Tra le inettitudini di chi insiste nel considerarla una recessione
passeggera e ritiene di poterla gestire con i consueti strumenti di politica
economica, Mario Draghi ha avuto il merito sul Financial Times di
sgombrare il campo dalle illusioni e di riconoscere la dimensione effettiva di
questa crisi senza precedenti.
L’ex presidente della BCE dichiara che siamo “come in guerra”, e come è
sempre accaduto durante e dopo le guerre la risposta di politica economica
“dovrà consistere in un aumento significativo del debito pubblico”. A suo
avviso, “la perdita di reddito sostenuta dal settore privato dovrà essere
assorbita, in tutto o in parte, dai bilanci pubblici”. Draghi aggiunge che
dalle finanze pubbliche bisognerà tirar fuori anche il capitale di cui le
banche avranno bisogno per coprire i debiti privati divenuti inesigibili: un
modo discreto per chiarire che gli Stati potrebbero esser costretti a
riacquisire una parte consistente delle banche, e non solo di quelle. Per
queste ragioni, “livelli di debito pubblico molto più elevati diventeranno una
caratteristica permanente delle nostre economie e saranno accompagnati dalla
cancellazione del debito privato”.
Persino alcuni tra i più arcigni nemici del debito pubblico oggi
riconoscono che quella suggerita da Draghi è l’unica via in grado di
scongiurare una depressione di lungo periodo. Nell’indicarla, tuttavia, l’ex presidente della BCE elude una questione cruciale: anche
se si eviterà la deflazione da debiti e la connessa depressione, i costi di
questa crisi saranno pesanti. Chi li pagherà? Su quali gruppi sociali ricadrà
l’onere del tracollo in corso? Sostenere che il debito pubblico
assorbirà l’impatto non è sufficiente. Prendendo spunto da un’altra recente proposta pubblicata
sul Financial Times, è possibile approfondire la questione sotto quattro
aspetti cruciali.
In primo luogo, affinché l’espansione del debito
pubblico sia governabile non basta sperare, come fa Draghi, che i tassi
d’interesse resteranno bassi “probabilmente” anche in futuro. Come ho sostenuto in una
discussione con Olivier Blanchard, diversamente da quel che pensano
gli economisti mainstream il tasso d’interesse
è questione non di “probabilità” ma di politica: si tratta cioè di una
variabile che va tenuta ai minimi livelli possibili con una politica di governo
dei mercati che consiste nel blocco della speculazione, nel controllo dei
movimenti di capitale e più in generale in quella che va sotto il nome di
“repressione finanziaria”. Questo tipo di politica sposta l’onere della crisi
sui rentiers e sui gamblers della
finanza mentre salvaguarda le attività produttive, i beneficiari del welfare e
i lavoratori.
In secondo luogo, l’uso delle risorse derivanti
dall’espansione del debito pubblico non può basarsi su forme più o meno
surrettizie di “helicopter money”. Oggi questa formula viene considerata una
benefica eresia ma pochi ricordano che essa trae origine da un approccio alla
teoria e alla politica monetaria di tipo conservatore, che era fondato sulla
“neutralità degli effetti distributivi”: ossia erogazioni uguali per tutti,
ricchi o poveri che fossero. Attuare questa politica, come si tenta di fare
negli USA, è sbagliato. Piuttosto, combinate con una politica fiscale
nuovamente progressiva, le risorse finanziarie derivanti dall’espansione del
debito pubblico dovrebbero esser distribuite in modo selettivo, sostenendo in
primo luogo i redditi dei gruppi sociali più svantaggiati e la solvibilità
delle imprese situate al centro delle catene input-output.
In terzo luogo, al di là dei problemi di debito, di
solvibilità e di domanda, non va dimenticato che questa è una crisi che investe
anche il lato dell’offerta. Se le misure di distanziamento sociale dureranno a
lungo, ci sarà un impatto inevitabile sull’efficienza complessiva dei sistemi
economici, con una caduta della produttività del lavoro e degli altri input e
un conseguente aumento dei costi di produzione e distribuzione. Questi maggiori
oneri potranno ricadere sulle rendite, sui profitti oppure sui salari a seconda
del tipo di politica adottata. Minori saranno i tassi d’interesse rispetto
all’andamento dei redditi nominali, maggiore sarà la possibilità di alleggerire
le attività produttive da carichi fiscali, e quindi maggiore sarà il carico
sulle rendite piuttosto che sui profitti d’impresa e sui salari. In ogni caso,
una politica di salvaguardia dei salari, delle pensioni e di tutte le forme di
sussidio contro eventuali fiammate inflazionistiche si renderà necessaria per
tutelare il potere d’acquisto dei lavoratori e dei soggetti sociali più deboli.
Infine, c’è il rischio che prolungati
distanziamenti sociali diano anche luogo a problemi di “disorganizzazione” dei
mercati, con strozzature nelle catene della produzione e difficoltà di
approvvigionamento che potrebbero estendersi ben al di là del settore
sanitario. Per contenere tali strozzature e impedire che diventino occasioni di
speculazione, è necessario provvedere a una “riorganizzazione” dei mercati
tramite moderne forme di pianificazione pubblica, ove e quando necessario anche
con amministrazioni mirate delle catene produttive e dei prezzi.
Ovviamente, maggiore sarà il coordinamento internazionale, maggiore sarà
l’efficacia delle misure anti-crisi. Tuttavia, come sappiamo, il coordinamento non si sta verificando, men che meno
nell’Unione europea. Eppure gli eventi presto saranno soverchianti,
e bisognerà agire comunque. Credo sia indicativo, in questo senso, che proprio
Draghi nel suo articolo non abbia mai accennato all’Europa unita: lui che la
salvò dal tracollo, con questo silenzio sembra suggerire che stavolta potremmo
vederci costretti a farne a meno per salvare noi stessi.
L’espansione del debito pubblico è dunque l’unica prospettiva razionale, ma
non basta. Occorre chiarire come saranno gestiti i costi di questa crisi
inedita e tremenda. Un piano che sposti l’onere principale sui rentiers, contrasti ogni forma di speculazione e
salvaguardi i lavoratori e i soggetti sociali più deboli potrebbe rivelarsi
necessario per la rinascita non semplicemente economica, ma civile e
democratica. Proprio come accade alla fine di una guerra, quando le forze
illuminate della società escono vittoriose.
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