Ogni giorno
contagiati e morti da coronavirus crescono nel mondo a migliaia e si avverte
che i contabilizzati siano solo una (piccola?) parte degli effettivi.
Generazioni che non conoscono tragedie come la guerra si abituano alla
drammaticità dei bollettini sanitari.
Viviamo un
periodo nel quale la storia corre veloce lungo sentieri incogniti. Anche per
superare la drammaticità del presente, si pensa al «dopo» e trova senso
crescente analizzare gli «effetti collaterali» e prospettici del Covid-19 sulle
relazioni economico-sociali, sulle loro interpretazioni e sulla percezione che
ne ha l’opinione pubblica.
ANZICHÉ nel pessimismo
dell’intelligenza e l’ottimismo della volontà, la crisi spinge a sperare nella
razionalità, ovvero che le critiche, empiricamente verificate, rivolte nei
passati decenni alla visione economico-sociale dominante possano finalmente
ottenere il consenso concreto che non trovarono nemmeno nei governi più
progressisti, rimasti egemonizzati dalla saggezza convenzionale (e dagli
interessi sottostanti). Invece dovrebbe aumentare la diffidenza verso i
volontarismi inconcludenti diffusi dai populismi che di fronte alla complessità
della crisi tendono ad offrirne una rappresentazione semplicistica e/o
strumentale, capace anche di intercettare le crescenti insoddisfazioni che essa
genera, ma senza metterne in discussione i meccanismi di fondo.
La pandemia
sta confermando l’irrazionalità di quanti nella classe dirigente rimangono
abbarbicati alla visione liberista sistematicamente contraddetta dagli esiti
rovinosi del mercato, al rigorismo ragionieristico (con la retorica del «buon
padre di famiglia») incongruamente applicato alle politiche macroeconomiche, ai
modelli di crescita nazionali fondati sulle esportazioni e gli attivi di
bilancio – come quello tedesco – illogicamente riproposti su scala
continentale, dove avanzi e disavanzi inevitabilmente tendono a somma zero.
LA PANDEMIA sta rimettendo al centro delle
relazioni umane l’incertezza che regola la Storia, annullando la pretesa delle
teorie neoliberiste che essa avesse raggiunto il suo termine, cioè che il suo
corso futuro fosse definitivamente tracciato da aspettative «razionali»
coerenti con la persistenza nelle relazioni economico-sociali delle regole
fissate dal liberismo, assurte a livello «naturale» ed estese a livello
globale.
IL
CORONAVIRUS ha
messo in evidenza le inconsistenze del darwinismo sociale che, fondato
sull’individualismo metodologico e sull’idea che la stessa libertà dipenda
dalla capacità dei singoli di badare a se stessi, ha spinto a contenere il
welfare state e comunque a ridurne la sua intrinseca logica sociale nel timore
che le sue prestazioni, frenando la stessa disponibilità a lavorare,
pregiudicherebbero la responsabilità e l’autonomia individuale e,
«conseguentemente», la crescita complessiva.
Invece, il
coronavirus esalta la dimensione di bene pubblico globale della salute,
aiutando a capire che pagare tasse per finanziare il sistema sanitario
nazionale è più efficace e conveniente che pagare una assicurazione sanitaria
privata. La spesa pubblica, specialmente in situazioni emergenziali, deve
tornare a poter contare anche sul finanziamento monetario. Le recenti decisioni
di paesi liberali ma pragmatici come gli USA e la Gran Bretagna confermano che
la logica del “divorzio” tra Banca centrale e Tesoro limita incongruamente la
politica economica.
Il Covid-19
sta mostrando che per assicurare i beni primari a tutta la collettività è
necessaria la programmazione dei mercati e la rivalutazione della dimensione
sociale del lavoro rispetto a quella capitalistica di merce.
LA
DIFFUSIONE incontrollata
del contagio virale sta mettendo in crisi l’economia di puro mercato da
entrambi i lati dell’offerta e della domanda. L’offerta è rallentata dalla
necessità di arginare i contagi virali e dai problemi d’approvvigionamento
degli input a produzione delocalizzata incrementati dai protezionismi che
ostacolano anche le esportazioni di materiali necessari alle filiere alimentari
e sanitarie. La domanda si restringe per il rallentamento dei redditi –
ufficiali e sommersi – e del commercio internazionale.
DALLA CRISI esplosa nel 2008, le politiche
di contenimento dei salari e delle prestazioni sociali pubbliche volte a
ridurre il costo del lavoro non hanno stimolato gli investimenti e il rilancio
produttivo, proprio per la carenza di domanda da esse stesse provocata. Il
notevole aumento della liquidità da parte delle banche centrali, non riuscendo
a stimolare adeguatamente l’offerta produttiva, ha trovato sfogo nel settore
finanziario, nelle attività speculative e nell’aumento del corso dei titoli a
favore degli azionisti e dei manager.
L’ULTERIORE aumento della liquidità, se
nel breve periodo attenuerà le problematiche finanziarie indotte dalla crisi
sanitaria, combinandosi con le nuove difficoltà dal lato dell’offerta, potrà
creare squilibri aggiuntivi, settorialmente disomogenei, tra domanda e offerta,
tra economia reale e settore finanziario. Dopo la stagflazione (l’anomala
contemporanea presenza di inflazione e di stagnazione produttiva) degli anni
’70 potrebbero crearsi più deleterie combinazioni tra recessione/depressione e
inflazione (recesflazione/depresflazione) con effetti conflittuali nelle
relazioni settoriali e nella distribuzione del reddito.
Nella
definizione dei nuovi equilibri internazionali, saranno dirimenti le dimensioni
e il grado di coesione interna di ciascun sistema economico; la valutazione
degli elementi di solidarietà interni all’Unione europea, pur non volendo
affidarla solo a motivazioni etiche, dovrebbe comunque considerare gli aspetti
di convenienza che essi generano. Specialmente in Europa, dobbiamo sperare nel
risveglio della ragione (se non anche dei buoni sentimenti).
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