“Spiace” dover attestare il fatto
che dopo 10 lunghi anni di persecuzione politica praticamente
nessun mezzo d’informazione, in Italia e nel mondo, sembri interessato a dare
aggiornamenti al pubblico sulla tragica situazione di Julian Assange, il
pluripremiato giornalista, fondatore di Wikileaks, nominato ancora una volta
per il Premio Nobel per la Pace, che esattamente da un anno è incarcerato
arbitrariamente nella prigione di massima sicurezza di Belmarsh a
Londra1.
Curioso, se non altro perché si tratta nientemeno che del caso del
secolo per una serie di motivi già citati qui in
un mio precedente articolo.
Poco sembra importare anche che a favore di un suo rilascio
immediato e senza condizioni si siano espressi l’ONU, il Consiglio
d’Europa, numerosi parlamentari, le maggiori organizzazioni mondiali per i
diritti umani, nonché le maggiori organizzazioni giornalistiche, giuristi,
medici, siano state create innumerevoli petizioni con migliaia di firmatari, si
siano fatte campagne, sit-in, flash mob, conferenze, manifestazioni di ogni
tipo mobilitando complessivamente centinaia di migliaia di persone in ogni lato
del globo. Persino in tempi di quarantena le marce a favore di Assange non si
fermano, come dimostra la prima marcia mondiale
virtuale per Assange di oggi.
Il suo destino però sembra già essere stato deciso dagli USA, mandanti di
un processo-farsa per la sua estradizione che ha toccato e
continua a toccare abissi finora inesplorati in un moderno stato di diritto,
dimostrando inoltre il potere extra-territoriale degli USA che viola
palesemente i principi più basilari di sovranità degli stati coinvolti in
questo drammatico caso. La “giustizia” a stelle e strisce ha infatti “ordinato”
l’estradizione di Assange negli USA per comminargli una pena di 175
anni di prigione per aver “pubblicato informazioni riservate e per
frode informatica” o, come dice il vasto pubblico che ne reclama a gran voce la
sua liberazione, “per aver svolto scrupolosamente il suo lavoro
giornalistico rivelando al mondo intero crimini di guerra nel pubblico
interesse”.
In particolare, dieci anni fa (il 5 aprile) fece
grande scalpore la pubblicazione del video Collateral Murder, oggi al
centro del processo di estradizione, insieme ad altri tristemente noti
documenti che hanno permesso al pubblico di venire a conoscenza di numerosi
crimini di guerra ed altre nefandezze perpetrate dall’esercito americano. Il
fatto sconvolgente è però che a distanza di 10 anni nessuno dei crimini di
guerra esposti sia stato perseguito nei termini di legge: solo chi li ha resi
pubblici è stato vittima di una vera e propria persecuzione giudiziaria.
Basti pensare che la fuga di gran parte di questi documenti avvenne grazie
al coraggio e alla rettitudine morale dell’allora analista
dell’esercito statunitense Bradley Manning – ora Chelsea
Manning – rilasciata il 12 marzo scorso a seguito del terzo tentato
suicidio durante la sua lunga, seppur discontinua, persecuzione giudiziaria e
penale. Se anche la sua drammatica vicenda non fosse un eloquente esempio
dell’oppressione/soppressione dello stato di diritto, costituirebbe certo una
lieta consolazione che almeno lei ora sia libera; pur però attestando in sé il
totale paradosso del veder scagionare chi per primo da militare americano quei
documenti li ha rivelati al di fuori del corpo armato USA, mentre chi li ha
pubblicati da editore si trova tuttora rinchiuso in un carcere di massima
sicurezza in Europa, con l’accusa di aver violato l’Espionage act statunitense,
pur non essendo né cittadino statunitense, né avendo esercitato la sua
professione negli USA2. L’Espionage act che Assange è
accusato di aver violato è una legge degli Stati Uniti del 1917 che
era stata pensata in tempi di guerra per impedire che
si rivelassero informazioni sensibili al “nemico”.
Verrebbe dunque legittimo chiedersi: il governo degli Stati
Uniti considera forse il popolo come il nemico?
Ma vediamo cosa è successo a Julian Assange negli ultimi mesi:
a rendere l’intero caso ancora più preoccupante, specie se si pensa a
questo periodo di grande diffusione del Coronavirus, è il fatto
che il relatore
speciale delle Nazioni Unite sulla tortura e i trattamenti
crudeli, disumani o degradanti, Nils Melzer, già lo scorso maggio quando visitò
J.A. a Belmarsh con due medici specializzati, dichiarò che Assange
presentava chiari segni di tortura e di salute gravemente compromessa. Da
allora si sono susseguiti anche vari appelli da
parte di centinaia di medici di tutto il mondo che dichiaravano che in base
alle informazioni ricevute erano gravemente preoccupati per il
fatto che Assange potesse morire in prigione.
Avendovi già fatto un report abbastanza
dettagiato di come si è svolta la prima parte del processo di
estradizione negli USA di Assange a febbraio, in questa sede mi limiterò a
riportare alcune dichiarazioni contenute in una recente lettera dei
medici che riassume ed evidenzia i diritti umani fondamentali che
vengono negati ad Assange all’interno di questo processo e dell’intero
caso: “[…] incluso il suo diritto alla salute, a non essere sottoposto
a tortura e a detenzione arbitraria, il suo diritto ad un giusto processo, alla
confidenzialità cliente-avvocato e quello di preparare la sua difesa.
Questo è ciò che è risultato palese a chiunque abbia avuto modo di seguire da
vicino il caso e la prima settimana di udienza che si è svolta nella Woolich
Crown Court adiacente il carcere stesso dal 24 al 27 febbraio scorso.
Ma si direbbe che nel caso Assange al peggio non c’è mai fine e lo scorso
25 marzo i rappresentanti legali di J.A. si sono visti negare dalla giudice
Vanessa Baraitser la possibilità del rilascio su cauzione del
loro assistito per la pandemia da Coronavirus in corso, nonostante già un
centinaio di membri del personale della prigione fossero in malattia e i
numerosi appelli per il rilascio di detenuti al fine di evitare la diffusione
del Covid19.
Nel loro ultimo appello del 27 marzo i medici di Doctors4Assange dichiarano:
“Assange rischia fortemente di contrarre e di morire per il coronavirus (COVID-19)
[…]. Le ragioni dell’aumento del rischio del signor Assange includono
la tortura psicologica in atto, la negligenza sanitaria a cui è stato a
lungo sottoposto, la salute precaria e le malattie
polmonari croniche che ne sono derivate.”
Il 3 aprile il Consiglio d’Europa della cui risoluzione vi
avevo parlato qui ha
riclassificato la detenzione di Julian Assange come “Allerta di livello
1” a causa delle gravi e dannose violazioni della libertà dei
media, con particolare riferimento al lavoro giornalistico.
Martedì 7 aprile la Difesa in teleconferenza ha
richiesto una sospensione del procedimento fino a settembre, poiché
non era stata in grado di vedere l’assistito e di prendere istruzioni dallo
stesso per un certo tempo e poiché le difficoltà sono destinate a protrarsi
ulteriormente a causa del blocco per il Covid19. Anche questo è stato
negato. Testimoni oculari affermano che Baraitser sia di nuovo entrata in
tribunale con sentenze già scritte, senza apportare alle
stesse alcun emendamento. E solo alla fine dell’udienza la giudice ha
annunciato inoltre che non ci sarebbe stata alcuna trascrizione,
poiché la sessione non era stata registrata. D’altra parte però la richiesta
della Difesa di non divulgare per motivi di sicurezza il nome della partner e
dei figli di Assange a seguito della domanda di rilascio su cauzione è stata
rifiutata dalla Baraitser in nome di una “giustizia aperta”. Eppure, come fa
notare il diplomatico Craig Murray, nessuno coltiva il proprio
anonimato più della giudice Vanessa Baraitser, della quale su
Internet, praticamente non v’è traccia.
Ma la cosa che rende il tutto ancora più inquietante è che poco prima
dell’inizio del procedimento, un funzionario del tribunale ha annunciato
che Assange non sarebbe stato presente neppure in
videoconferenza, come da programma, in quanto “non stava bene”. Non
sono stati forniti ulteriori dettagli.
Nel frattempo, in quello stesso carcere di Belmarsh che la giudice
sosteneva essere privo di rischi di contagio per Julian Assange, sono morti i
primi due detenuti a seguito dell’infezione da Covid19.
Sono passati 10 lunghi anni dall’inizio del baratro in cui
abbiamo permesso che sprofondasse il prigioniero politico Julian Assange e con
lui i più basilari diritti umani e la democrazia stessa.
È ora di tirarlo fuori!
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1 Bisogna pur
ammettere che la sua situazione è tragica da almeno un decennio, da quando
cioè, si mise in piedi una persecuzione giudiziaria contro di lui in Svezia,
senza alcuna prova a suffragio della stessa, ma che ciononondimeno è durata
sufficientemente a lungo per restituirlo alla “giustizia” britannica,
esattamente un anno fa, quando i poliziotti di Scotland Yard lo hanno
trascinato di peso fuori dall’ambasciata dell’Ecuador di Londra. Che ci
crediate o no, in conseguenza del caso giudiziario mantenuto allo stadio di
investigazione preliminare per 9 anni, Assange è stato consegnato al carcere di
massima sicurezza di Belmarsh; inizialmente con la sola ragione ufficiale di
aver violato le condizioni della libertà vigilata relativa al caso chiedendo ed
ottenendo l’asilo politico (anche se più che di un asilo si è trattato di una
vera e propria “incarcerazione – e neppure troppo – soft”) dall’Ecuador per
timore dell’estradizione negli Stati Uniti. Per ironia della sorte i timori di
Assange si sono rivelati fondati in quanto effettivamente nello stesso giorno,
un anno fa a far data da oggi, la Polizia Metropolitana di Londra ammette
finalmente che gli Stati Uniti avevano inoltrato una richiesta di estradizione
nei confronti di J.A. Da allora è incarcerato nell’attesa di un’estradizione
che sembra già essere stata decisa a priori.
2 Qui ovviamente
non si vuole togliere nulla alla lieta notizia della recente scarcerazione di
Chelsea Manning, lungamente e giustamente agognata da chiunque abbia a cuore il
rispetto dei più elementari diritti umani e della giustizia, tantopiù che M. si
trovava nuovamente in carcere proprio per essersi rifiutata di testimoniare
contro J.A; e neppure si vorrebbe sostenere che sia giusto per un soldato
americano che faccia ciò che ha fatto M. di essere incriminato, ma si vuole
sottolineare l’arbitrarietà e la sommarietà del sistema giudiziario
statunitense per il significato stesso che negli USA viene attribuito
all’Espionage act.
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