“Nazisti e Olocausto portano premi.”
The Congress, film di Ari Folman
Premessa: come è potuto accadere?
Interno treno. Nello scompartimento di una carrozza di prima classe
Hitler confabula coi suoi più fidati collaboratori. Si sta dirigendo a Berlino
per raccogliere quel che ha seminato. Elabora le strategie per la presa finale
del potere: su come eliminare gli oppositori interni, nelle SA, e come
diffondere la violenza nei quartieri tradizionalmente comunisti. Siamo
all’ultimo atto della repubblica di Weimar. In una delle strade popolari della
città tedesca incontriamo Kurt, il protagonista di Berlin, la saga di Jason Lutes, che ha visto la conclusione con il terzo volume, La città della luce (Coconino Press, 2018). Il nazismo
sta per travolgere tutti, giovani e vecchi oppositori. Hitler, promettendo ordine
e sicurezza, e additando nuovi nemici a un ceto medio impaurito, sta per essere
acclamato Führer. Berlin è
non solo un’approfondita ricostruzione
storica della Germania fra le due guerre mondiali, che sotto il peso della
crisi economica e delle fortissime tensioni sociali si consegna nelle mani di
Hitler, ma uno splendido romanzo corale, struggente e amaro, sul tragico
destino a cui la grande Storia costringe uomini e donne di tutta Europa. Berlin si distingue per il
segno realistico e melodrammatico, se vogliamo retorico, ma allo stesso modo
appassionante, ottenuto grazie ad un bianco e nero essenziale, fortemente
espressivo che cita il “degenerato” George Grosz. Un disegno, dunque, dal
tratto pulitissimo, che si accompagna ad una sceneggiatura fatta di dialoghi
secchi, di pochissime didascalie e di tavole mute. Grazie anche all’abile
montaggio delle vignette, di tipo cinematografico, fatto di prospettive
diverse, di soggettive, di sospensioni e “ralenti”, Berlin appare uno dei più significativi ed emozionanti lavori
a fumetti sulla Germania nazista.
1 – Raccontare l’antisemitismo
Non già che nell’immediato dopoguerra con la scoperta dell’orrore dei
lager non ci fossero state “narrazioni” sull’orrore nazista, ma è stato
soprattutto negli ultimi decenni, a partire dai ’70 in particolare, che si è
assistito ad una accelerazione della testimonianza dello sterminio attraverso
diari, romanzi, opere storiche. A questa operazione non si è sottratto il
cinema ovviamente, ma neanche un altro medium come
il fumetto, nella sua accezione moderna fatto di storie più mature e di disegni
più complessi, il graphic novel.
Non è facile pescare nell’oceano di opere cinematografiche e disegnate che ogni
anno il mercato offre al pubblico in occasione della Giornata della Memoria.
Per quanto ci riguarda ne sceglieremo solo alcune che riteniamo funzionali al
nostro discorso, escludendo dalla disamina capisaldi come Schindler’s List (1993) di Steven Spielberg e Maus (1989) di Art Spiegelman perché così noti da evitare di aggiungere commenti
superflui. Forse c’è da dire su quest’ultimo che non tutti sanno che egli deve
molto a Will Eisner, considerato il vero inventore del “romanzo disegnato”. Sia
per storia che per disegno, gli animali antropomorfi – i topi (ebrei), i gatti
(nazisti), i maiali (polacchi), i cani (americani) – di Spiegelman sono
tributari nella costruzione della trama e nel tratto deformante e caricaturale
ad Eisner. Due opere uscite a distanza di anni l’una dall’altra ma accomunate
dalla denuncia delle radici dell’odio razziale possono farci entrare più
chiaramente in argomento: L’ufficiale e la
spia (2019), straordinario film di Roman Polański e Il complotto. La storia segreta dei protocolli dei Savi di Sion (Einaudi,
2007), capolavoro disegnato di Eisner. Due artisti di grande fama, di
origine ebraica, che consegnano alle generazioni successive un monito. Il complotto, finito poco prima di
morire, è una sorta di testamento spirituale, che compendia la vita e il lavoro
di uno dei grandi maestri della letteratura disegnata. Allo stesso modo L’ufficiale e la spia non vuole
essere una semplice ricostruzione cinematografica del caso Dreyfus e del famoso J’accuse di Émile Zola,
ma, come il disegnatore americano, anche Polański ha voluto significativamente
marcare il suo percorso di vita e di arte con una storia che disveli
ingiustizia e pregiudizio. Fare divenire gli ebrei capro
espiatorio e accusarli delle peggiori nefandezze è stata la prassi normale per
secoli. Le origini dell’odio
antiebraico sono lontanissime nel tempo. Accusati di essere gli “uccisori di
Cristo”, hanno subito emarginazione e persecuzione fino al culmine dell’orrore
nazifascista, quando, l’antisemitismo, alimentato dalle complesse
trasformazioni della moderna società industrializzata, è divenuto
genocidio. Dreyfus è di famiglia benestante, è un patriota convinto, che viene
dall’Alsazia, regione perduta nella guerra del 1870 contro la Prussia. Il suo
arresto giustificherebbe la sconfitta della Francia: “il nemico è fra di noi”. L’ estrema destra razzista e xenofoba
vuole trovare i colpevoli, si farnetica di complotti ad opera della
“internazionale ebraica”: c’è un colpevole perfetto,
l’ebreo Dreyfus. Anche con Il complotto di
Eisner siamo dalle parti della Grande Storia. Più volte il disegnatore americano aveva raccontato vicende di
ebraismo, di pregiudizi e di razzismo a cui erano andati contro i molti
immigrati ebrei che erano giunti dopo la prima guerra mondiale negli USA.
Storie semplici, quasi minimaliste, che mostravano però il contributo dato
dagli ebrei europei alla costruzione del “sogno americano”. Un’America urbana
la sua, di vicoli e caseggiati in cui – tra autobiografismo e narrazione – si
muove un’umanità semplice ma pulsante di vita, fatta di sogni e desideri,
spesso inappagati, di fortune e sfortune, di vita e di morte (cfr. Piccoli Miracoli o Verso la tempesta). Mai però
l’autore si era impegnato così intensamente, come in questo suo ultimo lavoro,
nel ricostruire le origini dell’antisemitismo novecentesco con una storia che
racconta in modo avvincente quanto i pregiudizi antiebraici siano diffusi non
solo tra minoranze violente e radicali.
2 – Memorie e razzismo
Scrive Valentina Pisanty in I
guardiani della memoria e il ritorno delle destre xenofobe (Bompiani,
2020): “Due fatti sono sotto gli occhi di tutti.
1) Negli ultimi vent’anni la Shoa è stata oggetto di capillari attività
commemorative in tutto il mondo occidentale. 2) Negli ultimi vent’anni il
razzismo e l’intolleranza sono aumentati a dismisura proprio nei paesi in cui
le politiche della memoria sono state implementate con maggior vigore.”(p.5). La questione ebraica, o
meglio, il timore per il mai sopito antisemitismo è argomento sensibilissimo
che tocca nervi scoperti, perché è evidente, ad esempio, che a distanza di
molti anni dalla instaurazione della Giornata della Memoria qualcosa non torna
se razzisti, negazionisti e antisemiti impazzano ovunque. Era l’estate del 2000
quando venne istituita dal Parlamento italiano il giorno che doveva ricordare
l’abbattimento dei cancelli di Auschwitz da parte delle truppe sovietiche e la
liberazione dei sopravvissuti. Nel suo agile libello intitolato Contro la giornata della memoria (add
editore, 2014) Elena Loewenthal scrive preoccupata: “Il punto è che ormai da alcuni anni sento come un peso, talora
insopportabile, questa abbondanza di eventi per i quali a volte era richiesto
un mio coinvolgimento (…) Comunque, le cerimonie del GdM, gli eventi che lo
circondano continuano a suscitarmi un doppio disagio. Il primo viene dalla contraddizione
in termini di celebrare una ricorrenza con qualcosa che sia sempre
<<nuovo>>. Il secondo è un vago, scomodo senso di vuotezza. Di
insensatezza che la celebrazione porta in sé.” (p.18). Il “disagio” vissuto
dalla studiosa di ebraistica è un malessere comune diffuso fra tutti coloro che
hanno a cuore le sorti della libertà e della democrazia. Infatti, il problema è
attualissimo e ci costringe ad interrogarci sui motivi di questa persistenza,
chiedendoci di conseguenza: cosa si può fare? Innanzitutto tener conto degli
ammonimenti di Tony Judt che ci mette in guardia sull’ignoranza della storia da
parte dei governi occidentali, quando assoldando intellettuali di complemento,
lanciano le campagne sul “dovere della memoria”, rappresentazioni in pillole
selezionate di un Novecento dalle sofferenze individuali, che servono più a
scopi politici interni che a capire veramente il nostro tempo. Si pensi al caso
anche delle nostre <<Foibe>>.
Scrive lo storico britannico in L’Età
dell’oblio. Sulle rimozioni del’900: “Il
ventesimo secolo è quindi sulla buona strada per diventare un palazzo della
memoria morale: una Camera degli Orrori Storici di valore pedagogico le cui
stazioni sono «Monaco», «Pearl Harbor», «Auschwitz», «Gulag», «Armenia»,
«Bosnia», «Ruanda»; con l’«11 settembre» come una specie di coda superflua, un
poscritto sanguinoso per chi avrà dimenticato le lezioni del secolo passato o
per coloro che non le avranno apprese a dovere.” (Laterza, 2009, p.6).
Sappiamo di toccare un tema delicato, ma ci siamo posti da tempo il problema
sia come cittadini, sia come docenti – consci della difficoltà di insegnare
storia nell’era della presentificazione, in particolare “misurando il successo
pedagogico o meno” dell’azione educativa come nelle occasioni particolari. Il
Giorno della memoria è una di queste, che ci “costringe” ad un profluvio di
proposte dell’industria editoriale e dell’audiovisivo senza che la propaganda
delle destre xenofobe receda, anzi. La domanda di partenza è la stessa che si
pone la Pisanty nel suo stimolante saggio: “Davvero
è sufficiente ricordare ciò che è stato per tutelarsi contro l’eventualità che
qualcosa di simile capiti di nuovo?” (I
guardiani della memoria, p.17).
3 – Storia, propaganda e ebraismo
Quando uscì Pasque di sangue di Ariel Toaff (Il Mulino, 2007) ci furono
molte polemiche. I due aspetti del libro – storiografico e iconografico – che
intendiamo sottolineare sono funzionali alla questione sollevata dalla domanda
della Pisanty. Preoccupati soprattutto delle conseguenze di una lettura
distorta, che potesse rinfocolare l’antisemitismo, molti storici si affannarono
a smentire il valore del libro. Eppure Toaff – il padre Elio era stato il
rabbino capo di Roma – era consapevole della delicatezza dell’argomento
(“l’accusa del sangue”), era docente all’università di Tel Aviv, era
considerato uno studioso serio che conosceva bene la storia dell’ebraismo,
anche come direttore di Zakhor. Rivista di
storia degli ebrei d’Italia, cui collaboravano personalità come
Riccardo Di Segni, futuro capo della comunità ebraica romana, e accademici come
Giovanni Levi e Giacomo Todeschini. Le pressioni furono, comunque, tali che la
casa editrice ritirò il libro dalle librerie fino a che l’autore non rivide le
parti più controverse per la ripubblicazione. Pasque
di sangue raccontava degli ebrei
nell’Europa di fine Quattrocento, ricchi e poveri, conversi, rinnegati ed
emarginati, di comunità chiuse e aperte, di odi, rancori, di persecuzioni, ma
anche di rapporti più o meno intensi coi loro vicini cristiani. Toaff
affrontava con cautela l’argomento, partiva da lontano, avvolgeva il lettore
con storie, tradizioni, mitologie, riti, consuetudini sedimentate da secoli per
giungere lentamente verso la dimostrazione della sua tesi: ci furono veramente,
tra Medioevo e Cinquecento, ebrei ashkenaziti, che praticarono per ragioni
rituali – legate alla Pesach – omicidi di bambini cristiani. Alle accuse Toaff
replicò confermando che i riscontri oggettivi c’erano. Scrisse di aver applicato
il metodo adottato in Storia Notturna da
Carlo Ginzburg. Fu proprio a proposito della possibilità di utilizzare le
testimonianze sotto tortura degli inquisiti il punto più controverso, che
indusse i detrattori a dichiarare che egli era incorso in un colossale
abbaglio, perché nessun serio storico avrebbe usato parole estorte con violenza
per considerarle poi veritiere. A Trento venne commesso un orribile crimine
contro gli ebrei – dissero – e non c’era alcuna prova concreta che in Italia e
in Europa si praticassero riti così orribili da parte di ebrei. Fra i pochi a
difendere lo storico di Tel Aviv ci furono il medievalista Franco Cardini e
Sergio Luzzatto. Proprio quest’ultimo in Un
Popolo come gli altri (Donzelli, 2019) ha rievocato la vicenda: “La canea contro l’autore di Pasque
di sangue ha rappresentato uno degli episodi
più gravi e obbrobriosi nella storia intellettuale dell’Italia contemporanea.”
(p. 11). Lo storico dell’Università di Torino ci ricorda che Toaff subì gli
attacchi perfino dei suoi antichi sodali, Di Segni e Todeschini, di storici, di
rabbini e di semplici lettori, in realtà quasi tutti impossibilitati a leggere
il libro perché ritirato immediatamente dalle librerie. “Nell’era di internet, una settimana è bastata a trasformare per sempre
la figura pubblica di Ariel Toaff: da capofila internazionale degli studi sulla
storia degli ebrei d’Italia a reietto della storiografia, un poveraccio che
aveva perso il lume della ragione.” (p.12). La
vicenda Toaff sembra paradigmatica della difficoltà del fare storia: può essere
libera la ricerca oggi su certi argomenti in questo contesto così difficile?
Corollario non da poco sono le immagini che corredano il libro. Sono disegni di
opere del tempo di varia tematica: scene bibliche di persecuzione antiebraica,
il sacrificio di Isacco, la circoncisione, la morte di Simonino, l’uccisione di
ebrei. Sono esplicative di come la Chiesa utilizzasse tutto un armamentario
iconico per convincere le masse dei fedeli a lottare contro il male ebraico. E
non solo per motivi religiosi, ma anche economici. Nel mese di dicembre del
2019 è stata inaugurata presso il Museo Diocesano Tridentino a Trento una
interessantissima mostra che ha presentato al pubblico più di settanta opere
sullo stesso argomento: L’invenzione del
colpevole. Il “caso” di Simonino da Trento dalla propaganda alla storia. Attraverso
le immagini si percorre la persecuzione antiebraica scaturita dalla morte del
piccolo Simone e venerato poi dalla Chiesa come un martire. Massimo Romeri in
un articolo apparso su Alias (il manifesto del 15 marzo 2020)
scrive a proposito delle opere presenti alla mostra che esse: “si rivelano nella loro accezione più
ampia, cariche di contenuti iconografici desunti dai verbali del processo ma
anche simbolici, utilizzate come strumenti di divulgazione e quindi veicoli per
sollecitare una risposta empatica delle masse. In parallelo, negli stessi anni
alle stesse masse erano rivolti i sermoni dei francescani che proponevano di
contrastare, spesso, in modo violento, l’attività di prestito dei banchi
ebraici a fronte della promozione dei Monti di Pietà.” Ci volle un clima
nuovo, quello del Concilio Vaticano II (1962-1965), e importanti studi, come
quelli della triestina di origine ebraica Gemma Volli, di monsignor Igino
Rogger e del domenicano padre Eckart per smontare le accuse contro gli ebrei e
porre fine al culto del “santo” Simonino. Erano gli anni in cui cominciavano ad
emergere le storie dei sopravvissuti, il mondo prendeva piena contezza di cosa
fosse stato l’Olocausto grazie anche all’impegno di migliaia di associazioni,
organizzazioni, istituzioni, uomini e donne che urlavano ovunque “mai più.”
Qualcosa poi si deve essere inceppata se oggi tutto questo sembra ribaltarsi in
un nuovo antisemitismo. Ora qualche “responsabilità” nel fallimento
“pedagogico” forse ce l’hanno anche settori del mondo ebraico. La Jewish History – scrive
Luzzatto – dovrebbe essere “storia degli ebrei” e non “una storia ebraica a sé stante, quintessenziale, quasi metafisica, che
va distinta dalla storia di tutte le altre culture del mondo, di tutti gli
altri popoli della terra: unica nel suo genere, grande e terribile, la storia
del Popolo eletto.” (Un popolo come gli
altri, p.5).
4 – La testimonianza e la vittima
Pur coscienti di quanto contino le dinamiche di tipo economico e
sociali e la propaganda politica di certi partiti, proviamo a concentrarci
sull’evidente insuccesso delle pratiche memoriali. In conclusione del suo libro
una amareggiata e disincantata Loewenthal dice: “Il
GdM riguarda tutti, fuorché gli ebrei che in questa storia hanno messo i morti.
Che non l’hanno ispirata, ideata, costruita, messa in atto.(…)La cognizione del
male non è un vaccino. << Ricordare perché non accada mai più>> è
una frase vuota. Se anche non dovesse accadere mai più, non sarà per merito
della memoria, ma del caso.” (Contro il
giorno della memoria, p.93). Davanti ad una resa (così ci pare) della
studiosa di ebraistica, troviamo una ben più risoluta Pisanty, che nel corso
del suo libro affila le armi della ragione per duellare con fini argomentazioni
a destra e a manca e di cui ci avvaliamo per trovare soluzioni ai nostri dubbi
pedagogici ed etici. I temi che affronta riguardano la formazione della
memoria, la sua difesa, la legittimazione di coloro che la dovrebbero tutelare.
Sulla famosa frase di George di Santayana (“Coloro
che non ricordano il passato sono destinati a ripeterlo”) commenta: “Riletta in chiave profetica e lanciata
nello spazio pubblico a mo’ di avvertimento universale, la citazione ha assunto
il valore di una verità autoevidente. Non si pretenda un supplemento di
spiegazioni su come il ricordo dell’evento dovrebbe assicurarne
l’irreperibilità. Non ci soffermi sui contrattempi più ovvi (Hitler ricordava
perfettamente il genocidio degli armeni purtroppo). E non si obietti che ‘non
chi non ricorda, ma chi non capisce il
passato è condannato a ripeterlo.’ E’
prerogativa dei pensieri fondativi – delle certezze di cui parla Wittgenstein – fare a
meno di legittimazioni razionali. I fondamenti non si interrogano. Si accettano
e basta.” (I guardiani della memoria, p.17). Le
riflessioni della Pisanty rafforzano ulteriormente l’opportunità di rivisitare
le pratiche della memoria, sia per salvaguardare lo straordinario lavoro
prodotto negli anni sia per guardare con senso critico ai percorsi delle future
politiche culturali e didattiche. Scrive David Bidussa (Doppiozero del 27 febbraio 2020): “Ho molti dubbi sulla capacità della memoria di diventare progetto,
mentre invece capita sempre più frequentemente che qualcosa che pensavamo non
ritornabile sta assumendo spazi di cittadinanza culturale sempre più ampi,
quantomeno legittimati. Ciò che è in questione oggi non è se la memoria sia
efficace, ma se i percorsi con cui si è inteso darle forma siano quelli più
produttivi per costruire senso comune.”
5
– Esiste un valore morale della storia?
La questione in
altre parole non è solo raccontare quel che è accaduto, quanto la trama
narrativa del ricordo e la sua trasformazione in racconto per la storia. Appare
sempre più problematico rendere prevalente la testimonianza con al centro il
paradigma della vittima: colui che direbbe la verità per definizione. Scrive
Tony Judt: “Qualcuno ha cercato di trarre un
significato dall’Olocausto, altri ne hanno addirittura negato l’esistenza, ma
Primo Levi è più sottile. Da una parte, non vedeva nessun «significato» particolare nei campi, nessuna lezione da imparare,
nessuna morale da trarne. Lo ripugnava l’idea, suggeritagli da un amico, che
fosse sopravvissuto per qualche proposito trascendentale, che fosse stato
«scelto» per testimoniare.” (L’età dell’oblio, p. 60). Sul valore della
testimonianza, diretta o indiretta, la Pisanty si sofferma a lungo per
dimostrarne per molti aspetti la inattendibilità storica. Fare storia necessita
di altri strumenti che rendano più oggettiva possibile la ricostruzione. Negli
ultimi anni, però, anche per ragioni politiche essere accreditati come vittima
è stata la condizione per avere legittimazione pubblica accrescendo la retorica
e allontanando la testimonianza da una razionale analisi dei fatti, addirittura
giungendo ad affermare che solo i Guardiani della memoria possano parlare a
nome delle vittime: “Adattata a una vasta gamma di contesti
storici, la narrazione dello sterminio ha modellato l’immaginario politico
degli ultimi trent’anni, riconducendo ogni conflitto allo schema
vittime-carnefici (…) Di qui la concorrenza delle vittime e le accuse di lesa
memoria che ciascun gruppo lancia ai gruppi rivali. I Guardiani della memoria –
persone, associazioni o istituzioni preposte ad amministrare le pratiche
commemorative idonee – gestiscono tali contese per stabilire chi, tra i
litiganti, ha più diritto di tradurre le proprie rivendicazioni nel lessico
dell’Olocausto.”
(I Guardiani della Memoria, p. 9). Non stupisce che, così
strumentalizzata e avvilita, questa memoria perennemente invocata non abbia più
nessuna efficacia nella lotta contro un razzismo dilagante, perché non basta
raccontare. Affiancata dagli strumenti della ricerca storiografica è necessaria
una nuova didattica che assuma il ricordo come opportunità per tornare a
riflettere sulla storia e sulle modalità di narrarla. Soprattutto è necessario
prestarvi maggiore attenzione proprio quando ci si rivolge ai giovani, bisogna
trovare i mezzi giusti per e-ducare (tirar fuori da sè), perché “fare storia” è
ricerca problematica, non un dato di fatto immutabile consegnatoci dall’alto da qualcuno, autorevole o, peggio,
autoritario, quasi come un atto di fede. Questo è dogma non storia.
6
– Come fai a sapere chi sei, se non capisci da dove vieni?
I ragazzi
apprendono attraverso le emozioni, grazie a cui sono stimolati a compiere
autonome ricerche. Questa è la nostra esperienza da docenti. A volte aiutano
film, romanzi, perfino fumetti. Heimat (Einaudi, 2019) è un buon esempio di quel che può fare
in tal senso un lavoro serio, di ricerca e di narrazione. In questo caso
“disegnata”. L’autrice, Nora Krug, è una tedesca di terza generazione nata nel
1977 a Karlsruhe, in Germania, trasferitasi diversi anni dopo negli USA, dove è
diventata una brillantissima illustratrice tanto da ricevere prestigiosi
riconoscimenti. Heimat è un lavoro grafico esemplare per
provare a capire perché è accaduto proprio in Germania, in qualche modo memore
delle parole di Primo Levi ne I sommersi e i salvati (Einaudi, 2007): “ La colpa vera, collettiva, generale, di quasi tutti i
tedeschi di allora, è stata quella di non aver avuto il coraggio di parlare.”(p. 149). Il romanzo disegnato della Krug si inserisce sulla scia dell’omonima serie cinematografica
di Edgar Reiz, ma anche di un certo filone del graphic novel, che si occupa di narrare
il nazismo. Capostipite è il celeberrimo Maus di Spiegelman. Heimat è un termine intraducibile in italiano. Dire Patria è improprio; chiamarla Casa, pure; Famiglia, insomma; Nazione, neanche. Allora? Proviamo a utilizzare una perifrasi: il
luogo, mio e di tutti gli antenati, dove sono nato, dove ho imparato a
socializzare, a forgiare il carattere e formare l’identità. Se il regista Reiz nella sua
lunga serie percorreva il ‘900 tedesco attraverso le vicende di una famiglia,
questa altra Heimat narra la Germania da un punto di
vista più introspettivo, ma non meno gravido di riflessione. Negli anni in cui
la madre annunciava a tutta la famiglia che a Nora era venuto il ciclo, lei
comincia a scoprire l’orrore dell’Olocausto insieme alle responsabilità dei tedeschi. La Krug
costruisce pagina dopo pagina tra disegni, parole, fotografie, mappe e
documenti un emotivo diario alla scoperta di se stessi. E, infine, Nora assume
su di sé la colpa di un popolo che ha accettato il nazismo e condiviso la
persecuzione contro gli ebrei. Come è stato possibile? Significativa la figura
del nonno, un “uomo di mezzo”, su cui si interroga la nipote: “Perchè Willi entrò nel Partito nazista pochi
mesi dopo aver votato per i socialdemocratici?” Heimat è un testo ibrido saggistico-narrativo
particolarissimo, un ulteriore antidoto ai giorni della memoria ritualizzati. E’ come l’Hansaplast, “il cerotto più adesivo del pianeta che quando lo strappi
per guardare la cicatrice, senti male.”
7
– Fermati, Goldstein, aspetta.
Un altro ottimo esempio, questa volta italiano, di “educare
emozionando” è Rapsodia
in blu (Oblomov, 2020) di Andrea Serio, che potremmo definire un testo
militante, rappresentativo di quel genere di opere che si inseriscono nel solco
di denuncia dell’antisemitismo ma in modo estremamente raffinato. Il lavoro,
infatti, ha la capacità di avvincere grazie alla levità di una narrazione non
didattica o pedante. La storia (vera) è quella del giovane Andrea Goldstein,
ebreo giuliano, che vive gioiosamente l’estate del 1938 sulle coste dell’Istria
insieme a Martino e Cati poco prima dell’emanazione delle leggi razziali. Il
risultato del libro di Serio è un amaro e straordinario esperimento artistico
ed emotivo. Siamo convinti che il buon cinema come il migliore graphic novel non pretendono
certo di risolvere la grande questione del ritorno dell’antisemitismo e del
razzismo, ma attraverso la narrazione di storie emozionanti, implicitamente
pedagogiche, possano, però, indurre il pubblico più giovane alla riflessione
critica.
Conclusione: si può ridere del nazismo?
Scrive ancora la Loewenthal: “Il
GdM è sentito come una ricorrenza civile nel senso di un tributo di civiltà a
chi è stato vittima della barbarie. E’ sentito soprattutto come un progetto
educativo che vede in prima linea le istituzioni a questo votate, che siano
scuole, enti pubblici e privati nati per «educare» il vasto pubblico.” (Contro la giornata della memoria, p.14).
Questo è il punto. Si può “educare” per autorità? Fra le molte
proposte che annualmente in occasione delle Giornate della memoria vengono
offerte al pubblico c’è Jojo Rabbit (
2020) di Taika Waititi. Il film ha una ottima capacità attrattiva per l’abilità
del regista di saper dosare con precisione il passaggio dal sorriso alla
commozione. Dopo prove di ogni genere, (ri)scrivere sul nazismo è sempre
difficile. Non è da poco raccontare cosa è stato la persecuzione contro gli
ebrei, soprattutto farlo con toni lievi, quando il tema stesso è così orrendo.
Il rischio di fallire è sempre dietro l’angolo, ma Waititi si è assunto l’onere
di farlo e ci ha lasciato un film commovente, con grande presa sul pubblico,
soprattutto quello giovane. Con buona speranza per tutti. La ricerca storica
non è mera testimonianza, ma non è neanche solo freddo raziocinio. I fatti si
ricostruiscono scientificamente, poi si interpretano attraverso la cultura e le
proprie passioni.
La via è questa.
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