NOTA DEL
TRADUTTORE
Quello che segue è l’articolo più intelligente, o uno dei migliori, che
abbia letto sul Covid-19. Perciò ho fatto la fatica di tradurlo dallo spagnolo.
L’autore è Ángel Luis Lara, sceneggiatore e studioso di cinema il quale,
evidentemente forzato a casa, si è messo a studiare la situazione. Ho
conosciuto Ángel nel 2009 a San Cristóbal, in Chiapas, a un incontro promosso
dall’Esercito zapatista di liberazione nazionale (Ezln) e chiamato “La digna
rabia”, a cui lui, io e molti altri intellettuali e militanti erano stati
invitati dagli zapatisti e dove ciascuno ha tenuto una sua “ponencia”,
intervento, di fronte a migliaio di indigeni, messicani e gente venuta da
ovunque e sedendo a fianco dei comandanti dell’Ezln e al subcomandante Marcos
(oggi Galeano).
Per Ángel fu facile, parlare in spagnolo, lui è di Madrid, per me fu
piuttosto terrorizzante. E comunque Ángel mi colpì per la sua intelligenza,
arguzia, agilità nel saltare da una corrente culturale a un’altra: ero
piuttosto invidioso.
Ora ho trovato questo articolo nello spazio che El
Diario, quotidiano on line indipendente in Spagna, offre a Amador
Fernandez-Savater, altro piuttosto giovane osservatore della società ai tempi
del neoliberismo decadente, per lo meno dai tempi degli Indignados, e che cerco
sempre di leggere per non sentirmi troppo stupido o tradizionalista.
L’articolo di Ángel Luis Lara è molto lungo, cioè inadatto a Facebook, dove
hanno molto più successo invettive, epigrammi, slogan e foto di famiglia. Ma
siccome da ragazzo leggevo molto Gramsci, mi è rimasta la convinzione che, come
diceva all’ingrosso lui, lo studio è una faticosa assuefazione. Tanto più se si
tratta di un fenomeno come la fine del mondo, o giù di lì, causata da un virus
sconosciuto (uno dei tanti, in verità, solo che questo è peggiore). Perciò a
volerci capire qualcosa e a immaginare cosa fare per venirne fuori, oltre a
prendersela con i governanti per le loro stupidaggini o crimini, bisogna
approfondire.
Traducendolo ho capito molte più cose, e questo è già un bel guadagno. Ecco
l’articolo.
Pierluigi Sullo
Non torniamo
alla normalità. La normalità è il problema
1.
Nell’ottobre del 2016 i suini neonati degli allevamenti della provincia di
Guangdong, nel sud della China, cominciarono ad ammalarsi per il virus della
diarrea epidemica suina (PEDV), un coronavirus che colpisce le cellule che
ricoprono l’intestino tenue dei maiali. Quattro mesi dopo, tuttavia, i piccoli
suini smisero di risultare positivi al PEDV, anche se continuavano ad ammalarsi
e a morire.
Come confermarono gli esami, si trattava di un tipo di malattia mai visto
prima e che fu battezzata come Sindrome della Diarrea Acuta Suina (SADS-CoV),
provocata da un nuovo coronavirus che uccise 24 mila suini neonati fino al
maggio del 2017, precisamente nella stessa regione in cui tredici anni prima si
era scatenata l’epidemia di polmonite atipica conosciuta come SARS.
Nel gennaio del 2017, nel pieno dello sviluppo dell’epidemia suina che
devastava la regione di Guangdong, vari ricercatori in virologia degli Stati
uniti pubblicarono uno studio sulla rivista scientifica “Virus Evolution”
in cui si indicavano i pipistrelli come la maggiore riserva animale di
coronavirus del mondo.
Le conclusioni della ricerca sviluppata in Cina furono coincidenti con lo
studio nordamericano: l’origine del contagio fu localizzata, con precisione,
nella popolazione di pipistrelli della regione.
Ma come fu possibile che una epidemia tra i maiali fosse scatenata dai
pipistrelli? Cos’hanno a che fare i maiali con questi piccoli animali con le
ali?
La risposta arrivò un anno dopo, quando un gruppo di ricercatori cinesi
pubblicò un rapporto sulla rivista “Nature” in cui, oltre a segnalare al
loro paese il focolaio rilevante di apparizione di nuovi virus ed enfatizzare
l’alta possibilità di una loro trasmissione agli esseri umani, facevano notare
come la crescita dei macro-allevamenti di bestiame avesse alterato le nicchie
vitali dei pipistrelli.
Inoltre, lo studio rese chiaro che l’allevamento industriale ha
incrementato le possibilità di contatto tra la fauna selvatica e il bestiame,
facendo esplodere il rischio di trasmissione di malattie originate da animali
selvatici i cui habitat sono drammaticamente aggrediti dalla deforestazione.
Tra gli autori di questo studio compare Zhengli Shi, ricercatrice
principale dell’Istituto di virologia di Wuhan, la città da cui proviene
l’attuale Covid-19, il cui ceppo è identico per il 96 per cento al tipo di
coronavirus trovato nei pipistrelli per mezzo dell’analisi genetica.
2.
Nel 2004, l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), l’Organizzazione
mondiale della salute animale (Oie) e l’Organizzazione delle Nazioni unite per
l’alimentazione e l’agricoltura (Fao), segnalarono l’incremento della domanda
di proteina animale e l’intensificazione della sua produzione industriale come
principali cause dell’apparizione e propagazione di nuove malattie zoonotiche
sconosciute, ossia di nuove patologie trasmesse dagli animali agli esseri
umani.
Due anni prima, l’organizzazione per il benessere degli animali Compassion
in World Farming aveva pubblicato sull’argomento un interessante rapporto. Per
redigerlo, l’associazione britannica aveva utilizzato dati della Banca mondiale
e dell’Onu sull’industria dell’allevamento che erano stati incrociati con
rapporti sulle malattie trasmesse attraverso il ciclo mondiale della produzione
alimentare.
Lo studio concluse che la cosiddetta “rivoluzione dell’allevamento”, ossia
l’imposizione del modello industriale dell’allevamento intensivo legato ai
macro-allevamenti, stava provocando un incremento globale di infezioni
resistenti agli antibiotici, rovinando i piccoli allevatori locali e
promuovendo la crescita delle malattie trasmesse attraverso alimenti di origine
animale.
Nel 2005, esperti della Oms, della Oie e del Dipartimento dell’agricoltura
degli Stati uniti e il Consiglio nazionale del maiale di questo paese
elaborarono uno studio nel quale si tracciava la storia della produzione negli
allevamenti dal tradizionale modello delle piccole fattorie familiari fino
all’imposizione delle macro-fattorie industriali.
Tra le sue conclusioni, il rapporto segnalava, come uno dei maggiori
impatti del nuovo modello di produzione agricola, la sua incidenza
nell’amplificazione e mutazione di patogeni, così come il rischio crescente di
disseminazione di malattie.
Inoltre, lo studio notava come la sparizione dei modi tradizionali di
allevamento a favore dei sistemi intensivi si stava producendo nella
percentuale del 4 per cento l’anno, soprattutto in Asia, Africa e Sudamerica.
Nonostante i dati e gli allarmi, non si è fatto nulla per frenare la
crescita dell’allevamento industriale intensivo.
Oggi, Cina e Australia concentrano il maggior numero di macro-fattorie del
mondo. Nel gigante asiatico la popolazione degli animali allevati si è
praticamente triplicata tra il 1980 e il 2010.
La Cina è il produttore di animali allevati più importante del mondo, e
concentra nel suo territorio il maggior numero di “landless systems” (sistemi
senza terra), macro sfruttamento di allevamenti in cui si affollano migliaia di
animali in spazi chiusi.
Nel 1980 solo il 2,5 per cento degli allevamenti cinesi era costituito da
questo tipo di fattoria, nel 2010 raggiungeva il 56 per cento.
Come ci ricorda Silvia Ribeiro, ricercatrice del Gruppo di azione su
erosione, tecnologia e concentrazione (ETC), una organizzazione internazionale
che si concentra nella difesa della diversità culturale e ecologica e dei
diritti umani, la Cina è la fabbrica del mondo.
La crisi scatenata dall’attuale pandemia provocata dal Covid-19 rivela il
suo ruolo nell’economia globale, particolarmente nella produzione industriale
di alimenti e nello sviluppo dell’allevamento intensivo.
Solo la Mudanjiang Ciy Mega Farm, una fattoria gigante situata nel nord-est
della Cina, che contiene centomila vacche la cui carne e il cui latte sono
destinati al mercato russo, è cinquanta volte più grande della più grande
fattoria bovina dell’Unione europea.
3.
Le epidemie sono un prodotto dell’urbanizzazione. Quando circa cinquemila
anni fa gli esseri umani cominciarono a raggrupparsi in città con una certa
densità di popolazione, le infezioni poterono colpire simultaneamente grandi
quantità di persone e i loro effetti mortali si moltiplicarono.
Il pericolo di pandemie come quella attuale si generalizzò quando il
processo di urbanizzazione è diventato globale.
Se applichiamo questo ragionamento all’evoluzione della produzione di carne
le conclusioni sono realmente inquietanti. In un periodo di cinquanta anni
l’allevamento industriale ha “urbanizzato” una popolazione animale che prima si
distribuiva in piccole e medie fattorie familiari. Le condizioni di
affollamento di questa popolazione in macro-fattorie convertono ciascun animale
in una sorta di potenziale laboratorio di mutazioni virali suscettibili di
provocare nuove malattie e epidemie.
Questa situazione è tuttavia più inquietante se consideriamo che la
popolazione globale di animali allevati è quasi tre volte maggiore di quella di
esseri umani.
Negli ultimi decenni, alcune delle infezioni virali con maggiore impatto si
sono prodotte grazie a infezioni che, oltrepassando la barriera delle specie,
hanno avuto origine nello sfruttamento intensivo dell’allevamento.
Michael Greger, ricercatore statunitense sulla salute pubblica e autore del
libro “Flu: A virus of our own hatching” (influenza aviaria: un virus
che abbiamo incubato noi stessi), spiega che prima della domesticazione degli
uccelli, circa 2500 anni fa, l’influenza umana di certo non esisteva.
Allo stesso modo, prima della domesticazione degli animali da allevamento
non si hanno tracce dell’esistenza del morbillo, del vaiolo e di altri morbi
che hanno colpito l’umanità da quando sono apparsi in fattorie e stalle intorno
all’anno ottomila prima della nostra era.
Una volta che i morbi saltano la barriera tra specie possono diffondersi
nella specie umana provocando conseguenze tragiche, come la pandemia scatenata
da un virus dell’influenza aviaria nel 1918 e che in un solo anno uccise tra 20
e 40 milioni di persone.
Come spiega il dottor Greger, le condizioni di insalubrità nelle trincee
della prima guerra mondiale sono solo una delle variabili che causarono una
rapida propagazione del contagio del 1918, e sono a loro volta replicate oggi
in molti dei mega-allevamenti che si sono moltiplicati negli ultimi venti anni
con lo sviluppo dell’allevamento industriale intensivo.
Miliardi di polli, per esempio, sono allevati in questa macro-imprese che
funzionano come spazio di contenimento suscettibile di generare una tempesta
perfetta di carattere virale.
Da quando l’allevamento industriale si è imposto nel mondo, la medicina sta
rilevando morbi sconosciuti e un ritmo insolito: negli ultimi trent’anni si
sono identificati più di trenta patogeni umani, la maggior parte dei quasi
virus zoonotici come l’attuale Covid-19…
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