La guerra sotto casa continua, con i suoi 20 milioni di fucili, sei milioni
di abitanti e quelle centinaia di migliaia di «invisibili» profughi che nessuno
vuole, ora attanagliati come tutti anche dalla pandemia.
La Libia è il ventre molle dell’Europa, proclamava Churchill nel ‘42 mentre
le truppe del generale Montgomery avanzavano ben oltre El Alamein. Deve essere
ancora così perché oggi la Libia (come la Siria) è sempre più una faccenda tra
Erdogan e Putin e i loro alleati sul campo e nella regione, con gli Usa
innervositi dalla presenza russa e gli europei che si stanno misurando con un
altro flop annunciato, la missione Irini contro il traffico d’armi.
Lasciamo annegare profughi in mare ma nei porti libici e via terra i
rifornimenti bellici arrivano eccome, dai turchi, dagli arabi e persino dagli
europei. Alla faccia dell’embargo e delle false tregue da coronavirus. Che ci
sia aria di un altro fallimento europeo e dell’Onu – che non è ancora riuscito
a sostituire il suo vecchio inviato Ghassam Salamé – lo si intuisce anche da
una pagina che il New York Times dedica alla Libia e ai giochi
dell’amministrazione Trump con il generale della Cirenaica Khalifa Haftar.
Il quotidiano americano ci informa che la Libia è stata «lasciata ai russi»
proprio da Trump che ha subito l’influenza del principe degli Emirati Mohammed
bin Zayed e soprattutto di Al Sisi, «il dittatore preferito» del tycoon americano.
Al Sisi avrebbe convinto Trump un anno fa ad appoggiare l’offensiva di Haftar
contro Tripoli ma intanto l’Egitto ha aperto una base militare segreta per la
Russia, destinata a rifornire i mercenari della Compagnia Wagner e le milizie
della Cirenaica.
Gli americani avrebbero messo inoltre le mani su documenti che comprovano i
legami tra Mosca, gli ex gheddafiani e Seif Islam, figlio maggiore del
dittatore ucciso nel 2011, reclutati per condizionare le mosse di Haftar
ritenuto dai russi un alleato non così affidabile: per sostenerli Mosca li ha
anche dotati di una tv satellitare (Libya Alhadat).
In tutto questo l’Europa sembra avere un ruolo assai secondario. In realtà
è complice di una tragica sceneggiata. L’operazione navale Irini per
contrastare il traffico d’armi appare una buffonata partorita dopo la
Conferenza di Berlino del gennaio scorso. Le navi sono dislocate solo nell’est
del Paese, non possono operare nelle acque territoriali libiche e neppure via
terra. E siccome la maggior parte dei rifornimenti di Haftar arrivano dal
confine con l’Egitto, è chiaro che l’embargo viene continuamente violato.
Ma neppure Sarraj può lamentarsi. Nessuno pensa davvero di disturbare la
Turchia, insieme al Qatar il principale sponsor di Tripoli, un membro storico della
Nato con cui l’Europa scende sempre a patti per trattenere tre milioni di
profughi. Non solo: le ispezioni sulle navi devono avvenire con il consenso
dello stato di bandiera e Ankara, per prevenire «sorprese», mantiene cinque
fregate di fronte alle coste libiche.
La sceneggiata, poi, prevede un numero limitato di comparse. Alla missione
Irini per ora partecipano solo navi greche e italiane, la Francia deve ancora
arrivare mentre la Germania, che pure aveva promosso l’iniziativa, sta ancora
decidendo cosa fare. Così a Tripoli e in Cirenaica arrivano armi e mercenari da
ogni dove. Anche armamenti europei, triangolati con carichi dall’Arabia saudita
e dagli Emirati arabi che sono i maggiori acquirenti dell’industria bellica
occidentale.
La missione Irini serve agli europei per salvare la faccia ma è inefficace
anche nei confronti del contrabbando di petrolio che prosegue senza sosta
mentre il Paese dal 17 gennaio – data del blocco delle esportazioni – ha perso
tre miliardi di dollari e la produzione è scesa a 80mila barili, quasi niente,
il che dovrebbe allarmare pure l’Eni il maggiore operatore straniero.
Sarraj e Haftar con i loro sponsor sono quindi liberi di farsi la guerra e
lo stanno dimostrando le ultime battaglie durante le quali Haftar ha subito una
serie di sconfitte da parte del governo di Tripoli che è tornato a controllare
tutta la costa a ovest della capitale fino alla frontiera con la Tunisia.
Il livello dello scontro si sta alzando: Sarraj ha escluso qualsiasi
trattativa mentre il portavoce di Haftar ha dichiarato che il generale «sta
combattendo una guerra di liberazione contro l’esercito turco». Ed è proprio
questa presenza della Turchia che qualche giorno fa ha spinto una delegazione
di Bashar Assad nel quartiere generale di Haftar a Bayda per firmare un accordo
ripreso dalle telecamere.
Siria e Libia sono sempre più guerre «comunicanti». In vista di un rientro
ufficiale nella Lega araba, Damasco si avvicina al campo filo-saudita,
emiratino ed egiziano alleato di Haftar, uno schieramento anti-turco e
anti-Fratelli Musulmani. Quello che più piacerebbe a Trump – con raìs e
monarchi assoluti – se a sostenerlo non ci fosse la Russia di Putin.
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