Effetti della crisi nella
nuova mappa del lavoro - Marco Revelli
Senza
pudore, le Confindustrie del Nord continuano a ripetere lo stesso mortifero
ritornello: riaprire, riaprire, riaprire. Come se il mezzo migliaio di morti
che ogni giorno dobbiamo contare fosse un dettaglio trascurabile. E i 4.000
nuovi contagi che quotidianamente la protezione civile aggiunge ai propri
grafici fossero minuzie di cui praetor non curat. Imperterriti, come d’altra
parte hanno sempre fatto.
I nostri
imprenditori continuano ad anteporre la borsa alla vita (dei propri dipendenti,
in primis, e di ogni altro che sia d’impaccio nel conto profitti e perdite).
Pretendendo che – vogliamo dirlo? – i disastri del bergamasco e del bresciano,
da loro voluti, non insegnino nulla.
Eppure il
messaggio del virus è chiarissimo. Col linguaggio feroce che la natura sa usare
quando vuol farsi sentire, ci dice che l’ordine del discorso va cambiato. Che è
già cambiato. Le mappe su cui orientiamo i nostri percorsi sociali, a saperle
leggere così come la pandemia le ha ridisegnate, già ci disvelano paesaggi fino
a ieri invisibili – seppur presenti -, gerarchie di valori rovesciate.
A cominciare
dalla mappa del lavoro. Sono bastati pochi giorni di confinamento per tornare a
separare, come il grano dal loglio, essenziale e superfluo: la composizione
sociale messa al lavoro sul necessario, e quella posizionata sull’inutile, con
la seconda confinata a casa, e la prima sottoposta a una mobilitazione totale
simile a quella bellica: mandata al lavoro coatto come al fronte, senza
protezioni e tutele nel peggior stile dell’”armiamoci e partite”.
Il francese
Denis Maillard usa una coppia di grande efficacia per esprimere questa
“rivelazione” della nuova frattura di classe: l’antitesi – e lo scambio di
posto nella piramide dei ruoli – tra back office e front office. Tra chi “si
trattiene nell’invisibilità del lavoro coatto al servizio degli altri” e chi
sta “nella luce del lavoro visibile e riconosciuto socialmente”.
I secondi,
quelli del front office, manager e professioni intellettuali, pubblicitari e
intrattenitori mediatici, trionfanti fino a ieri come campioni del tout
marché e dell’economia del loisir, ora “ritirati nei loro
appartamenti”. Gli altri – non solo gli addetti ai “lavori di cura” ma tutti
quelli che operano fisicamente, cioè “con le mani”, sulle filiere “della vita”
– trascinati in prima linea dal rovesciamento imposto dal virus: back office
“au front”, scrive con un gioco di parole.
Maillard –
oggi contagiato anch’egli – è una bella figura di medico filosofo, autore di un
libro forte su La colére francaise, in cui aveva offerto
un’analitica descrizione di questa emergente costellazione del lavoro “di base”
(già emerso con i gilet jaunes), fatto di “addetti alle consegne delle merci
nelle grandi città alle 5 del mattino, magazzinieri che mettono sugli scaffali
migliaia di prodotti, operai edili e addetti alla ristorazione”, padroncini e
imprenditori di se stessi, artigiani, gestori di macelli e commessi di negozi,
badanti e infermiere, paramedici e autisti d’ambulanza, pensionati talvolta, o
disoccupati e interinali
Ad essi
possiamo aggiungere ora tutti gli operai delle industrie che si
“autocertificano” come parti delle filiere lunghe e fitte giudicate
indispensabili per la popolazione, quei milioni di donne e uomini che gli
imprenditori pretendono di mettere al lavoro come post-moderni servi della
gleba. Anch’essi fino a ieri invisibili, e ora rivelati nella loro strategica centralità,
nel momento in cui lo tzunami dell’epidemia ha spazzato via come cascame la
barocca infrastruttura del superfluo.
Sarebbe
interessante sapere quanti sono tra loro “i caduti” (tra i medici sappiamo che
superano i 100, tra infermiere e paramedici decine e decine, come tra gli e le
assistenti nelle RSA, ma quante sono le vittime contagiate sulle metropolitane
e gli autobus presi per andare al lavoro coatto, quanti gli infettati sulle
linee di assemblaggio?).
Il
presidente dell’Unione industriale di Brescia ora dice che “tener chiuso
sarebbe un suicidio” (sic!), e che l’”azienda è il posto più sicuro”. Lo dice
con una faccia tosta senza precedenti, da una città trasformata in lazzaretto
dalla febbre del fare dei suoi padroni. E questo ci porta a un’altra
riscrittura delle mappe prodotta dal virus.
Perché la
macelleria epidemica lombarda? Perché quella concentrazione di ammalati e
deceduti là dove massimo è l’attivismo produttivo, la fibrillazione della vita
activa, la densità del tessuto industriale oltre che dell’inquinamento?
Non è un
fatto solo italiano: negli Stati Uniti le prime cartografie della Pandemia
mostravano due epicentri, nella east e nella west coast. Nel Regno Unito a
Londra. In Francia nell’Ile de France e nel Grand Est. I potenti hub del lavoro
totale che mette sotto stress i territori. Ma qui è stato peggio. La tragedia
lombarda non ha confronti.
Arrischio
un’ipotesi: forse perché il nostro è un capitalismo double face, intenso nei
suoi baricentri – e la Lombardia è tale – ma fragile. Iperattivo nella sua
molecolare interazione ma debole nella sua struttura di fondo, tecnologica e
finanziaria. Un po’ come quello spagnolo. E’ qui che il coronavirus ha trovato
le proprie praterie…
Ora li
chiamano “eroi”, questi che fanno “tenere” la società, che permettono “che
questa sopravviva nonostante tutto, e che continui ogni mattina come un
miracolo invisibile rinnovato quotidianamente“ (è ancora Maillard). Ma sono
“eroi per un giorno”.
Gli altri,
gli imboscati del front office sono pronti a riprendersi ruolo e privilegi. A
tornare a pagare una miseria il back office, e disporne dei corpi e delle anime
come prima, più di prima. Le mosse delle Confindustrie del Nord lo dicono a
chiare lettere: niente deve cambiare. Si sono presi una bella sberla dal Governo,
per ora. Ma non demorderanno.
Organizziamoci
per impedire che questo accada. Da ora.
da quiNon è lavoro, è sfruttamento - Marta Fana
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