di prevenzione, ha spiegato
benissimo l’esperto di salute pubblica ed ex-leader
no-global Vittorio Agnoletto, ma anche Report.
Le seconde responsabilità sono state invece sottolineate da un’ondata di
scioperi e proteste che non si vedeva da anni in questo paese. D’altronde per
capire quanto la classe lavoratrice sia stata abbandonata basta citare uno dei
luoghi principali di trasmissione potenziale del contagio: il trasporto
pubblico. Nel caso di Roma,
gli autisti e i macchinisti della più grande azienda di Tpl italiana, l’Atac,
hanno dovuto aspettare il 17 Marzo, un mese dopo la dichiarazione di emergenza
nazionale, per avere le prime misure di protezione, comunque insufficienti (le
mascherine sono tuttora assenti).
Mentre gran parte della classe lavoratrice di questo paese rischia la vita,
un’altra rischia la fame, tra chi ha perso il lavoro, chi lavorava in nero, chi
era precario o autonomo e si trova con sostegni minimi o inesistenti. I più
fortunati hanno una cassa integrazione che supera a malapena la metà dello
stipendio, altri avranno 600 euro per l’intera durata dell’emergenza, forse
rinnovati, altri ancora la recente elemosina per la spesa che, non si sa bene
come, elargiranno i Comuni.
Tutti sono intanto sottoposti a una limitazione delle libertà personali
senza precedenti, accompagnata da una retorica asfissiante che criminalizza
comportamenti innocui come il jogging (consigliato invece dall’Oms tra i comportamenti
per prevenire il virus), mentre milioni di persone continuano ad
ammassarsi in fabbriche, call center e magazzini.
Solo l’idea che siamo in guerra contro un nemico invisibile – espressione
usata da Giuseppe Conte quanto da Donald Trump – può giustificare tutto questo
e coprire tali responsabilità. L’idea per cui nonostante tutte le differenze
sociali che questo virus sta contribuendo a scoperchiare, nonostante ci sia chi
muore e chi si arricchisce, siamo la stessa specie umana che si confronta
contro la natura maligna. Ma la realtà non è quella di un disastro naturale. E
neanche soltanto della specie umana contro un disastro naturale generato da lei
stessa. Sono proprio le contraddizioni che il virus mostra alla radice ad
averlo in prima istanza portato alla luce.
Allevare virus
Nel mondo le persone
considerate denutrite sono quasi un miliardo, dato che è tornato a
crescere di recente. Al contempo sempre secondo i dati della Fao (l’organizzazione
dell’Onu per il cibo e l’agricoltura), il cibo sprecato globalmente basterebbe
a sfamare più volte l’intera popolazione malnutrita. Il cibo prodotto è quindi
contemporaneamente troppo e troppo poco, a danno di milioni di persone e a
guadagno dei profitti milionari delle imprese della trasformazione alimentare,
di quelle di fertilizzanti e della grande distribuzione. Se l’impatto
dell’industria agroalimentare sull’effetto serra è ben conosciuto ed è una
delle argomentazioni più citate a favore di una dieta vegetariana, meno noto è
invece l’impatto microbiologico. L’epidemiologo marxista Robert Wallace l’ha
sintetizzato così:
«Con le loro immense monocolture, i produttori di colture e di carne stanno
creando un’industria di parassiti e agenti patogeni, aumentando la frequenza,
la portata e la mortalità delle epidemie».
Lui e il suo gruppo di matematici, ecologi e biologi che da anni lavora su
questi temi attraverso ricerche sul campo e modelli sofisticatissimi – ricerche
per cui hanno anche pagato un prezzo in termini di carriera accademica – lo
sostengono da anni. Ora l’attenzione sul loro lavoro sta crescendo, arrivando
anche su giornali come il Guardian.
In Italia è appena stata pubblicata una sua intervista
per il Manifesto. Sulla Monthly Review,
preziosa rivista radicale americana, hanno da pochissimo scritto una lunga
analisi sul Coronavirus che riprende il filo di quelle svolte in tutti questi anni.
Il merito delle loro indagini è quello di individuare le cause strutturali, la
logica generale della situazione più che la meccanica del caso specifico. Non
si concentrano sul grilletto, ma su chi ha caricato la pistola e chi l’ha
premuto.
La sequenza che descrivono è inesorabile. Seguendola, ci si stupisce non
che oggi ci colpisca una pandemia, ma che lo faccia solo oggi. Al centro
dell’analisi, la combinazione letale tra il crollo della biodiversità in
habitat «selvaggi» attaccati dalle grandi produzioni agricole e l’ammassarsi di
animali d’allevamento in gigantesche batterie in cui vivono giusto il tempo di
essere ingrassati e macellati. Se infatti batteri e virus sono ovunque, quelli
tra loro che scelgono la via del parassitismo per dilagare in un’epidemia o
addirittura assurgere a celebrità globale con una pandemia devono fare una
lunga strada. Non solo un parassita deve superare le barriere dell’ospite,
eludere il suo sistema immunitario, nutrirsi e riprodursi agevolmente prima di
ucciderlo e trovare una via per diffondersi. Per infettare un’intera
popolazione c’è bisogno che gli ospiti già colpiti incontrino abbastanza
frequentemente quelli ancora sani, che i sintomi non siano troppo gravi da
debilitarli e ucciderli prima, che le loro caratteristiche immunitarie (e non
solo) non siano troppo variabili.
I fenomeni prima descritti – crollo della biodiversità e allevamenti
intensivi – forniscono la scorciatoia ideale perché ciò avvenga. Immaginiamoci
di essere uno degli ormai famigerati pipistrelli. La foresta in cui vivevamo è
stata pressoché distrutta, insieme agli animali che la abitavano. I pochi
luoghi in cui rifugiarsi sono gli stessi in cui incontriamo altri nostri
simili. Finiamo per ammassarci, trasmettendoci l’un l’altro i parassiti che portiamo
con noi, in una catena che non è interrotta dall’incontro di altre specie o
rallentata dalla vita solitaria che prima conducevamo. Si moltiplica la
possibilità di passarci parassiti e per questi diventa meno sfavorevole
sviluppare sintomi che possono danneggiarci e che favoriscono la loro
diffusione (tosse, dissenteria, ecc.).
Nei lavori del gruppo di Wallace, questo racconto e le sue innumerevoli
varianti è sintetizzato in fini modelli matematici. Tradotti all’osso: la
deforestazione abbatte la complessità ambientale che frena il dilagare dei
patogeni. Ma c’è un ulteriore risvolto: aggiungere un’altra dimensione al
processo, aumentarne la complessità lungo un’altra direttrice, ha l’effetto di
moltiplicare la possibilità del patogeno di diffondersi. Di che parliamo? Ad
esempio delle zone «periurbane», ibridi tra città e campagna a contatto
ravvicinato con gli habitat naturali del nostro pipistrello, in cui magari
scarseggiano strutture sanitarie e controlli. È in contesti simili che è
esplosa l’epidemia di Ebola nel 2014. Oppure dei famigerati mercati del fresco
come quello di Wuhan, in cui gli animali sono atipici ma gli investimenti molto
più tipici, spesso gli stessi che si indirizzano nel settore agroindustriale.
In queste piccole industrie dell’esotico animali e umani si ammassano
moltiplicando le possibilità di diffusione e anche di passaggio di specie.
Prima di passare da un animale selvaggio a un essere umano, è probabile
però che un patogeno passi per la camera di incubazione degli allevamenti intensivi.
Si tratta di veri e propri amplificatori della sua virulenza, di enormi fucine
in cui un parassita trova continui ospiti da infettare, spesso dal corredo
genetico molto simile perché deliberatamente selezionati per avere
caratteristiche standardizzate e in cui vige una sorta di selezione naturale al
contrario. Se normalmente la virulenza ha effetti svantaggiosi perché uccide
l’ospite o comunque lo isola dal resto della comunità, in allevamenti in cui
c’è un costante ricambio di materiale da contagiare e in cui la vita media è
bassissima questo problema non si pone. Anzi, sintomi patologici dannosi, ma
che favoriscono la diffusione del patogeno sono ancor più vantaggiosi per
quest’ultimo. Gli animali poi non si riproducono spontaneamente nel luogo, ma con
tecniche artificiali e secondo criteri decisi altrove e così quelli che si
rivelano più suscettibili e danneggiati dai germi anziché estinguersi
naturalmente si riproducono tanto quanto gli altri. Il contatto continuo con
chi lavora nel settore, spesso in condizioni igieniche e con protezioni
inadeguate, rende il passaggio all’essere umano di fatto solo una questione di
tempo.
Vale anche per i piccoli agricoltori, che in realtà sempre di più
rappresentano una divisione esternalizzata delle multinazionali
dell’agrobusinnes. Gli agricoltori di tutto il mondo sono infatti stretti tra
l’aumento dei costi degli input e la caduta dei prezzi dei loro prodotti.
Questa morsa li costringe ad aumentare la produzione se non altro per
compensare i bassi prezzi dovuti proprio all’aumento della produzione stessa. A
guadagnare sono le multinazionali dell’agribusiness che in questo modo
abbassano i prezzi degli ingredienti vegetali e animali delle proprie
produzioni e obbligano al contempo gli agricoltori ad acquistare gli input
sintetici da loro prodotti. Questa morsa, una forma di disciplinamento del
lavoro, costringe molti agricoltori a mollare. I terreni si fondono, comprati
da quelli che resistono, che puntano sull’economia di scala e
sull’apprezzamento del patrimonio fondiario indebitandosi per meccanizzare la
produzione e provare a resistere a quella stessa morsa. Aumentano le
produzioni, diminuisce la diversità, si allungano le filiere e si riduce la
resistenza delle zone rurali alle epidemie associate alla stessa produzione
agricola. In questo contesto controllare i focolai significa innanzitutto
proteggere i profitti di chi investe. E magari crearne di altri, spingendo ad
abusare di farmaci e antibiotici spesso prodotti da altri dipartimenti – o
travestimenti – della propria stessa multinazionale. Significa in sostanza
mettere delle toppe – e lucrare su esse – a un sistema che continua a produrre
problemi, scaricandone i rischi più grandi all’esterno. Se polli e maiali
influenzati si trasformano in perdite di bilancio, una pandemia globale di
influenza umana no.
L’effetto Corona. La nascita di un virus in Cina può innescare una
rivoluzione a New York?
La prospettiva allora si ribalta. L’epicentro delle recenti minacce alla
salute globale si sposta dalle popolazioni indigene e le loro «selvagge»
abitudini alimentari ai luccicanti centri di direzione aziendale. «New York,
Londra e Hong Kong, le sorgenti principali del capitale globale, diventano i
tre peggiori focolai del mondo», scrivono Wallace e i suoi colleghi. Il mercato
di Wuhan, con il suo corredo fotografico di animali impressionanti serviti alla
griglia, è allora il capro espiatorio servito dai mass media perché l’opinione
pubblica se la prenda con l’ultimo anello di una lunga catena che comincia
proprio con i proprietari degli stessi mass media e con i loro soci in affari.
Tanto più che ancora non è affatto chiaro se il SARS-CoV-2, probabilmente covato
innanzitutto in una popolazione di pipistrelli, non sia passato per qualche
altro ospite animale prima di passare all’uomo. Ad esempio il pangolino, come
sostiene un recente
articolo su Nature, che al contempo sottolinea come
«nessun Coronavirus animale finora identificato è abbastanza simile al
SARS-CoV-2 da poterne rappresentare il diretto progenitore». Mentre un altro
articolo, pubblicato sull’International
Journal of Environmental Research and Public Health, scrive che
«molte osservazioni hanno mostrato come l’epidemia di SARS-2 si sia originata
in diversi luoghi piuttosto che in uno solo, diversamente da come inizialmente
riportato».
Insomma, se ci sono pipistrelli colpevoli in questa storia, sono i
rispettabili vampiri travestiti da amministratori delegati, broker finanziari e
politici al loro servizio. La gigantesca roulette epidemiologica dell’industria
agroalimentare non riuscirà a sfamare il mondo, ma di certo soddisfa i loro
appetiti.
Come altri rischi ecologici, la classe capitalista globale è pronta a
correre anche questo pur di accrescere i propri profitti. Innanzitutto perché
sa che può scaricarlo sulla classe lavoratrice. Non solo quella del cosiddetto
Sud del mondo, che rischia di essere travolta da una nuova catastrofe
umanitaria che si sommerà drammaticamente a quelle già in corso. Ma anche
quella del Nord, dei paesi occidentali, che in questo momento, oltre alle migliaia
di vite dei suoi membri, ha rinunciato anche alle libertà di circolazione e
consumo su cui aveva costruito il mito del proprio stile di vita, mentre la
classe media – altro mito del
mondo occidentale – scivola progressivamente verso il basso.
Usando termini che rimandano all’Ottocento, secolo in cui siamo ritornati dopo
aver decretato la fine del Novecento, La
Repubblica l’ha definita una «pauperizzazione generalizzata»,
riprendendo uno studio dell’Organizzazione
Internazionale del Lavoro che prospetta almeno 25 milioni di disoccupati in più
in tutto il mondo dopo questa crisi. Intanto l’ecatombe di persone anziane,
spesso cinicamente sottolineata per ridimensionare la letalità del Covid-19,
avrà l’effetto statistico di abbassare l’aspettativa di vita, il cui
allungamento era un altro vanto del mondo occidentale. Su quello si sono
giustificate le più recenti e massacranti riforme previdenziali e ora ci
troviamo entrambe: una vita media più bassa e un’età pensionabile più alta.
Si dirà: anche i ricchi piangono, si ammalano e sono chiusi in casa.
Tralasciamo per un momento i tamponi che vengono fatti ai vip mentre i poveri
cristi devono essere con un piede nella tomba per averne diritto. O quelli che a 100 euro
offre la sanità privata. O il fatto che una multa per aver violato
il coprifuoco ha un significato molto diverso a seconda del portafoglio di chi
la dovrà pagare. E anche che c’è una grande differenza tra passare la
quarantena in una villa o in un appartamento condiviso. E che per quanto
alienante sia lo smart working, essere costretti a uscire rischiando di
infettarsi è peggio, oltre al fatto che c’è smart working e smart working.
Insomma, anche tralasciando tutto quello che il settimanale
moderato tedesco Zeit ha definito uno «stato di
emergenza [che] espone e aggrava senza pietà le disuguaglianze sociali», il
punto è che la classe capitalista sa lucrare sui disastri che contribuisce a
creare. Delle devastazioni fa ricostruzioni, dell’inquinamento bonifiche, delle
malattie farmaci, e di tutto questo futuri punti di Pil.
Ovviamente alcuni dei suoi membri pagheranno un prezzo alto da questa
crisi, venendo mangiati dai pesci più grossi in un processo di concentrazione
di capitale che già si intravede dall’impennata degli introiti della grande
distribuzione o dall’entusiasmo
di Urbano Cairo. Non è avidità, è solo il riflesso psicologico della
disperata necessità di accumulare potere e ricchezza per non essere scalzati
dalla concorrenza, a volte armata, di altri ricchi e potenti, finendo così tra
le fila dei poveri e miserabili.
Questa gigantesca rincorsa è uno degli ingredienti della catastrofe
ecologica – nella sua variante microbiologica, in questo caso – contro cui la classe
capitalista non può fare a meno di schiantarci. Nascosta da analisi
costi-benefici, contabilità aziendali, andamenti di borsa. Non è la banalità
del male ma il male della banalità, il demonio travestito da business
as usual. Lo stesso movimento ambientalista non può vincere senza vedere
che il parassita più pericoloso di questo pianeta è la classe di super ricchi
che vive sul lavoro di gente a cui lascia come unica libertà quella di decidere
se morire di fame o di malattia. O a cui nega la libertà tenendoli chiusi in
casa. In Sudafrica,
dopo i primi tre morti da Coronavirus, la polizia già ne ha fatti altrettanti
per far rispettare le misure di quarantena.
Se, come invitava a fare Walter Benjamin, guardiamo dalla prospettiva delle
di vittime di questo mondo, vediamo che lo stato di eccezione che stiamo
vivendo e che ci accompagnerà ancora a lungo è in realtà la norma. È la forma
più manifesta di una violenza di classe che oggi si esprime come violenza del
virus, violenza economica e violenza militare.
Il blasonato
economista Kenneth Rogoff, scriveva a inizio Marzo che «le
generazioni precedenti erano più povere e molte più persone rischiavano andando
a lavoro. Bloccare l’intera produzione per un’epidemia che non uccide non era
pensabile». Anche se questa epidemia in realtà uccide, è vero che gli effetti
economici delle misure prese per fermarla possono essere ancora più letali.
Allora chi, come e cosa far vivere? Chi, come e cosa non lasciar morire? Tali
domande centrali si declinano in lunghi e contraddittori
elenchi di produzioni essenziali e non, di comportamenti individuali
più o meno accettabili, di Stati più o meno meritevoli di aiuti e a quali
condizioni dall’Unione europea. Ma questa non è nient’altro che la forma
generalizzata del ricatto quotidiano tra lavoro e salute che vive nella propria
personale esperienza ciascun lavoratore, che si vede trattato come un oggetto
da proteggere nella misura in cui è necessario al funzionamento della società.
Per questo quello che stiamo vivendo è un potenziale momento di consapevolezza
di massa. Dividersi su quali aspetti ritenere più intollerabili, se le
fabbriche aperte, il controllo sociale, i rischi economici, significa
sprecarlo. Dobbiamo vedere l’unità dei tre momenti, come parte di una stessa
violenza sistemica ai nostri danni. Se ci riusciremo potremo cogliere le
opportunità che offre questa difficilissima fase.
In fondo neanche la borghesia se la passa così bene: il teatrino europeo è
il riflesso di scontri aspri tra capitali grandi e grandissimi su chi debba
farsi carico della crisi, mentre crolla il castello di carte finanziario
accumulatosi in oltre dieci anni di iniezioni di liquidità. I limiti delle
manovre monetarie di cui si è finora abusato stanno lasciando spazio a
interventi pubblici diretti sulla produzione. Sia chiaro, la borghesia ne parla
per salvare quello stesso sistema che adesso è costretto a negare alcuni suoi
pilastri ideali, come la retorica sulle virtù del privato e i vizi del
pubblico. E tutto questo accade mentre la società viene irreggimentata in una
vera e propria economia di guerra, spesso nominata dagli stessi giornali
mainstream.
Ma in una guerra la classe lavoratrice non è solo la carne da cannone, è
anche la manodopera essenziale che permette di portarla avanti. Lo hanno
dimostrato gli scioperi delle scorse settimane. La moltiplicazione di iniziative di
mutuo-soccorso sono una prima dimostrazione embrionale che non
solo dobbiamo ma possiamo badare a noi stessi. Perché succeda dobbiamo seguire
l’etimologia della parola pandemia (pan-demos) e trasformare la guerra alla
pandemia in guerra di tutto il popolo.
Lo sviluppo
capitalistico e la diffusione delle epidemie - Militant
Nel giro di alcune settimane un patogeno microscopico ha messo in crisi le
lunghe catene del valore dell’economia capitalista. Un microrganismo che la
scienza fatica perfino a classificare tra gli esseri viventi si è così
trasformato nel fatidico granello di sabbia capace di inceppare i meccanismi
della globalizzazione, riuscendo a rallentare o, in alcuni casi, addirittura a
fermare la produzione. In questo momento milioni di salariati sono confinati
nell’isolamento, mentre ad altri viene imposto, nonostante il rischio di
contagio, di andare a lavorare e sacrificarsi in nome del profitto. Una
pandemia che sta progressivamente investendo tutti i paesi del mondo, a partire
da quelli a capitalismo avanzato, ma in cui anche la capacità di risposta della
sanità pubblica e la tenuta dei rispettivi sistemi di welfare si stanno
trasformando in fattori decisivi nella competizione inter-imperialistica.
Sarebbe però riduttivo provare a interpretare quanto sta avvenendo
esclusivamente attraverso la lente della crisi sanitaria o, al più, della
incipiente crisi economica. E non perché questi aspetti non siano entrambi
drammaticamente reali, ma perché così rischieremmo di non cogliere alcuni delle
contraddizioni sistemiche che proprio l’epidemia sta facendo emergere.
Partiamo ponendoci una prima domanda: questa pandemia, così come le altre
epidemie che pure l’hanno preceduta, era davvero imprevedibile? Si è trattato
realmente di un evento “straordinario”? Il sistema informativo mainstream e le
classi dirigenti continuano a raccontarla come una sorta di “calamità
imponderabile”, uno di quei disastri naturali che, al pari dei terremoti, delle
eruzioni vulcaniche o dei meteoriti, rimangono inevitabili per quanto ci si
possa poi adoperare per minimizzarne le conseguenze.
Questa posizione, però, oltre a rappresentare un’evidente autoassoluzione
per le classi dominanti, rischia di consegnarci allo stoicismo o, peggio
ancora, al fatalismo, ma soprattutto è scientificamente infondata. Come
giustamente nota David Quammen1 in “Spillover”, un libro del
2012 che gli eventi recenti hanno trasformato in un best seller, “non si
tratta di meri accidenti, ma di conseguenze non volute di nostre azioni. Sono
lo specchio di due crisi planetarie convergenti: una ecologica ed una
sanitaria”.
Non a caso almeno dal 1997, dalle avvisaglie della cosiddetta “influenza di
Hong Kong” (causata da un ceppo del virus H5N1), tra gli epidemiologi il tema
di quale sarebbe stata la prossima grande epidemia è stato talmente ricorrente
da spingerli ad affibbiargli anche un nomignolo, the Next Big One, facendogli
individuare proprio nelle “zoonosi”, ovvero nelle infezioni trasmesse all’uomo
da animali che svolgevano la funzione di “ospiti serbatoio” o di “ospiti di
amplificazione”, il rischio principale. In una popolazione mondiale in rapida
crescita, con molti individui che sono esposti a nuovi patogeni, l’arrivo di
una nuova pandemia era dunque solo questione di tempo e lo aveva ripetuto più
volte la stessa Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), l’ultima in un
report2 dello scorso settembre in cui si ricordava che solo dal
2011 al 2018 erano state registrate più di 1483 epidemie, comprese Ebola e
SARS, che avevano coinvolto ben 172 paesi.
Sappiamo ormai dal secolo scorso di come sia di fatto impossibile determinare
la violenza di un virus, ovvero il suo tasso di mortalità, senza tener conto di
alcuni “fattori di contesto” che incidono anche pesantemente, come
l’alimentazione, le condizioni economiche, il tipo di cure mediche disponibili
e le capacità di risposta del sistema sanitario. Alla luce di queste semplici
considerazioni e degli avvertimenti che ciclicamente si sono ripetuti in questi
anni parlare di “imprevedibilità” risulta dunque inappropriato, e il numero
delle vittime che si sarebbero potute salvare se solo ci si fosse preparati
adeguatamente rappresenteranno per sempre un j’accuse inappellabile
contro le élite dominanti
Occorre però spingersi oltre ponendoci un altro quesito, forse ancora più
importante di quello precedente: esiste un nesso di causalità tra il sistema
economico dominante, il modo di produzione capitalistico, e l’insorgenza sempre
più frequente di epidemie? Si tratta di una domanda tutt’altro che retorica,
soprattutto perché ci inchioda, come comunisti, ad un ritardo di analisi e, conseguentemente,
di azione politica, su una questione che si sta mostrando in tutta la sua
drammatica attualità e che non può essere semplicemente liquidata con una
generica sentenza di colpevolezza nei confronti del capitalismo. Occorre
indagare in maniera scientifica su quale sia esattamente il rapporto tra la
sfera socioeconomica e la natura, che non possono essere pensate come realtà
separate, perché gli esseri umani sono al tempo stesso produttori e prodotti
del loro ambiente, Società e Natura sono legate dialetticamente, da questo
punto di vista il capitalismo non va dunque interpretato solo come un sistema
socioeconomico, ma anche come un modo di “organizzare” la natura, uno specifico
regime ecologico3.
Torniamo quindi alla relazione tra capitalismo ed epidemie. Stando alle
parole dell’epidemiologo Paolo Vineis, recentemente intervistato dal Corriere
della Sera, secondo alcuni studi recenti più del 25% delle malattie
infettive emergenti e più del 50% delle malattie zoonotiche nell’uomo sono
dovute al consumo del territorio per scopi agricoli e zootecnici legati
soprattutto all’allevamento intensivo di maiali e pollame che contribuisce a
rendere possibile il processo di concentrazione urbanistica nei paesi della
periferia e della semiperiferia capitalista. In un testo del 2016, Big
Farms Make Big Flu4, il biologo Robert Wallace ha dimostrato in
maniera esaustiva il rapporto di causalità che esiste tra l’agrobusinnes,
l’urbanizzazione capitalista e l’eziologia di alcune epidemie recenti come la
SARS ed Ebola.
L’agroindustria capitalistica, rimpiazzando ecosistemi naturali complessi
con sistemi più produttivi, ma biologicamente più “semplici”, crea infatti le
condizioni perfette perché gli agenti patogeni possano evolvere fino a
sviluppare fenotipi sempre più virulenti e contagiosi. L’allevamento
industriale di animali domestici è caratterizzato, per esigenze ovvie di
mercato, da un’elevatissima omogeneità genetica e da ambienti con alta densità
di popolazione, questo finisce col rimuovere ogni tipo di barriera immunologica
in grado di rallentare la possibile trasmissione di infezioni. A questo va poi
aggiunto l’effetto della ricerca incessante del raggiungimento di cicli
produttivi sempre più brevi, capaci cioè di portare l’animale al peso di
macellazione nel minor tempo possibile in modo da ridurre quello che Marx
chiamava il tempo di produzione e conseguentemente anche il
tempo di rotazione del Capitale, e quindi la massa di plusvalore
realizzabile, ad esempio, in un anno.
La logica interna del modo di produzione capitalistico diventa così essa
stessa un fattore evolutivo capace di trasformare dei ceppi virali prima
isolati o inoffensivi in patogeni sempre più aggressivi. Questo perché il
ritmo produttivo sempre più serrato impone indirettamente (ma in maniera
estremamente efficace) una pressione selettiva sui patogeni “costringendoli” ad
evolvere in ceppi sempre più virulenti, capaci di svilupparsi su ospiti con
cicli vitali sempre più brevi. Come già accennato l’alta concentrazione
produttiva dell’agroindustria è poi, al tempo stesso, presupposto e conseguenza
dei processi di urbanizzazione che hanno portato oltre il 55% della popolazione
mondiale a vivere nelle grandi città e nelle megalopoli globali, spesso in
condizioni igenico-sanitarie estremamente precarie, soprattutto nei paesi della
periferia e della semiperiferia capitalista, creando così i presupposti per i
continui salti zoonotici e la successiva diffusione dei patogeni.
Non è certo quindi per una sfortunata coincidenza che molte delle nuove
epidemie abbiano avuto origine proprio in Cina, e la ragione non può essere
ricercata, come pure si è tentato di fare, nelle “stravaganti” abitudini
culinarie e culturali dei cinesi o in qualche esperimento militare sfuggito di
mano, ma ha a che vedere con la geografia economica globale e la progressiva
concentrazione nel paese della produzione manifatturiera internazionale che, in
un arco di tempo relativamente breve, ha fatto della Cina “la fabbrica del
mondo”. Proprio come per l’Europa e gli Stati Uniti dei secoli scorsi, gli alti
tassi di sfruttamento che sono stati alla base del “miracolo economico” hanno
determinato per milioni di proletari, oltre che un aumento delle diseguaglianze
sociali, anche condizioni di vita estremamente precarie, soprattutto nelle enormi
megalopoli spuntate come funghi in questi anni, determinando così le condizioni
adatte per il potenziale sviluppo delle epidemie.
Al vorticoso tasso di crescita del Pil cinese di questi ultimi decenni e al
conseguente “grande balzo in avanti” tecnologico non ha fatto da contrappunto
un altrettanto rapido miglioramento del tenore di vita dei milioni di contadini
che sono stati strappati alle campagne e proletarizzati per andare a lavorare
nelle Zone Economiche Speciali. Nonostante gli enormi sforzi messi in campo in
queste ultime settimane la spesa sanitaria cinese5 rimane
limitata, stimata in 398 dollari per persona, poco più di un terzo di quello
che investe Cuba, per intenderci. In questa sorta di accumulazione originaria
che dovrebbe permettere al paese di risalire le catene del valor internazionale
gran parte della spesa pubblica continua ad essere indirizzata alle
infrastrutture fisiche: ponti, strade ed energia a basso costo per le
industrie. Da questo punto di vista anche la città in cui ha avuto origine
l’epidemia di Sars-CoV-2 ha un alto valore simbolico. Wuhan è infatti
considerata come la capitale cinese dell’industria delle costruzioni ed ha
conosciuto un’espansione rapidissima proprio a partire dalla crisi del 2008,
quando il governo cinese varò un piano di stimoli di oltre 4 trilioni di yuan,
pari al 14% del Pil, destinati soprattutto a progetti infrastrutturali ed
edilizi.
Arrivati a questo punto, e prima di concludere, è necessario però chiarire
come nel caso dell’ultima epidemia da Sars-CoV-2 la vicenda si sia dimostrata
più complessa rispetto ai casi dell’influenza suina (2009) e aviaria (2003) che
invece erano più chiaramente associati al nucleo del sistema agroindustriale
capitalistico. Sembrerebbe infatti ormai acclarato che “l’ospite serbatoio” sia
stato una qualche specie di pipistrello, macellato e commercializzato nel
mercato umido di Wuhan, e che il contagio non sia quindi passato attraverso
l’intermediazione di un animale domestico. Ancora una volta è però il lavoro
teorico di Robert Wallace a far emergere i nessi di causalità stringenti a cui ci
siamo riferiti finora.
Se è vero, infatti che ormai a livello globale, e soprattutto in Cina, la
produzione di cibo da animali selvatici sta diventando in modo sempre più
effettivo un settore economico a sé, è anche vero che la sua relazione con
l’agricoltura industriale va ben oltre il fatto che entrambe queste filiere
possano essere controllate dagli stessi capitali. I processi di
espansione della produzione agricola intensiva e, al contempo, di sussunzione
dell’agricoltura “di periferia” alle logiche del Capitale non solo determinano
la progressiva distruzione degli agroecosistemi tradizionali ma, più o meno
direttamente, aumentando l’interfaccia con ecosistemi che fini a quel momento
erano rimasti relativamente isolati aumentando le probabilità dello “spillover”
di nuovi agenti patogeni. In sostanza, man mano che l’accumulazione
capitalista sottomette nuovi territori distruggendo gli equilibri eco-sistemici
preesistenti, le specie animali vengono progressivamente spinte in zone meno
accessibili in cui entrano in contatto con ceppi patogeni fino ad allora
isolati. Quelle stesse specie animali spesso diventano poi oggetto di
mercificazione finendo nelle catene del valore capitalista.
Questo diminuisce la distanza tra l’uomo e i potenziali “ospiti serbatoio”
creando così le condizioni per il salto di specie di patogeni protopandemici.
L’esempio della recente epidemia di Ebola in Guinea (2013) è, da questo punto
di vista, emblematico. La cessione da parte del governo di grosse estensioni di
territorio ai conglomerati agroindustriali internazionali per la produzione
dell’olio di palma ha determinato, non solo la deforestazione e la distruzione
di ecosistemi complessi, ma l’imposizione di una monocoltura che è poi è
risultata particolarmente attrattiva nei confronti quei pipistrelli che fungono
da serbatoio naturale del virus. Si è trattato, come scrive il sito dell’ISS6,
della più grande epidemia di Ebola, sia per numero di focolai che per
numero di casi e decessi segnalati: un totale di 28.652 casi confermati,
probabili e sospetti, con 11.325 decessi in dieci Paesi (Liberia, Guinea,
Sierra Leone, Mali, Nigeria, Senegal, Spagna, Regno Unito, Italia e Stati Uniti
d’America).
La crisi pandemica di questi giorni, che dopo decenni torna a coinvolgere
le capitali del Nord globale, è un’ulteriore dimostrazione del fatto che il
capitalismo è un regime ecologico insostenibile. Nonostante le retoriche
imperanti sulla cosiddetta green economy, le leggi interne che lo governano
sono le stesse che approfondiscono le contraddizioni ambientali. La lotta per
l’uguaglianza e la giustizia sociale deve quindi necessariamente intersecarsi
con quella per la giustizia ambientale, perché solo affidando alla collettività
il compito di decidere cosa, quanto e, soprattutto, come produrre, l’umanità
nel suo complesso potrà provare a superare questa contraddizione. Ma affinché
questo accada è necessario colmare il ritardo di analisi che abbiamo accumulato
in questi anni.
Note
1) Quammen D. (2014), Spillover,
Adelphi
3) Moore J. W. (2015), Ecologia-mondo
e crisi del capitalismo, Ombre Corte
4) Wallace R. G. (2016), Big
Farms Make Big Flu, Monthly Review Press
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