“Economics
are the methods. The object is to change the soul”.
Riferita alle politiche della conoscenza, istruzione e ricerca (ma non
soltanto), questa formula di Margaret Thatcher ben riassume il processo che ha
contraddistinto gli ultimi decenni.
Il metodo
economico, la penuria come condizione normale, al limite o al di sotto del
limite della sopravvivenza, è visibile a tutti. Anche ben visibile, insieme a
quello finanziario, è lo strangolamento burocratico. Meno visibile l’obiettivo.
Il cambiamento degli animi è così profondo che non ci accorgiamo nemmeno più
della distruzione compiutasi intorno e attraverso di noi: il paradosso della
fine – nella “società della conoscenza” – di un mondo dedicato alle cose della
conoscenza. Anche l’udito si è assuefatto a una programmatica devastazione linguistica,
dove un impoverito gergo tecnico-gestionale e burocratico reitera espressioni
dalla precisa valenza operativa, che però sembra essere difficile cogliere:
miglioramento della qualità, eccellenza, competenza, trasparenza, prodotti
della ricerca, erogazione della didattica… E autonomia, ovvero – per riprendere
le parole di Thomas Piketty – l’impostura che ha avviato il processo di
distruzione del modello europeo di università. Una distruzione che ha assunto
come pretesto retorico alcuni mali – reali e no – della vecchia università, ma
naturalmente senza porvi rimedio, perché non questo ma altro era il suo
obbiettivo.
A trenta
anni appunto dall’introduzione dell’autonomia, a venti dal processo di Bologna,
a dieci dalla “Legge Gelmini”, la letteratura critica su questa distruzione è
sconfinata. Ricerca e insegnamento – è un fatto, eppure sembra un tabù
esplicitarlo – da tempo non sono più liberi. Sottoposta a una insensata
pressione che incalza a “produrre” ogni anno di più, a ogni giro (da noi VQR, ASN
ecc) di più, la ricerca è in preda a una vera e propria bolla di titoli, che
trasforma sempre più il già esiziale publish or perish in
un rubbish or perish. Nello stesso tempo, è
continua la pressione ad “erogare” una formazione interamente modellata sulle
richieste del mondo produttivo. La modernizzazione che ha programmaticamente
strappato l’università via da ogni “torre di avorio” – facendone “responsive”,
“service university” – ha significato non altro che la via, la “terza via”,
verso il mondo degli interessi privati. Svuotate del loro valore, istruzione e
ricerca sono valutate, vale a dire “valorizzate” tramite il mercato e il
quasi-mercato della valutazione, che, nella sua migliore veste istituzionale,
non serve ad altro che «a favorire (…) l’effetto di controllo sociale e di
sviluppo di positive logiche di mercato» (CRUI 2001).
Proprio
grazie all’imporsi di queste logiche di mercato, la libertà di ricerca e di
insegnamento – sebbene tutelata dall’art. 33 della Costituzione – è ridotta
oramai a libertà di impresa. Il modello al quale le è richiesto sottomettersi è
un regime di produzione di conoscenze utili (utili anzitutto a incrementare il
profitto privato), che comanda modi tempi e luoghi di questa produzione,
secondo un management autoritario che arriva ad espropriare ricercatori e
studiosi della loro stessa facoltà di giudizio, ora assoggettata a criteri
privi di interna giustificazione contrabbandati per oggettivi. Si tratta di
numeri e misure che di scientifico, lo sanno tutti, non hanno nulla e nulla
garantiscono in termini di valore e qualità della conoscenza. Predefinire
percentuali di eccellenza e di inaccettabilità, dividere con mediane o
prescrivere soglie, ordinare in classifiche, ripartire in rating le riviste,
tutto questo, insieme alle più vessatorie pratiche di controllo sotto forma di
certificazioni, accreditamenti, rendicontazioni, riesami, revisioni ecc., ha
un’unica funzione: la messa in concorrenza forzata di individui gruppi o
istituzioni all’interno dell’unica realtà cui oggi si attribuisce titolo per
stabilire valori, ossia il mercato, in questo caso il mercato globale
dell’istruzione e della ricerca, che è un’invenzione del tutto recente.
Là dove
infatti tradizionalmente i mercati non esistevano (istruzione e ricerca, ma
anche sanità, sicurezza e così via), l’imperativo è stato quello di crearli o
di simularne l’esistenza. La logica del mercato concorrenziale si è imposta
come vero e proprio comando etico, opporsi al quale ha comportato, per i pochi
che vi hanno provato, doversi difendere da accuse di inefficienza,
irresponsabilità, spreco di danaro pubblico, difesa di privilegi corporativi e
di casta. Tutt’altro che il trionfo del laissez faire: un “evaluative State”
poliziesco ha operato affinché questa logica venisse interiorizzata nelle
normali pratiche di studio e ricerca, operando una vera e propria
deprofessionalizzazione, che ha trasformato studiosi impegnati nella loro
ricerca in entrepreneurial researcher conformi ai diktat della corporate
university. A gratificarli una precarietà economica ed esistenziale che va
sotto il nome di eccellenza, la cornice oggi funzionale a un “darwinismo
concorrenziale” esplicitamente teorizzato e, anche grazie alla copertura morale
offerta dall’ideologia del merito, reso forzatamente normalità.
Sono in
molti ormai a ritenere che questo modello di gestione della conoscenza sia
tossico e insostenibile a lungo termine. I dispositivi di misurazione delle
performance e valutazione premiale convertono la ricerca scientifica (il
chiedere per sapere) nella ricerca di vantaggi competitivi (il chiedere per
ottenere), giungendo a mettere a rischio il senso e il ruolo del sapere per la
società. Sempre più spesso oggi si scrive e si fa ricerca per raggiungere una
soglia di produttività piuttosto che per aggiungere una
conoscenza all’umanità: “mai prima nella storia dell’umanità tanti hanno
scritto così tanto pur avendo così poco da dire a così pochi” (Alvesson et al.,
2017). In questo modo la ricerca si condanna fatalmente all’irrilevanza,
dissipando il riconoscimento sociale di cui finora ha goduto e generando una
profonda crisi di fiducia. È giunto il momento di un cambiamento radicale, se
si vuole scongiurare l’implosione del sistema della conoscenza nel suo
complesso. La burocratizzazione della ricerca e la managerializzazione
dell’istruzione superiore rischiano di diventare la Chernobyl del nostro
modello di organizzazione sociale.
Quel che
serve oggi è quindi riaffermare i principi che stanno a tutela del diritto di
tutta la società ad avere un sapere, un insegnamento, una ricerca liberi – a
tutela, cioè, del tessuto stesso di cui è fatta una democrazia – e per questo a
tutela di chi si dedica alla conoscenza. Serve una scelta di campo, capace di
rammagliare dal basso quello che resiste come forza critica, capacità di
discriminare, distinguere quello che non si può tenere insieme: condivisione ed
eccellenza, libertà di ricerca e neovalutazione, formazione di livello e rapida
fornitura di forza lavoro a basso costo, accesso libero al sapere e monopoli del
mercato.
In questa
direzione si delineano alcune tappe.
La prima è
una verifica dell’effettiva sussistenza e consistenza di questo campo. Un
progetto non può avanzare se non si raggiunge una massa minima di persone
disposte ad impegnarvisi.
Se c’è
un’adeguata adesione preliminare – diciamo in termini simbolici 100 persone per
partire – organizziamo un incontro a breve per ragionare su politiche
radicalmente alternative in fatto di valutazione, tempi e forme della
produzione del sapere, reclutamento e organizzazione.
In
prospettiva, realizziamo a giugno un’iniziativa in concomitanza con la prossima
conferenza ministeriale del processo di Bologna, che quest’anno si tiene a
Roma, per avanzare con forza – in raccordo con altri movimenti europei di
ricercatori e studiosi (già sussistono contatti in questo senso) – un
ripensamento delle politiche della conoscenza.
Valeria
Pinto
Davide Borrelli
Maria Chiara Pievatolo
Federico Bertoni
Davide Borrelli
Maria Chiara Pievatolo
Federico Bertoni
per adesioni: sapereperilfuturo@gmail.com, specificando
l’istituzione di appartenenza
ascoltate i primi 10 minuti, parla il Ministro del MIUR per l'eternità (l'ho scelto io, naturalmente)
Nessun commento:
Posta un commento